L'ultimo giorno dello scorso Lucca Comics & Games è coinciso con la proiezione in anteprima dell'ultimo lungometraggio di Takahata Isao, La Storia della Principessa Splendente (Kaguya-hime no monogatari). Dopo il film, oltre a uno spazio per il dibattito, si è data la possibilità di un dialogo con Gualtiero Cannarsi sui temi principali della storia. Ve lo proponiamo di seguito, come trascrizione e sotto forma di impressioni filmate.


AC: Dopo la proiezione de La Storia della Principessa Splendente di Takahata Isao siamo con Gualtiero 'Shito' Cannarsi, direttore dell'adattamento e curatore del doppiaggio di Kaguya-hime. Vorremmo fare una domanda su un punto centrale della storia, qualcosa che  mi ero chiesto già conoscendo la trama del racconto giapponese tradizionale da cui è tratto, del tutto o in parte, Kaguya-hime, ovvero il Taketori Monogatari (Storia di un tagliatore di bambù). Il film non ha risolto del tutto quest'interrogativo: la principessa non può o non vuole restare sulla Terra?

Cannarsi: Se teniamo fede, ovviamente, alla versione di Takahata, e quindi a quello che il regista ci ha mostrato nel film, lei dice “Ormai è troppo tardi!”, ripete molte volte di avere implorato di non essere fatta tornare, nel senso di avere avuto questo pieno ripensamento. Eppure, ciò non può avvenire, poiché il suo ripensamento non è sufficiente; sembra che, essenzialmente, il fatto che lei abbia desiderato di tornare abbia innescato qualcosa che non può più essere fermato; quindi, in definitiva, per rispondere direttamente alla tua domanda, sembra che lei, avendo desiderato di tornare, ormai debba tornare, sia destinata a tornare, non possa evitarlo.

Allora scendo nello specifico su questo tema. Questo ritorno sulla Luna è in un certo senso la liberazione dalle emozioni, liberazione dalle passioni terrene che la principessa sperimenta vivendo tra gli uomini. Quindi, il ritorno a questo mondo impassibile, un mondo dove non ci sono le cosiddette “sporcizie” delle emozioni e degli affetti umani, è quasi un congedarsi dalla vita, una rinuncia, quasi una forma di suicidio.

È invero una cessazione. Tu hai parlato di liberazione. Forse in italiano la parola 'liberazione' porta con sé sempre un senso in qualche modo positivo. Sicuramente il passaggio, il ritorno di Kaguya alla Luna, è una cessazione di vita, quindi del tutto affine alla morte, per quello che s'intende esser la morte terrena. Questo penso sia il punto centrale del significato e del valore del film. È ciò che ha dichiarato Takahata, il quale ha affermato di aver realizzato questo film soprattutto interrogandosi sul perché Kaguya sia venuta sulla Terra e dipoi sia tornata sulla Luna. Si è domandato quale sia il significato e il valore di questo passaggio. Tu hai detto “Sembra un suicidio”... io ho la sensazione (però adesso stiamo scivolando nel territorio delle opinioni, ci tengo a precisarlo) che, nel momento in cui la principessa Kaguya desidera di non trovarsi più sulla Terra, si trovi in un frangente di totale sconforto e disperazione cieca; ebbene, quello è il momento in cui, in un attimo di disperazione, una ragazza potrebbe anche arrivare a desiderare la morte. Ovviamente, poi, per Kaguya passa del tempo. Però, si potrebbe dire che, se in un momento di disperazione compi un gesto inconsulto, potrebbe poi essere troppo tardi, e potresti anche pentirtene nel frattempo. E potresti anche non tornare indietro.

Quando mi riferivo al non potere/non volere, forse era questo il punto. Effettivamente, forse, la richiesta del tornare sulla Luna nasce dopo la scena dell'incontro con l'imperatore; se ho ben capito è quella la molla scatenante.

È così, hai ragione. Se diamo conto a quel che dice Kaguya... Tu hai visto il film una volta, io tante volte. Ti voglio ricordare, nel dettaglio, che lei dice, allorché l'imperatore l'ha abbracciata stretta, “Non voglio più restare qui”. È un moto d'impeto; è l'istante quasi cieco, di disperazione assoluta, che può anche diventare un impeto di morte. Quel singolo istante può essere l'istante di troppo.

