Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi usciamo dal Giappone con Le cinque leggende, Daria e Ralph Spaccatutto.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


9.0/10
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La premessa da cui parte "Le cinque leggende", ultima produzione animata della Dreamworks in ordine di tempo, è tanto semplice quanto geniale.
Ricordate quando eravamo bambini, avevamo la testa piena di sogni e credevamo che, la notte fra il 24 e il 25 Dicembre, un grosso signore con la barba bianca e un vestito rosso sarebbe entrato in casa nostra passando dal camino e ci avrebbe lasciato un bel regalo sotto un albero decorato con luci e addobbi colorati?
Ci credevamo davvero, a quel signore, il pacioso Babbo Natale, eppure crescendo, abbiamo finito per dimenticarlo, per guardarlo con distacco, lui, simbolo di un'infanzia dalla quale, crescendo, si tende ad allontanarsi, ripensandovi occasionalmente quasi con disprezzo.
E se il buon Babbo Natale, invece, esistesse davvero? E non solo lui, anche tutte le altre figure leggendarie che popolano l'immaginario dei bambini di tutto il mondo, come la fatina che raccoglie i dentini caduti e dà monetine in cambio, l'omino di sabbia che veglia sui sogni dei bambini o il coniglio che porta loro le uova decorate il giorno di Pasqua? Se questi leggendari personaggi vegliassero sul serio, di continuo, sui bambini, traendo forza e gioia dall'affetto e dalla fiducia che questi provano nei loro confronti?
A questi mitici guardiani, scelti da una mistica ed enigmatica entità che vive sulla luna, il compito di proteggere i bambini di tutto il mondo dalla minaccia di Pitch Black, l'uomo nero, che intende strappar loro ogni sogno, per gettarli in pasto a una perenne paura.
Ago della bilancia sarà Jack Frost, un ragazzo che simboleggia il freddo, la neve e l'inverno, scelto per aiutare i guardiani nella lotta contro l'uomo nero. Ma Jack è giovane e pieno di dubbi...

"Le cinque leggende" trova la sua giustissima collocazione nelle sale cinematografiche durante le vacanze natalizie, e non sarà affatto strano se, fra qualche anno, sarà proposto e riproposto in tv sotto le feste, insieme a tanti altri lungometraggi a cartoni animati, a "Una poltrona per due", a "Mamma, ho perso l'aereo", a "Miracolo sulla 34sima strada" e via discorrendo.
E' una storia dedicata ai bambini, quelli di oggi e quelli di ieri, perché, in fondo, parla di loro: di ciò che i bambini amano, di ciò in cui i bambini credono, e di ciò che i bambini temono, sia questo l'uomo nero che infesta i loro sonni con terribili incubi, il bulletto che li tormenta e li prende in giro o anche solo la paura di essere traditi o abbandonati da coloro di cui si fidano.

Una storia dalla premesse molto semplici, che però, racchiude in sé quella magia che gli occhi dei bambini non perdevano mai di vista e che li faceva sognare, trasformando in qualcosa di meraviglioso anche un semplice ovetto di cioccolato o un insegna luminosa.
Merito di un cast ottimamente costruito, che prende figure facenti parte dell'immaginario collettivo dei bambini di tutto il mondo e le trasforma in una sorta di fantastico supergruppo, come fossero gli X-Men guidati dal professor Xavier che lottano per salvare gli uomini dalle malvagie trame di Magneto. Personaggi, tutti, splendidi, che non faticano a lasciare qualcosa dentro allo spettatore.
Ecco, quindi, un pingue omino di sabbia che brilla come l'oro, si esprime a pittogrammi e crea con la sabbia cose incredibili; una fatina dai colori vivaci dall'animo dolce e dalla contagiosa simpatia; un coniglione rude e atletico che pare uscito da un film di Bruce Willis, parla con accento australiano e combatte a suon di arti marziali e boomerang; e, soprattutto, una delle migliori rappresentazioni di Babbo Natale mai viste in un film: un gigantesco omone badass che combatte con due spade, ha un esercito di yeti che costruiscono giocattoli per lui, parla con un accento russo e ride con gioia, con una voce possente e calorosa.
Ottimi i due poli intorno ai quali ruota l'intero film. Il giovane Jack Frost, dai molti tormenti e dal passato misterioso, svolge alla perfezione il ruolo di protagonista, compiendo un ottimo percorso di formazione nel corso della vicenda e riuscendo facilmente a farsi metafora di ogni bambino, che, in fondo, cerca solo un po' d'amore dalla gente. Inquietante e spaventoso, ma anche affascinante, è il perfido Pitch Black che gli fa da contraltare, cercando di attirare a sé la gente usando il terrore.

