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bob71

Episodi visti: 1/1 --- Voto 8,5
Dopo aver girato l’interessante documentario Paths of the Soul, il regista cinese Zhang Yang torna ad esplorare i territori incantati di un Tibet senza tempo, e questa volta lo fa con un film a soggetto, Soul on a String, che costituisce una sorta di dittico con il precedente, non solo per l'ambientazione e il tocco documentaristico dato al racconto, ma soprattutto per le tematiche intrise di cultura tibetana che arrivano a toccare temi universali ed esistenziali. In questo caso però Zhang aggiunge elementi magici a una storia che ha come motore principale la redenzione e l’ineluttabilità del karma.

Tabei (Kimba) è un cacciatore solitario che, dopo aver ucciso un cervo, trova un amuleto sacro nella sua bocca. Per questo motivo un lama tibetano gli assegna un compito: portare la pietra preziosa in una regione remota, cara alla religione buddhista, dandogli solo oscuri e sintetici indizi su come raggiungerla. Tabei, che è segnato da un karma negativo dovuto a un omicidio compiuto da suo padre, intravede nella missione un viatico alla redenzione. Alle sue calcagna c’è però una coppia di fratelli, figli dell’uomo ucciso dal padre che, secondo le tradizioni tibetane, hanno fatto dell’onore e della vendetta la loro unica ragione di vita. Tabei così intraprende il suo viaggio. A lui si unisce presto una giovane donna, Quni Ciren (Choenyi Tsering), che lo ha ospitato nella sua fattoria e con la quale ha condiviso il letto nelle gelide notti himalayane. Nonostante l’uomo sia un lupo solitario e cerchi di dissuaderla dal seguirlo, ai due si aggregherà anche un ragazzino muto e abbandonato a sé stesso, che possiede sorprendenti doti di preveggenza. La carovana di viaggiatori si conclude con due malfattori interessati solo ad impossessarsi del prezioso amuleto e con un fantomatico scrittore in compagnia del suo cane.

Da un lato Soul on a String è dominato dalla bellezza degli scorci naturali, che sovrastano e affascinano, offrendo di continuo scenari mozzafiato al direttore della fotografia, Guo Daming. Quest’ultimo, lungi dall’essere un mero esecutore, va oltre la semplice iconografia del paesaggio e detta il tono del racconto con un abile uso dei colori e della luce. D’altro canto il film strizza l’occhio al mito della frontiera in tanti modi: sordide locande come saloon, mandrie di capre tibetane come bisonti, e poi duelli, vendette, ampi spazi aperti e sconfinati che rimandano inevitabilmente ai classici di John Ford, ma anche al western moderno di Corvo Rosso. Tra dune desertiche, foreste incontaminate e montagne innevate, il regista illustra con approccio etnografico tutta la cultura di una regione misteriosa ed affascinante, impregnata di un’intima spiritualità sempre al centro della narrazione, e traccia la rotta di un viaggio che è sia terreno che spirituale e che è anche metafora dell’esistenza umana.

Alter ego del regista è l’interessante e misteriosa figura dello scrittore-viaggiatore che insegue a distanza di sicurezza Tabei e in cui si riflette ironicamente e sottilmente sul ruolo stesso del moderno storyteller. L’atmosfera del film varia in continuazione di pari passo con il mood del protagonista alle prese con il suo tormentato viaggio iniziatico. Soul on a String richiede comunque un minimo di rudimenti sia delle tradizioni tibetane e sia della filosofia buddhista per poterne apprezzare appieno il contenuto. È un road movie atipico che fonde avventura e ascesi mistica, attraversando la frontiera dell’anima e concentrandosi su tematiche universali, sullo sfondo di una natura selvaggia di abbacinante bellezza. Il regista afferma “il mio è un lavoro sull’odio e la redenzione, la fuga e la responsabilità, la realtà e la realtà virtuale, il karma e la reincarnazione, tutte questioni che appartengono all’umanità”.