Essendo passato del tempo, probabilmente c'era l'irrevocabilità di questa richiesta, per questo mi è sembrato un suicidio... forse le attenzioni dell'imperatore sono andate oltre, sono quasi la rappresentazione di una violenza, di una sopraffazione subita dalla ragazza. E in quel momento, dopo quel momento, probabilmente ci si può domandare — sebbene sia un momento che si può 'correggere' — se da lì in poi, anche dopo l'incontro con gli altri pretendenti, non si sia sviluppata una sfiducia nel rapporto con l'Altro. Mi sembra che la sua paura delle passioni umane — il bisogno quasi di atarassia, di tornare in un regno d'imperturbabilità — sia l'espressione dell'essere stata in qualche modo 'bruciata' dalle emozioni e dal confronto con l'Altro.

È molto interessante quello che dici. Probabilmente non ci avevo mai pensato in questi termini, però, adesso che me l'hai detto, certi conti mi tornano. Perché, effettivamente, nel momento in cui lei vuota il sacco, raccontando ai genitori della sua provenienza lunare, lei è molto sui tono di un “è troppo tardi, non si può fare niente”. Riacquista un briciolo di fiducia solo quando vede che Sutemaru è così 'tutta vita e niente pensiero', sul registro del “chi se ne importa, a me non importa niente”, quasi come un animaletto che vive per vivere. Quello ha famiglia, ma non ci pensa, vivendo l'impeto dell'emozione del momento, e lei si abbandona a questo... quindi penso che probabilmente tu abbia ragione. Nel momento in cui lei ha accettato quello che ha desiderato, quell'afflato mortifero in qualche modo è entrato in lei, e lei è entrata quasi nella psiche della condannnata che ha accettato la condanna.

Ad esempio, nel rifiutare i pretendenti, lei lo dice anche, è come se, nel mettere quella corazza, avesse sviluppato una sorta di 'falso Sé'. E tutta questa falsità, probabilmente, le serviva come scudo — uno scudo contro le emozioni delle quali non si fidava più. E, come hai detto tu, si è tornata a fidare in quel momento; però, purtroppo, l'abbraccio di Sutemaru non è bastato, perché comunque vi era stata l'irrevocabilità di quel gesto. Per questo, mi sembra appunto un film che narra la storia di una perdita irreparabile, che però rimane quasi nella memoria del corpo, perché le lacrime persistono anche dopo che la principessa ha indossato nel finale la veste dell'oblio. Perciò, ecco, è un film che nel finale risulta davvero struggente.

Penso che tu abbia ragione di nuovo. In particolare in quello che dicevi sui pretendenti. Effettivamente essi rappresentano per Kaguya una delusione dopo l'altra. Però non è la classica commedia in cui “ah, questa ragazza ha un sacco di delusioni perché sono tutti cattivi”. Ovviamente si vede che, in qualche modo, la sua giovinezza, il suo credere, la sua genuinità viene deprecata da queste delusioni, che in qualche modo la rendono sempre più finta, sempre più costruita, sempre più distaccata, proprio come stavi dicendo. Penso ancor più che tu abbia ragione perché c'è una battuta che, tutto sommato, non mi ero mai spiegato, ma che, adesso che mi hai detto questa cosa, mi torna meglio: quando il padre va ad annunciare che è stata chiamata dall'imperatore, lei risponde “ormai non posso più diventare una concubina”, mentre lavora al telaio. Ciò vuol dire: ormai non ho più quella semplicità che mi permetterebbe di essere felice di diventare... ormai ho bruciato anche questo.

Nel finale della storia la principessa indossa la veste candida, ritorna alla veste piumata e alla dimora immortale. In questo senso però c'è un paradosso, perché l'immortalità in qualche modo è una visione di morte. Cioè si ritorna al regno immortale, in un certo senso, per abbandonare la vita.

Dovremmo dire: ritorna alla non-vita.