Divertente, immaginifico, ricco d'azione, "Le cinque leggende" è un film dall'estetica moderna, con personaggi che sanno il fatto loro e combattono con fervore, usando mezzi hi-tech e tanta adrenalina, ma racchiude in sé lo spirito dei classici film d'animazione per bambini e la loro caratteristica principale, quella di riuscire a far sognare, emozionare, commuovere il suo pubblico, donandogli anche tanta positività, fra un sogno e l'altro.
Un entusiasmante inno all'infanzia, che con tanto colore e un po' di dolcezza diverte, esalta, commuove e fa riflettere i bambini così come i grandi, che non devono mai dimenticare i sogni e i sentimenti dell'infanzia (emblematico in tal senso è il discorso che Babbo Natale fa a Jack Frost, nel quale egli dice che, all'interno del suo corpo di omone grande, grosso e impavido, si nasconde un bambino dagli occhi grandi che guarda le meraviglie del mondo e che vuole regalarle agli altri).

Se dal lato tecnico ormai ben poco c'è da dire riguardo al sempre ottimo livello raggiunto dai recenti film americani animati in computer grafica (che, tuttavia, continuano a risultare un po' freddi, soprattutto nella resa delle figure umane più semplici e meno caricaturali, rispetto ai bei vecchi film disegnati a mano di una volta), possiamo però elogiare lo splendido doppiaggio italiano del lungometraggio, che, con un'ottima cura, dà ai personaggi le voci dei doppiatori "ufficiali" associati agli attori coinvolti nella versione originale: ecco quindi che la fatina dei denti, Isla Fisher in originale, è una Federica De Bortoli solare e dolcissima; che il perfido Pitch Black, Jude Law in originale, è un glaciale e mellifluo Niseem Onorato; che il coniglio paquale, doppiato nella versione americana dall'australiano Hugh Jackman, ha la rude e virile voce di Fabrizio Pucci, e che il simpaticissimo Babbo Natale dall'accento russo di Alec Baldwin è doppiato in italiano da un sempre meraviglioso Francesco Pannofino, divertente, roboante e caloroso, che mantiene l'accento e le saltuarie espressioni in russo.

"Le cinque leggende" è un gran bel film d'animazione. Per una volta, la Dreamworks si allontana dalle battute volgarotte o dagli animali antropomorfi per regalarci una bella favola moderna (di quelle vere, dal sapore d'altri tempi, e non di quelle cattivelle e citazionistiche dell'orco Shrek) che farà la felicità di tutti i bambini, quelli che lo sono effettivamente e anche e soprattutto quelli che fisicamente non lo sono più ma che, sotto sotto, ancora non hanno smesso di sognare.
Approfittate volentieri delle vacanze di Natale e correte subito al cinema per godere di questo film nella migliore atmosfera possibile, magari sfruttando come scusa qualche fratellino, cuginetto o figliolo da accompagnare in sala. Per un'ora e mezza, riuscirete a tornare bambini anche voi, a ricordarvi di quel pacioso signore grande, grosso e barbuto di cui aspettavate con ansia e gioia l'arrivo. Arriverà, lo vedrete sullo schermo. Sarà un po' diverso da quello di cui vi parlavano i vostri genitori, ma continuerà ad amarvi e a regalarvi sogni ed emozioni, come continua a fare con tutti i bambini, di ieri e di oggi.



