Riportiamo un editoriale pubblicato su Mega di agosto, ad opera di Max Ciotola.
Essa propone, in chiusura, una tesi che potrebbe dare lo spunto per un'interessante discussione:


MegaQualche anno fa ho lavorato come "accertatore di sala cinematografica": in pratica, controllavo che il numero di biglietti venduti corrispondesse agli spettatori presenti. Non è il lavoro più strano che abbia fatto.
In un caldo pomeriggio estivo dovevo controllare il film dei
Pokémon. Arrivato sul posto, mi si avvicina il direttore. "Scusami", mi dice tra l'imbarazzato ed il preoccupato, "ma devo chiederti un favore: bisogna regalare ai bambini una busta di figurine per ogni biglietto. Non è che potresti darci una mano a consegnarle? Ti faciliterebbe anche contarli." Vero, quindi la mia risposta fu un (ingenuo): "Ok, va bene..."
Ora: non so se voi conoscete l'Inferno.
Io, nel mio piccolo, sì: l'Inferno è negli occhi dei bambini. Ti fissano, con i loro occhietti, in attesa che si apra il cancelletto: l'unica fragile barriera che li divide dalla busta di figurine dei Pokémon.
Loro la vogliono
, quella maledetta busta di figurine. E non ce ne sono abbastanza per tutti. Tu lo sai e, oh pietà, lo sanno anche loro. Lasciai quel lavoro un paio di settimane dopo e quello che mi è rimasto di quell'esperienza, oltre agli incubi di piccoli occhi famelici che infestano le mie notti, è la convinzione che il Giappone vende.

Ora, diciamoci la verità: i giapponesi hanno tanti pregi, ma non è che siano il popolo più simpatico del mondo. E il sushi, francamente, ha anche un po' rotto.
Ad occhi profani i loro prodotti sono incomprensibili, indistinguibili gli uni dagli altri, e spesso classificabili come "Bieca Operazione Commerciale".
Ma nonostante questo il numero di prodotti giapponesi nel mercato dell'intrattenimento è costantemente, inesorabilmente aumentato fin dagli anni '70 (la "prima invasione"), e il pubblico dei manga-fan è cresciuto e si è evoluto fino ad assimilare costumi e trend tipicamente nipponici. È vero che bisognerebbe approfondire il discorso sul quanto realmente vendono, ma provato solo a contare oggi quante pubblicazioni hanno il senso di laettura giapponese, rispetto a quindici anni fa.

L'impatto televisivo è un buon punto di partenza per capire i motivi di questo successo, ma non può essere tutto qui. In fondo c'è anche altro in televisione, e per quanto la tivvì (cfr. Homer Simpson) sia stata la nostra balia, nulla ha generato un'onda anomala come i robottoni e le orfanelle.
Ci sono decine di ottimi saggi che tentano di capire cosa diavolo sia successo. Di sicuro il fattore "esotico" ha la sua importanza: il fascino di una cultura antica, i suoi riti, le sue tradizioni, e persino le sue stranezze (mai soffiarsi il naso in pubblico!). Ma, per dire, non è che ci siano tutti questi appassionati anche di folklore indonesiano, in Italia.
È una questione qualitativa? Difficile stabilirlo: "gusti personali" e argomenti simili a parte, posso affermare con discreta sicurezza che i giapponesi producono materiale buono e materiale orrido, come tutti. Sulle percentuali, si può discutere.

Il fattore quantitativo credo meriti una certa attenzione: un'offerta ampia e varia è un toccasana per incentivare i consumi, entro certi limiti. Negli anni '80 in televisione c'era uno sproposito di serie giapponesi: c'erano i mostriciattoli, gli studenti, sportivi vari, le orfanelle e gli orfanelli e Dio solo sa quanti robot giganti a difendere la Terra. Con poche serie si coprivano ore e ore di trasmissione, repliche escluse. Almeno per la legge dei grandi numeri, qualcosa di decente lì in mezzo doveva pur esserci.
Adesso, sugli scaffali delle fumetterie, c'è uno sproposito al quadrato di manga: per ragazze, per ragazzi, per bambini, per un pubblico maturo, zozzi, meno zozzi, zozzissimi... per non parlare del merchandising (anzi, no: parliamone. Ma tra un momento).