Ecco, ritorna alla non-vita. Hai detto anche, nel dibattito successivo alla proiezione, che, in un certo senso, la chiave di lettura filosofica più ampia del film è il contrasto tra la negazione della volontà che è propria del pensiero buddhista, e la tradizione più vitalistica dello shintoismo, con cui si schiererebbe Takahata. In un certo senso sarebbe una rilettura del Taketori che ne sconfessa la derivazione cinese; in altre parole, il fatto che nella storia originale la principessa accettasse più serenamente il ritorno, o non venisse comunque implicato tutto questo turbamento, può significare che il film abbia reinterpretato in chiave vitalistica una storia che sarebbe potuta apparire anti-vitalistica.

Anche qui entriamo nell'ambito delle opinioni, ma ci sono anche dei fatti oggettivi. Il dato oggettivo è che la protagonista di questo film, Kaguya, se è apologetica di qualcosa, è apologetica della 'vita per la vita'. Questo è un fatto. Takahata ha dichiarato: questo è un film che celebra la vita, piuttosto che negarla. D'altra parte, anche pensando soprattutto a come lui in qualche modo celebrava la vita animale dei tanuki in Pompoko, non posso che darti ancora una volta ragione. Ovvero: non sono sufficientemente colto per interpretare correttamente la matrice cinese dell'originale Taketori monogatari (che era comunque già una riscrittura perché scritto in giapponese, quindi in qualche modo era già una contaminazione culturale); però, se parliamo di questo film, che ho studiato molto più a lungo del Taketori Monogatari, penso che esso sia realmente intriso fin nel profondo di un afflato vitalistico fortissimo. Forse come, se non più ancora, de La Principessa Mononoke.

Un'ultimissima domanda che riguarda i due versi dello Hyakunin Isshu che compaiono nel tema cardine del film, Tennyo no Uta. Essi sono comunque un innesto da parte di Kaguya su di una canzone che parla invece di vita nei campi, di raccolto, di natura. Mi ha colpito perché, negli ultimi due versi, si parla di 'mancanza'. Si parla di un sentimento di mancanza che, se porta la consapevolezza dell'attesa da parte dell'altro, d'altro canto porta un desiderio struggente di ritorno, di eliminare quindi la distanza. In un certo senso io non la interpreto tanto come 'nostalgia del vicino', o di un'infanzia perduta. Potrebbe sembrare in certi momenti che la risoluzione del dramma di Kaguya sia il tornare alla campagna o all'infanzia; la sua mi appare però come una mancanza più siderale, più astrale, perché la mancanza che lei canta in quei versi è quella provata da una persona che si trova sulla Luna ed ha nostalgia di qualcosa di molto lontano. Tale nostalgia rappresenta anzi una caduta in un mondo totalmente estraneo, per il quale però vi è desiderio. Kaguya-hime non mi sembra tanto un'elegia della nostalgia, della campagna rispetto alla vita in città, quanto il racconto di un'avventura di caduta nel vortice delle passioni umane. Penso che sia una storia coraggiosa, che il desiderio di Kaguya sia coraggioso, più che nostalgico.

Forse semplificherò un po' quello che tu hai espresso e ti chiedo scusa per questo. La mia sensazione è che in questo film ciò di cui i personaggi possono avere nostalgia, o ciò verso cui esprimono nostalgia, non sia altro che la vita vera intesa come vita di passione, di sentimento. Non vedo onestamente un'apologia della vita bucolica; la vita cittadina non è un male in quanto 'vita metropolitana'. Il problema, per come viene trattato nel film, è che la vita della formalità è una non-vita. È anche quello, in qualche modo, un congelamento della vita. È quasi una pre-morte. Infatti Kaguya lo dice quando viene messa nel suo baldacchino, e c'è tutta la festa intorno a lei, e lei si sente già morta. “Mi sembra come di non esserci”, dice. È come la presenza già di un defunto. Sembra un feretro. Forse, questa è una lettura, o un modo di dirlo, che viene da me, in quanto persona nata in un paese cristiano: sembra quasi che la Luna sia il mondo dove ci sono le anime pure, e in qualche modo le anime pure desiderano di venire al mondo e di nascere in questo mondo, che è il mondo della vita. Forse questa è una forte negazione di quel tipo di filosofia religiosa che vede quasi questo momento di vita terrena come un momento di vita non solo transeunte, ma anche da scontare, quasi che le passioni fossero un fardello di cui liberarsi. Questo invece sembra un contesto in cui le anime desiderano di vivere in un corpo.