10.0/10
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Era assolutamente prevedibile che il trionfale successo de "I Simpson" negli Stati Uniti e poi nel mondo desse il via a tutta una serie di cartoni animati simili per umorismo e tematiche. "I Griffin", "American Dad", "Beavis and Butt-Head", "South Park", "Drawn Together" e altri devono sicuramente moltissimo alla creatura di Matt Groening. In tutte queste serie infatti si possono ritrovare lo stesso spirito satirico nei confronti della politica e della società, le gag più o meno volgari, il rifiuto di qualsiasi trovata politicamente corretta, il gusto per la parodia e la citazione della cultura popolare in toto. A mio modesto parere però il migliore cartone nato sulla scia de "I Simpson" è proprio "Daria".
Nata come spin-off dell'altra serie culto di MTV, "Beavis and Butt-Head", "Daria" ha una trama semplicissima, come si addice a questo tipo di cartoni. Non è altro che la storia di un'adolescente, Daria Morgendoffen, dal quoziente intellettivo sopra la media, costretta a vivere la propria tragica adolescenza in una cittadina della terrificante provincia americana, Lawndale. Tutti i coetanei la considerano strana e le stanno alla larga, tranne la sua unica amica, Jane, pittrice darkettona che condivide la sua repulsione per il clima di ipocrisia e conformismo in cui sembrano immerse le vite di tutti. L'unica arma che hanno per difendersi dallo squallore quotidiano? La loro sottile quanto splendida ironia, che ci verrà servita a piene mani per sessantasette episodi e due lungometraggi.

Perché dico che questa è la serie americana più bella tra quelle nate sulla scia de "I Simpson"? Innanzitutto per il suo umorismo. "Daria" non cerca la risata di pancia a tutti i costi, come spesso accade ne "I Griffin" o in "South Park", con il risultato che la coerenza del racconto viene spesso sacrificata in nome della vena demenziale della gag. L'umorismo di "Daria" è molto più sottile e cerebrale, non ci si ammazza insomma dalle risate, ma la descrizione della società che vuole denunciare è così resa in ogni sfumatura, anche la più impalpalbile. Il risultato? Che è impossibile non vedere "Daria" senza riconoscersi nelle situazioni che si trova a vivere, o nei personaggi che la circondano. Il focus di questa serie infatti è molto più ristretto rispetto a quello de "I Simpson": se nel cartone di Matt Groening tutto finisce nel tritacarne dello sberleffo (dalla famiglia all'energia nucleare, dalla politica alla televisione spazzatura, dall'economia alla vita di provincia in America), "Daria" concentra il suo sguardo quasi esclusivamente sul mondo della scuola e dell'adolescenza. Scelta certo non improvvisata visto il pubblico della rete dove veniva trasmesso: d'altronde anche "Beavis and Butt-Head" aveva la stessa identica ambientazione e lo stesso tipo di protagonisti. Proprio questa scelta però è un ulteriore elemento a favore della serie, in quanto innanzitutto permette alla stessa di distinguersi dai vari cartoni nati per palingenesi dalla gialla famiglia di Springfield. In secondo luogo "Daria", mantenendosi su dei precisi binari tematici, non si perde in mille rivoli e spunti narrativi, ma ha una sua precisa linea narrativa in cui il tempo passa, i personaggi crescono ed evolvono fino alla naturale conclusione - ebbene sì, "Daria" ha un finale ben preciso. Questo ovviamente non toglie un grammo di forza alla satira urticante di questa serie, anzi, forse l'intento di denuncia sociale è ancora più evidente che in qualsiasi altro cartone del genere visto che non ci sono distrazioni. D'altronde, quali sono i luoghi per eccellenza in cui apprendiamo i valori secondo cui dovremmo vivere e al tempo stesso scopriamo quelli per cui tutti effettivamente vivono? Ovviamente la famiglia e la scuola, microcosmi che in "Daria" ci vengono descritti in maniera lucidamente cinica grazie a una galleria di personaggi spassosi quanto aberranti. Da una parte ci sono i Morgendoffen con la sorella minore di Daria, Quinn, che è la classica truzza piena di amiche e pretendenti, il padre Jake, un uomo insicuro e pasticcione con il complesso di guadagnare decisamente meno della moglie Helen, avvocato di successo preoccupata dal fatto che Daria non abbia amici e, al tempo stesso, incapace di capire perché.