Quindi, l'offerta c'è, e la domanda pure: il tipico mangofilo ha un livello di "nerditudine" equiparabile, se non superiore, ai migliori Marvel-Zombie e DC-Addicted. Riesce, oltre a leggerli "al contrario", a cogliere le finezze espressive, apprezzare la dinamicità delle tavole, distinguere uno shojo del 1974 da uno del 2010 o un modello di Gundam dall'altro, oltre che, nei casi più estremi, cucirsi complicatissimi costumi e prendere d'assalto le varie fiere.

Quello che ha contraddistinto la produzione giapponese daglialtri modelli è che, mentre nel resto del mondo si facevano fumetti in primo luogo per vendere fumetti, e ci si rivolgeva grossomodo sempre allo stesso tipo di pubblico, i manga hanno alle spalle una impressionante molteplicità di generi è una macchina commerciale progettata per farli diventare, spesso, mezzo per vendere altri prodotti. C'è un apripista che tira (i robottoni, poi gli eroi d'azione, i
Pokémon, le pene d'amore...) e, a seguire, belli o brutti che siano, una sequenza infinita di titoli diversi con merchandising annesso e non più considerato semplice accessorio marginale.

Il mangofilo ha a disposizione l'anime in tv o DVD (o altro...), la soundtrack J-Pop-Rock, poi il videogioco, il modellino, le statue in PVC, ma anche il portachiavi, gli accessori fashion, la collezione di trading figure con i vari tipi di sushi, eccetera. La strategia si può definire, in termini di marketing, un incessante bombardamento a tappeto su vasta scala. Che va avanti da decenni. Per farmi capire: i giapponesi sono riusciti a far avvicinare a quei luoghi di maschia depravazione che erano le fumetterie le ragazzine, e parliamo di un target per cui conosco pubblicitari disposti a fare invocazioni sataniche e sacrifici umani.
Un colosso senza limiti di target, capace di sfruttare e condizionare il passaparola tra i fan e le mode del momento: funziona così bene che in Italia, e non solo, ci sono appassionati di serie (e relativo merchandising) non ancora ufficialmente pubblicate, argomento che prima o poi bisognerà affrontare senza scene d'apocalittica isteria collettiva.

Ovviamente con un mercato così saturo di prodotti c'è una selezione naturale durissima, ci sono titoli che vendono 10 e altri che vendono 0, ma in generale i giapponesi sono ancora in groppa alla belva, e l'immaginario collettivo mondiale ha ormai assimilato i canoni nipponici. Mi riferisco tanto alle
Winx che ad opere più ricercato come Lord of Burger di Barbucci, o a Otomo che disegna Batman. E l'avete riconosciuto Totoro, in Toy Story 3, vero?
Perchè nel mercato globale (ora con Crisi™ Inclusa) tocca adeguarsi per non perdere quella succulenta fetta di mercato disposta a spendere 5 euro per il manga e/o la spilletta dell'eroe dei pomeriggi televisivi di vent'anni fa, o di ieri, o di domani.

Certo, l'armata giapponese ha i suoi limiti: qualche difficoltà a rapportarsi con il mercato estero, tradizionalmente da loro considerato "poco importante", ad esempio. O anche non riuscire facilmente ad evolversi oltre un certo livello: ci sono un mucchio di (anche ottimi) prodotti giapponesi commerciali, ma proporzionalmente pochi autoriali.
Forse è quello che manca ancora al fumetto giapponese per la definitva consacrazione è il Capolavoro, il Colpo da Maestro che i comics hanno avuto con i vari
Watchmen, Il Ritorno del Cavaliere Oscuro, eccetera.

Hanno Nagai e Miyazaki, ma gli manca un Alan Moore, ecco.
Diomio... ve lo immaginate, un Alan Moore giapponese?



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