È questo tipo di desiderio che ho intravisto anch'io nella storia. Ringraziamo Shito per l'attenzione e la cortesia e vi salutiamo. Alla prossima.

Ciao da Lucca!
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Va a questo punto spesa qualche parola sul dibattito, breve ma significativo, svoltosi dopo la proiezione di domenica 2 novembre 2014. Enucleando i temi principali emersi nella discussione, sembra opportuno sottolineare alcuni aspetti. Come detto, il film è in qualche misura traumatizzante, scuote dalle fondamenta, fin nel profondo.    
Eleonora Caruso, scrittrice e “professionista espressa dal mondo dei fan”, coinvolta da Cannarsi nella discussione, si è detta allo stesso modo devastata. Un punto essenziale toccato nel dibattito è stato il tema della paternità. Il padre terrestre di Kaguya è un genitore che non ha ancora preso le misure con la responsabilità di essere un papà. L'angoscia con cui chiama il nome della bambina, quando, a sera, non la ritrova, è l'angoscia di chi, se la perdesse, non conoscerebbe un domani. Di chi chiama qualcuno che non c'è, dunque chiama nessuno. Ecco cosa accade, quando un nome proprio diventa il nome comune per l'assenza. Si chiama disperatamente, per rendere presente l'invisibile.

Altro tassello è l'evoluzione di Kaguya, da bambina ad adolescente. La fanciulla cresce alla pari con gli altri bambini, va a caccia di rane, e poi... diventa una principessa. Viene fatta diventare tale. Il papà lo fa in totale buona fede. Shito mette in evidenza la sua empatia col sentimento del padre. Questi è meno di un contadino, è un raccoglitore, va a fare legna nel bosco, e vuole fare il bene della figlia. Non sta proiettando le proprie aspirazioni. Sta costruendo uno scrigno ideale, dove custodire il Sommo Bene. Ha trovato l'oro e non ha speso una pepita per sé. “Non si sente degno della figlia che il cielo gli ha donato. Si sta sforzando di recitare, di essere all'altezza della figlia”. E sprona anche la madre ad assumersi 'le responsabilità del ruolo': «Tu sei la madre di una nobile damigella». La madre è però più affine alla figlia: perché il corpo sa farsi più vicino all'altro di quanto non facciano i sogni.
Il padre prova a capire, ad avvicinarsi alla figlia con la comprensione. Ma fa più e fa tanto stringerla al petto. Non capisco, ma ti abbraccio.
Il padre cerca di dare un senso. La madre accoglie la ragione profonda del turbamento di Kaguya senza chiedere il perché. Il padre, infine, non accetta: è ferito dal fatto che Kaguya se ne debba andare. Non se ne fa una ragione