Poi c'è tutto l'universo scolastico di "Daria", fatto da professori nevrotici e frustrati, una preside impegnata a trovare i modi più assurdi per ripianare i buchi di bilancio del liceo e un catalogo di casi umani tra i compagni di Daria non indifferente. Ci sono Brittany e Kevin, rispettivamente cheerleader e quatterback del liceo, così stupidi da fare insieme più che un cuore e una capanna un cervello in due; c'è Jodie, la ragazza di colore cosidetta "secchiona" della scuola che per realizzare i sogni di riscatto dei genitori si rovina la vita in attività utili per entrare ad Harvard; ci sono le terribili ragazze del Club della Moda, stupidissime, acide, pettegole e all'oscuro del fatto che la loro amica del cuore Quinn sia la sorella di quella Daria.

Dando uno sguardo alle musiche e all'aspetto grafico, "Daria" è anni '90 allo stato puro. Lo stile di disegno è volto all'assenza di qualsiasi estetica romantica in salsa Disney, è pulito, preciso nonché brutale nel mostrare i difetti e le caratteristiche dei personaggi. Il comparto musicale è a dir poco eccellente, dato che la colonna sonora è tutta in salsa rock anni Novanta, musica che viene omaggiata anche tramite uno dei personaggi. Difatti Trent, il fratello maggiore di Jane nonché grande amore di Daria, si chiama ed è ricalcato interamente sulla figura di Trent Reznor, il leader dei Nine Inch Nails.

Che dire insomma? "Daria" riprende in pieno lo spirito di un'epoca, gli anni Novanta in America, di cui la televisione fu la spia rivelatrice più evidente assieme alla musica grunge. Un'epoca in cui il manicheismo della lotta tra USA e URSS andava ormai in soffitta, dove la retorica patriottica in salsa revanscista di Reagan post-Vietnam perdeva la sua spinta propulsiva, dove l'ottimismo di plastica degli anni Ottanta mostrava la corda. Un'epoca in cui insomma trovarono il loro spazio in tv serie come "Daria", in cui le cose venivano irrise e mostrate per quello che sono davvero.
Se avete visto già tutti gli anime imprescindibili, passate dall'altra parte del Pacifico e godetevi quest'autentica perla.



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Ralph Spaccatutto, il protagonista del nuovo film Disney, all'inizio della storia è tutto fuorché un protagonista: Ralph è l'antagonista di un vecchio videogioco arcade il cui compito è demolire dei palazzi a mani nude, mentre l'obiettivo del protagonista del videogame (a cui dà anche il titolo: Felix Aggiustatutto) e del giocatore è riparare i danni causati da Ralph. Si tratta di un brutto lavoro per Ralph, perché i personaggi dei giochi non seguono una sorta di protocollo durante le ore di lavoro e poi, una volta terminato il turno, conducono un'esistenza libera, non gestita dal programma: essi possono soltanto attenersi alla programmazione, quindi chi è buono è positivo nel lavoro, nei rapporti interpersonali, praticamente è un vincente in qualsiasi cosa faccia; al contrario, i cattivi sono ostracizzati a priori proprio in quanto cattivi. Ma a Ralph questo ruolo va stretto: vuole dimostrare che non è soltanto un pericolo ambulante. Perché gli altri riconoscano ciò, deve ottenere una medaglia da eroe compiendo un'azione meritoria, come quelle che Felix compie giornalmente riparando i palazzi che Ralph sempre giornalmente distrugge. Comincia così per Ralph una lunga serie di peripezie.

