Guardando ai decenni passati, pare che venissero realizzati meno anime, ma che in compenso godessero di una durata di trasmissione maggiore, spesso portata oltre i cinquanta, o anche cento episodi. Cos'è che ha spinto i produttori a passare al sistema attuale, con serie per la maggior parte composte di dodici o ventiquattro puntate?

Il modo di finanziare gli anime oggi, nell'era delle serie televisive di fascia notturna, è molto cambiato rispetto alle scorse decadi. Generalmente, per far sì che una serie anime venga prodotta, è opportuno che almeno quattro associazioni, ognuna delle quali con un ruolo differente, vengano ad un punto d'incontro. Innanzitutto c'è chi si occupa della pianificazione (kikaku) dello show, lo traina e ne fa da produttore; solitamente è anche chi ingaggia lo studio d'animazione; serve poi un network televisivo; e infine, è necessario uno sponsor primario. Ovviamente molte altre compagnie sono coinvolte, ma in termini di essenzialità, queste quattro compongono il nucleo della produzione.
Anteriormente al boom degli anime in notturna, esse funzionavano come enti separati di medesima affidabilità. La società di progettazione decideva cosa adattare (o creare da zero) e si metteva alla ricerca di uno sponsor. Quest'ultimo procurava i fondi, in cambio di spazi pubblicitari e product placement. Lo studio d'animazione realizzava lo show, e l'emittente TV lo mandava in onda. Per decenni è così che sono stati gestiti i segmenti televisivi dedicati agli anime.
E quando la cosa funzionava, dava grandi frutti. Se il programma era un successo, stimolava la vendita di giochi, modellini e giocattoli (e gli sponsor, molto spesso, erano appunto marchi di giocattoli). Finché si vendeva, lo sponsor era soddisfatto, e continuava a sborsare denaro per realizzare lo show, che in tal modo andava avanti ancora, ancora e ancora. Questo processo si ripeteva finché le vendite non si arenavano, o a meno che non si finisse completamente a corto di materiale da animare (cosa che si cercava di prevenire quanto più a lungo possibile). Tanti anime erano programmati per un numero finito di episodi (di solito 26 circa), ma molti di più erano pensati per proseguire a tempo indeterminato.
 
Immagine.png

Il problema è che non sempre le cose riuscivano bene. Se un anime non faceva colpo fin dall'inizio, qualche sponsor pazientava più di altri nel verificare se prima o poi si sarebbe formato un certo seguito, finché non si giungeva alla conclusione che si stesse sprecando denaro, optando in tal caso per la sua cancellazione. Tuttavia i lunghi tempi di produzione imponevano la lavorazione anticipata di episodi che avrebbero coperto settimane, magari mesi, di programmazione – alcuni erano praticamente già completi. Bloccare la produzione di un anime è come provare a fermare un treno merci, ovvero, richiede tempo.
Se l'opera era un flop, all'interruzione delle attività corrispondeva uno spreco ancora maggiore, poiché andava a intaccare seriamente la disponibilità di fondi da destinarsi ad altri lavori. A meno che non si avesse tra le mani un'improponibile schifezza, era più sensato portare a termine gli episodi invece di cestinarli prima del completamento – sarebbero pur sempre esistiti dei fan disposti ad acquistarli in home video. Talvolta le puntate conclusive erano rilasciate in forma di OAV (original anime video) in un secondo tempo. Lo sponsor, però, restava insoddisfatto. Neppure certi fiaschi colossali venivano completamente abbandonati se non dopo la soglia dei trenta episodi, come minimo. Il che era un enorme spreco di risorse.
Per di più, mentre il sistema funzionava benone per (alcuni) prodotti per bambini, in particolare quelli che più facilmente si prestavano alla vendita di giocattoli, lo stesso non si poteva dire per altri generi di opere, molto più “rischiosi” in tal senso. Un maturo dramma militare o una storia romantica, per esempio, non sono granché adeguati alla distribuzione di un proprio merchandise. Non è un caso che negli anime shoujo degli anni Novanta si noti una presenza spudorata di pubblicità indiretta. Da questo dipendeva anche la presenza molto maggiore, rispetto ad oggi, di serie rivolte ai più piccoli.
 

Le altre tipologie tendevano al formato OAV semplicemente perché gli autori non dovevano preoccuparsi di imbonire un prodotto per conto dello sponsor: l'home video costituiva, già di per sé, il prodotto. Ad ogni modo, in una lenta fase di transizione iniziata nei primi anni Duemila, il mercato degli OAV e gran parte di quello televisivo finirono per combinarsi, aderendo al cosiddetto sistema Seisaku Iinkai (Comitato di produzione). Si era trattato perlopiù di una scelta necessaria, dal momento che l'economia giapponese era allo sbando e stava quindi diventando difficile procurarsi il sostegno finanziario degli sponsor.
Nel comitato produttivo, gli organi preposti alla progettazione e al finanziamento, in sostanza, vengono a combaciare. Il comitato in sé è un agglomerato di compagnie dagli interessi vari e divergenti (prendiamo, ad esempio, un'azienda di giocattoli, una casa discografica, uno sviluppatore di videogiochi, un'agenzia di spettacolo) che finanziano la creazione del progetto, e pagano i canali televisivi, che a loro volta provvedono al broadcasting dell'anime nelle prime ore del mattino. La messa in onda è intesa principalmente come mezzo promozionale per le uscite home video e per qualsiasi tipo di merchandise ne derivi.
 


Anche se la pianificazione è comunque condotta in larga parte da una singola compagnia, all'intera commissione spetta voce in capitolo sulla serie, sui suoi contenuti e su qualunque operazione relativa ai diritti di proprietà. Al fine di limitare i rischi per le compagnie coinvolte nei comitati, ogni stagione è programmata per un numero limitato di episodi, dagli undici ai tredici. Se il successo arriva, si può dare il via libera per stagioni aggiuntive in futuro; in caso di flop invece, ogni membro della commissione va comunque a rimetterci solo i costi per un singolo cour – costi che di norma rientrano tramite le vendite internazionali dei diritti, l'home video e qualsivoglia gamma di articoli a tema si riesca a mettere in commercio.
Il criterio corrente non è sempre infallibile – può capitare infatti che qualcosa vada storto e che si finisca per non riuscire a combinare letteralmente nulla – ma persiste ancora oggi dopo oltre dieci anni, ed è la prima scelta anche in merito ad opere che avrebbero potuto avere ugualmente fortuna nel sistema delle sponsorizzazioni. Sebbene permanga comunque quella manciata di show per i quali si preferisce fare alla vecchia maniera (in prevalenza brand di lungo corso per bambini), è assicurato che se in Giappone una serie animata viene passata in TV a tarda notte, presumibilmente a cadenza stagionale, allora a guidare la nave vi è un comitato di produzione, che è ben accorto a non lasciarsi andare a spese folli per un numero esorbitante di episodi. Perché non si sa mai cosa sarà un trionfo, e cosa un fiasco.

Fonte consultata:
Anime News Network