Ma torniamo alla crescita di Kaguya. Essa è fare esperienza, ma anche diventare più pesante. Perdere lo spirito di leggerezza. Domanda: Se uno vede questo film come se fosse finito male, di chi è la colpa? Chi ha sbagliato? Cosa è andato storto nel percorso? “Kaguya a una certa età comincia a recitare il ruolo della figlia che il padre vorrebbe che fosse”. È una discomunicazione in atto, e fa danno, ma fa parte della vita. Non esiste una vita dove tutti si spiegano bene, e comunicano ogni cosa nel modo migliore.
A volte si comunicano le paure, e si nascondono i bisogni.
Non esiste una visione netta della conclusione, non ci sono distinzioni manichee tra bene e male. E allora, cosa è successo davvero? Quali forze sono in gioco? Potremmo dire: linearità del maschile e circolarità del femminile. Il tutto è molto umano, e buffo. Quello di Kaguya è un archetipo profondamente umano. Pensiamo alla vicenda del volerla dare in sposa.
Fa pensare al sacrificio (scongiurato) di Ifigenia, nell'Ifigenia in Aulide di Euripide, dove viene messo in scena il contrasto tra figura paterna e materna, nel momento in cui è in gioco il futuro della figlia.
La proteleia, il passaggio sacrificale dalla fanciullezza alla vita adulta, il traghettamento dalla casa paterna a quella maritale, tutto questo è scongiurato dalla difesa divina della verginità.
Sottrarsi al sacrificio, all'imposizione del sistema patriarcale, significa in quel contesto mantenere la purezza.
E, tuttavia, vi è una terza via, tra la fuga dal mondo e la vita costretta dai legacci della forma, dell'inautenticità, dell'essere a tutti i costi devoti e ubbidienti, servi della comunità e del suo sistema di regole. Vi è la via della singolarità, dell'unicità, della fedeltà alle emozioni. Essere fedeli all'infedeltà, tradendo sia le regole divine che quelle terrene, per essere sé stessi. Senza dover ridere o piangere solo perché questo ci farebbe sentire meno soli. Piuttosto, abbracciare la solitudine, che, pure, conduce dall'Altro, imperscrutabile.
«Fedeltà è fare come se il tempo non esistesse». Di quale tempo si deve liberare Kaguya? Insieme dell'eterno e del quotidiano, dell'immortale e dell'effimero, per approdare all'istante, alla pienezza del presente. Al momento in cui ci si può sentire vivi. La vita è una questione di ciò che si fa col tempo.
Si può sprecarlo, facendo commedia, teatro. I cinque pretendenti di Kaguya sono in effetti quasi maschere della commedia dell'arte: il faccendiere, il Creso crasso, il guerriero pusillanime (miles gloriosus), il diario di un seduttore (l'istrione che seduce e delude la fanciulla), il giovinetto inesperto, che, tragicomicamente, muore. Dal momento grottesco, d'un colpo, si passa però al pianto. Vero, non c'è in vista nessun coccodrillo. Kaguya si sente responsabile di una morte. Dov'è andato a finire il mio gioco? Stavo gabbando cinque stupidi, ma poi cosa è accaduto? Non è più un gioco.
Ancora, si può fare della vita un modo per riprodurre altra vita.
Sutemaru è sposato, ha una bambina. Kaguya è rimasta chiusa in una scatola, lui invece ha vissuto, “come gli uccelli e le bestie”. Lei è stata 'cristallizzata'. Ma le emozioni stesse, non sono forse cristallizzazioni anch'esse? Il problema è raccogliere il rametto d'albero dal fondo della miniera dell'anima, ripescarlo da dove lo si è lasciato cadere, all'inizio di ogni amore. E vedere quanto sia prezioso, ammirare il suo splendore. Kaguya, a un certo punto, non ci vuole più provare.
Non lo vuole più fare, più che mai da quella scena, dall'abbraccio dell'imperatore, che le ispira orrore. Il volto terrorizzato di Kaguya è il simbolo di qualcosa di più pesante di un abbraccio, di una violenza cui segue il crollo, il pianto. La fanciulla si ammanta dell'intoccabilità del pudore.
«Non voglio più essere qui». Il tempo si ferma. No! È l'irruzione dell'irrevocabile.
Ma qual è il senso della parabola terrena della ragazza? Dall'amore incondizionato dell'infanzia agli obblighi dell'adolescenza. La figlia devota, la ragazza sofferente, e poi... il ritorno alla Luna. Una liberazione? O piuttosto la fine?
Il baldicchino dell'eternità si nasconde dietro la cortina della morte.
I celesti che vengono a riprendere Kaguya richiamano le icone del buddhismo della Terra Pura. Che vuol dire Amidismo, Jìngtǔzōng, la promessa di una vita priva di passioni. Chii Takeo, doppiatore dell'anziano tagliatore di bambù, chiese a Takahata, prima di accettare la parte: “Hai fatto un film che nega la vita?”. Takahata negò recisamente. E lo convinse.
Anche essere pestati a sangue è vita. Sinanco come le bestie. Al contrario, per ritornare alla Luna, bisogna essere mondati di tutto il sangue versato, di tutto il dolore e l'amore provato.
Il Buddhismo Mahāyāna, non a caso, enfatizza i rituali. Ma viene da pensare, ancora, al sacrificio del tempio greco: il taglio della ciocca o la consegna del giocattolo della bimba, perché possa diventare adulta. Il rito di passaggio come lavacro, fine della sofferenza. Ma, anche, soppressione di ogni affetto. Repressione di ciò che è umano nella donna e nell'uomo. Il Paradiso lunare, in cambio, promette la liberazione dal ciclo karmico. Ma il desiderio vuole ancora la vita, col suo turbamento. Il «Mille volte torneremo» che appare nei sottotitoli in chiusura allude alla rinascita di Kaguya, tornata bimba, riflessa sul disco lunare. Allude alla ripresa della vita nel ciclo delle rinascite, all'eterno ritorno del desiderio. Mille volte e ancora mille.
Kanarazu mata aeru/Natsukashii basho de.
Lo dice benissimo il testo di Inochi no Kioku.