Esteriormente, il personaggio di Ralph si adegua perfettamente allo stereotipo del cattivo: grande, grosso, forzuto, con abiti fuori moda e a brandelli e non tanto attento all'igiene personale; interiormente, i contorni si fanno più sfumati, e se Ralph non sempre sa esprimersi a parole come vorrebbe, i fatti e le sue espressioni facciali (incredibili a livello di animazioni) parlano al suo posto: in generale si tratta di un protagonista riuscitissimo: simpatico e generoso, per lo spettatore è facile calarsi nei suoi panni di eterno outcast e seguire il suo percorso di riscatto e rinascita. L'unica minuzia che mi ha un po' infastidito è l'accento sul suo odore personale poco gradevole: posso starci in un orco come Shrek, capisco serva a renderlo più vicino ai bambini, ma ce n'era davvero bisogno in Ralph? È in ogni caso un appunto che non scredita il personaggio.
In ordine di apparizione il resto del cast principale è composto dalla nemesi di Ralph Spaccatutto, Felix Aggiustatutto: tappetto rassicurante sotto ogni aspetto (modo di esprimersi, doppiaggio, aspetto esteriore), Felix sarebbe urticante come il peggior Topolino di scuola italiana, "perfettino" della "fonchia" sempre e comunque, se soltanto il suo modo d'essere non venisse messo sotto una luce sottilmente comica/ironica e a fargli da contraltare non ci fosse il sergente Calhoun.
Calhoun, Ralph la incontra come soldatessa in Hero's Duty, dove ha il compito di guidare un manipolo di uomini equipaggiati con un armamentario ultramoderno nello sterminio degli schifosi "scarafoidi". Il sergente Calhoun è caratterialmente ed esteriormente il fortunato incontro tra Sailor Urano e Beatrix Kiddo da "Kill Bill": con la sua indole rude e guerrafondaia e "la sua programmazione drammatica", Calhoun è uno dei personaggi più azzeccati del film (per lo meno secondo me).
Ultima in ordine di apparizione ma assolutamente non di importanza è Vanelope. In maniera simile a Ralph, Vanelope è un personaggio reietto all'interno del proprio gioco, Sugar Rush, una simulazione di corse (leggi: fusione tra "Mario Kart" e "Crash Team Racing") ambientata in un mondo letteralmente fatto di zucchero. Con il suo animo peperino (anche troppo), Vanelope sa instaurare un bel rapporto con Ralph, e il modo in cui i due personaggi mal voluti da tutti si aiutano a vicenda è uno dei temi del lungometraggio.

Come si capisce da questa sommaria presentazione dei protagonisti, Ralph e i suoi colleghi possono, una volta che la sala giochi che ospita i loro cabinati chiude alla sera, spostarsi di mondo in mondo e incontrare un'infinità di personaggi differenti. Ciò determina quelle che ritengo le qualità migliori del film Ralph Spaccatutto: l'intelligente incontro di elementi classici e moderni, i numerosissimi riferimenti alla cultura videoludica e alla filmografia Disney (che invogliano a una ricerca della citazione), e la possibilità di letture multiple, dove quest'ultima ha anche il pregio di far piacere il prodotto a ragazzi e adulti (anzi mi chiedo se non possa piacere più a loro che non ai piccini, se per questi ultimi non sia maggiormente soddisfacente una vicenda lineare invece di continui colpi di scena, capovolgimenti di ruolo e i veloci scambi di battute tra Ralph e Vanelope).

