Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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È il 1995, e nelle sale giapponesi viene proiettata l’opera riconosciuta da tutti come il “Blade Runner” dell’animazione, nonché massimo esponente del cyberpunk nipponico: “Ghost in the Shell” è un lungometraggio della durata di ottantadue minuti prodotto dallo studio Production I.G. e liberamente ispirato all’omonimo manga scritto e illustrato da Masamune Shirow. L’anime è diretto Mamoru Oshii, già regista di “Lamù” e del criptico OVA “Tenshi no Tamago”.

La storia si svolge nel 2029 in una metropoli fittizia chiamata New Port City: il mondo è quasi interamente informatizzato, e gran parte della popolazione possiede un corpo cibernetico all’interno del quale risiede uno spirito denominato “ghost”. Protagonista del lungometraggio è il maggiore Motoko Kusanagi, un cyborg membro della sezione 9 di pubblica sicurezza. Questa divisione del Ministero degli Interni giapponese è ora sulle tracce del “Burattinaio”, un potente hacker che ha attaccato il cyberbrain dell’interprete di un ministro del governo.

Fornire al pubblico una serie di spunti di riflessione avvalendosi dell’ausilio di immagini fortemente espressive e di una sceneggiatura curata nei minimi dettagli: è questa una delle qualità che più apprezzo in un’opera, e sicuramente un compito che “Ghost in the Shell” è riuscito a portare a termine in maniera egregia. L’intreccio che sta alla base del lungometraggio, coi suoi sviluppi abbastanza lineari e i misteri sviscerati di volta in volta, potrebbe essere infatti accostato a una qualunque altra opera dello stesso genere. Ma sono i dubbi che questa storia è capace di sollevare, e la maniera in cui sono trasposti sullo schermo, a fare del film un autentico capolavoro.

A porci di fronte a tali questioni esistenziali sono soprattutto i dialoghi e i monologhi proferiti dalla protagonista e dall’antagonista, due personaggi molto simili che non fanno che interrogarsi sul vero significato della loro esistenza. Motoko, infatti, mette spesso in discussione la genuinità della propria natura, non avendo prove che il suo ghost non sia solo un ammasso di ricordi artificiali impiantati manualmente da qualcun altro. Anche il concetto stesso di esistenza, di “io”, viene meticolosamente analizzato: cosa contribuisce a definire l’identità di un individuo? In un mondo completamente informatizzato, è semplicemente l’accumulo di informazioni che porta alla nascita di un’entità senziente? E cosa significa davvero “vivere”? Poter diversificarsi, poter trasmettere i propri geni, avere la possibilità di morire? Com’è facile intuire, il confine tra riproduzione biologica e informatica è allo stesso tempo labile e coriaceo, così come lo è la separazione tra mondo reale e virtuale.

Laddove le parole sono assenti, tocca alle immagini veicolare, forse in una maniera ancora più incisiva, i messaggi di cui l’opera si fa portatrice. Ad esempio, la forte volontà di Motoko di voler rimanere ancorata alla sua parte più “umana” si rivela nella stupenda scena nel lago, nella quale la ragazza nel mezzo di un’immersione risale verso il suo riflesso; ancora, la considerazione che il maggiore ha del proprio corpo, ovvero quella di un mero strumento per combattere, viene messa in risalto dalla disinvoltura con la quale tende a denudarsi; il suo collega Batou, al contrario, è cosciente della femminilità della donna, e lo dimostra coprendola spesso col suo cappotto o voltandosi mentre si toglie i vestiti.

La potenza visiva non sarebbe la stessa senza l’ottimo comparto tecnico di cui l’opera può fregiarsi. Il character design di Hiroyuki Okiura (che in seguito firmerà anche quello di “Jin-Roh” e “Una lettera per Momo”) presenta tratti estremamente realistici e mostra tutta la sua bellezza soprattutto nella figura del maggiore: i lineamenti androgini della donna sottolineano ancora di più la spersonalizzazione della sua identità, così come i suoi occhi glaciali e inespressivi spesso oggetto delle significative inquadrature del regista. Anche il mecha design curato da Mitsuo Iso (che in seguito ci regalerà l’ottimo “Denno Coil”) è convenzionale ma curato nei minimi dettagli.
Gli sfondi ricalcano una New Port City futuristica e affollata, mentre la fotografia accentua la freddezza dei colori utilizzati, che si attestano principalmente sulle tonalità del blu e del grigio.
Altra punta di diamante è rappresentata dalle suggestive musiche composte da Kenji Kawai: l’iconica traccia “Making of Cyborg”, con i suoi cori in giapponese antico e le sonorità quasi ancestrali, sembra trasportarci all’interno di un rito arcaico e trascendentale.

In conclusione, Mamoru Oshii dirige magistralmente un’opera in cui comparto visivo, sonoro e sceneggiatura si uniscono per creare un’atmosfera unica e visionaria: le tematiche esistenziali affrontate, i personaggi accuratamente costruiti e quella perenne oscillazione tra realtà e illusione rimarranno per sempre nella storia del cinema di animazione. Il voto non può che essere quello massimo.