La gioia dell'averti toccato...
profondamente, profondamente...
in ogni angolo di questo corpo...
... va permeandosi.

Da tanto lontano...
se anche finissi a non riconoscere più nulla...
pure nel caso che per questa vita…
arrivasse il momento della fine…

Ogni cosa di adesso è…
ogni cosa del passato…!
Senz'altro ci rincontreremo…
… in un luogo nostalgico.

[ringrazio Shito per l'indicazione dei versi della canzone]

Il natsukashii basho è il luogo della mancanza. Il luogo che rende presente un'assenza. Dunque, andare via non è liberazione, ma piuttosto essere strappati. È il tempo dell'angoscia che mette in moto le emozioni: la rabbia, la tenerezza, la paura — l'odio, l'amore.
Il cuore si dilata e si contrae, la vita diviene. Il gattino, lo stesso con cui giocava Kaguya da piccola, ha fatto i cuccioli. Lei è ferma. Come un dio buddhista. Takahata odia il buddhismo. Anche in Pompoko, ricorda Shito, i tanuki destinati alla morte “iniziano a fare la preghiera buddhista e si suicidano al suono di un tamburello”. È una distopia, è ironia tragica: “un allegro momento di pazzia”. Arrivano tutti dalla Luna, i lunatici. “Nella tradizione cristiana il dies natalis era il giorno della morte, si nasceva alla vita divina, era la nostra Pasqua, la rinascita al regno dei cieli. Il refrigerium per il dies natalis era il funerale”, continua Cannarsi, che non manca di rimarcare come questo aspetto nichilistico sia comune al cristianesimo e al buddhismo. Si promette una vita migliore dopo la vita, l'annullamento del patimento. Takahata è pienamente shinto, e odia tutto questo.
Concludiamo ritornando al padre. Di Kaguya, l'anziano tagliabambù dice: mi è stata donata. Egli pensa che la figlia sia chiamata a grandi cose. Al benevolo 'senso di possesso' del padre fa da controcanto la moglie, che la percepisce subito come creatura da crescere. La Caruso e Cannarsi condividono l'idea che la paternità sia una costruzione che si sviluppa col tempo, un'affermazione progressiva, non un aspetto naturale. Ma poi diventa sentimento, e fa sciogliere in lacrime il padre. Lo conduce a negare la necessità dell'abbandono di Kaguya: dev'esserci un modo perché questo non accada.
A un certo punto, Kaguya smarrisce la strada. Si chiude a riccio, si barrica dalle emozioni. Diventa Narciso.
Cosa può aiutarla? «Siamo stati tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse».  
Può salvarla la parola. Il cuore messo in parole, questo può salvarla. A non morire di mancanza. Le parole non sono sempre fatte di suoni. A volte sono gesti. A volte sono abbracci. A volte sono silenzi. Non giungono mai tardi. Come il “Perdonami, Principessa”, l'ultima battuta del padre. Questa, si crede, è un'aggiunta dell'attore, perché non ve n'è traccia nel copione. Takahata l'ha lasciata stare. Perché era il cuore messo in parole.
Kaguya-hime è un film ellittico. Non dice tutto. Neppure, a volte, quando sia vita e quando sia sogno.

[Si ringrazia molto Alessandro per le riprese video]