C'è un però. Questa grande caccia alla citazione si accompagna a un rovescio della medaglia: se lo spettatore riesce a riconoscere tanti elementi differenti è perché li conosce già: ciò implica che se ci si appassiona a tenere a mente tutti i camei, tutti i riferimenti, tutti i rimandi ad altre storie, questo piacere (che è inoltre relativo: io l'ho apprezzato, ma ad alcuni sicuramente risulterà eccessiva e molesta la sovrapposizione di letture differenti) è bilanciato da un vaga sensazione di déjà vu: già dall'inizio, quando il gestore chiude la sala giochi per la notte e i personaggi si danno il via libera per rientrare nelle proprie case (o discariche o gruppi di sostegno morale per i cattivi) è spiccata l'impressione di stare assistendo a una nuova proiezione di "Toy Story"; in generale, il fatto che i personaggi dei videogiochi siano mostrati possedere una vita propria al di fuori di quando la console è avviata, e la minaccia che incombe, con il passare del tempo e delle mode, più o meno su ciascuno di vedere il proprio gioco scollegato ed essere costretto alla disoccupazione e all'indigenza sono chiari rimandi a "Toy Story". Ancora: l'andare e venire dei personaggi dalla piattaforma centrale di controllo e collegamento ai mondi/giochi, e la presenza della bambina da salvare (la quale immancabilmente "redime" il protagonista dalla vita vuota che lui conduceva in precedenza) sono palesi rimaneggiamenti di "Monsters & Co".
Ralph Spaccatutto è in larga misura una rilettura a tema videogame di "Toy Story" e "Monsters & Co". Ci sono chiaramente delle differenze: l'esodo in caso di scollegamento per i personaggi dei videogiochi non è, almeno per i più a livello psichico, così traumatico come per Woody, Buzz e banda in quanto i primi non instaurano un rapporto diretto, "umano" con i videogiocatori; se Boo è una bambina piccola che non sa parlare e la sua importanza agli occhi di Sulley è più che altro emotiva, Vanelope è energica, chiacchierona, "schizzata", e lei e Ralph contribuiscono a turno a permettere alla vicenda di progredire.

Dunque il nuovo film Disney è più una storia d'atmosfera che non di novità a livello narrativo o di caratterizzazione (innovazioni rispetto a storie più classiche come "Bambi" indubbiamente ce ne sono, ma restano punti di forza di produzioni antecedenti che Ralph eredita ma non sviluppa da solo): la possibilità di viaggiare tra mondi/giochi consente al lungometraggio di spaziare tra ambienti e storie assai differenti, e la sceneggiatura sfrutta a piene mani questa caratteristica; pochi altri film permetterebbero l'interazione di personaggi così esteticamente e caratterialmente differenti (Felix e la sergente dicono tutto), il succedersi di scene in universi opposti (seguire senza incertezze buona parte della visione ambientata nel mondo di Sugar Rush - un nome un programma - dopo che questo ha dato il cambio al grigiore e alla violenza di Hero's Duty sarebbe impensabile qualora l'azione non si svolgesse in una serie di universi paralleli) e il gustarsi il modo in cui gli animatori hanno adattato ai loro scopi gli immancabili cliché da videogames (ma qui si ritorna al punto del paragrafo precedente).
Immancabile a coronare e riunire i fili della storia c'è la formula Disney: non importa ciò che dicono gli altri, è quello che sei e come ti comporti a fare la differenza. E anche qui ho apprezzato la maniera in cui questo messaggio si integra con il mondo della storia: in Ralph Spaccatutto si parla spesso di codice, di programmazione che impedisce (o almeno dovrebbe) ai protagonisti di comportarsi diversamente rispetto ai dati prestabiliti: si tratta di un ostacolo credibile e forte, coerente con le premesse del film, a mio parere più delle opinioni della gente in "La Bella e la Bestia" o "La Sirenetta", e vederlo superare rinforza parecchio il messaggio di base.

Volendo potrei impiegare ore a riflettere e scrivere pagine e pagine per segnalare quelli che reputo gli aspetti migliori di Ralph Spaccatutto, ma non lo farò: preferisco astrarre ed esporre gli elementi per me più significativi, altrimenti sarei eccessivamente prolisso e comunque non esprimerei a pieno l'esperienza della proiezione. Perciò termino dicendo che, pur con qualche riserva che ha peso maggiore o minore a seconda delle inclinazioni personali (in particolare mi rendo conto che è un film piuttosto ruffiano nei miei confronti, perché sa far leva su aspetti che apprezzo: il mondo dei videogiochi, l'intertestualità virtualmente infinita), dubito che Ralph Spaccatutto possa non piacere in assoluto e pertanto consiglio la visione a tutti.