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È un esperimento particolare quello di "Saikano": quello di prendere un personaggio sci-fi, collocarlo in una relazione di tipo sentimentale, e poi collocare entrambi gli elementi in uno scenario di guerra convenzionale, creando quindi una struttura a scatole cinesi. L'esperimento nelle sue fasi iniziali è davvero ben gestito, con in bella vista l'elemento sentimentale dei due fidanzatini che si frequentano in un ambiente scolastico, ma con l'elemento di guerra invece sempre presente sullo sfondo di questa cittadina dell'Hokkaido. La guerra è invisibile agli occhi dei personaggi ma ben chiara allo spettatore, che vede passare per strada troppi mezzi militari, volare troppi aerei, e drizza le orecchie mentre si parla con nonchalance dell'impossibilità di avere carne nei pasti. Questa tecnica di mostrare con forza allo spettatore dettagli rivelatori e inquietanti che i personaggi volutamente o per ingenuità ignorano trovo sia una soluzione registica decisamente funzionale molto ben eseguita; avendo tre elementi distinti, la regia giocherà sempre nell'enfatizzarne uno agli occhi dei personaggi e uno diverso agli occhi degli spettatori, creando dissonanza e inquietudine.

L'elemento sci-fi è rappresentato da Chise, una ragazza imbranata di diciassette anni che per motivi sconosciuti viene trasformata in un'arma vivente metà biologica e metà cibernetica. Con il procedere della storia, le sue abilità si evolveranno continuamente, e lei si alienerà sempre di più dalla sua natura umana, sia per ciò che succede al suo corpo sia per i traumi della guerra. Un pattern che ricorda molto quello di Lain in "serial experiments lain" o quello del Dottor Mahnattan in "Watchmen".

L'elemento sentimentale è costituito dalla coppia Chise-Shuji, una coppia disfunzionale se non addirittura tossica in cui, mentre ci si perde in frasi e situazioni romantiche, appare comunque lampante come i due si usino come stampella a vicenda in un continuo tira e molla.

L'elemento bellico invece è presentato come un conflitto tradizionale con armamenti che richiamano gli anni '50-'60, una guerra che il Giappone sta perdendo, subendo massicci bombardamenti e invasioni da parte di un nemico che non si vede quasi mai, perlopiù sotto forma di aerei B-52 che sganciano bombe dal cielo. L'unica cosa che permette ai Nipponici di resistere è appunto l'intervento assassino di Chise, che appare come una vera e propria arma di distruzione di massa.

Qui arriviamo al primo punto negativo di questa serie: le tre scatole cinesi configurano una situazione da "mai una gioia", in cui Chise ha un futuro incerto e diversi traumi, la coppia, benché ci sia la volontà di stare assieme, non funziona o funziona tra molte difficoltà, e la guerra non sta andando bene ed è costosissima in termini di vite umane. Il tutto volutamente mostrato, calcando nella drammaticità e nella crudezza. È questa mancanza quasi perpetua di momenti felici che rende l'anime pesante, e ad un certo punto fa passare la voglia allo spettatore di sperare e credere che qualcosa di buono possa accadere.

L'altro fattore negativo è il finale raccontato negli ultimi due episodi. Le cose strambe in questo anime sono il ruolo della protagonista che, pur essendo un comandante dell'esercito, un'arma biologica e cibernetica, frequenta la scuola come una ragazzina impacciata. L'altra è lo svolgimento della guerra con una tecnologia sbagliata per l'epoca. Ma, essendo entrambe le premesse presentate fin dall'inizio dell'anime, possono essere accettate dallo spettatore, non c'è problema, finché c'è la coerenza narrativa. Purtroppo la coerenza narrativa si perde nel finale, cercando una vena epica forzata; pur avendo l'anime al suo arco due frecce, sia quella sentimentale che quella action-drammatica, riesce a far cilecca con entrambe.
Purtroppo "Saikano" è un buon anime che si brucia all'ultimo dopo aver fatto quasi tutto giusto, davvero un peccato.

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C'è una parte del nostro cervello, quella più primitiva, che ha fame.
Sempre.
Di cibo, di movimento, di sesso,...
Una parte "meccanica", programmata per rispondere solo ai comandi basici dell'istinto: spento/acceso, morto/vivo, 0/1.
Per estensione quindi l'intero corpo umano (e così le sue funzioni e azioni) si può considerare, come già fece La Mettrie, nient'altro che una macchina.

Shintaro Kago parte da questa premessa per il tema base del suo "Super Conductive Brains Parataxis".
Facile vedere nello stile dell'autore un sottofondo di materialismo puro e gratuito. Quello che ci propone è qualcosa di più complesso. Perché le sue sono "macchine organiche". Un ossimoro.

Siamo in un futuro imprecisato, dove la civiltà è ormai in osmosi completa con la biotecnologia. Grazie alla clonazione e alla ricostruzione organica, partendo dal codice genetico di una specie estinta, tutte le mansioni e le attività lavorative sono ora svolte dai "sadra", veri e propri corpi umanoidi giganti usati come mezzi di trasporto, macchine da lavoro, armi, ecc.
Una mano diventa un'automobile (con tanto di dita a mo' di ruote), un torso (con quattro gambe o quattro braccia) può essere una gru, e così via. Organi, materiali assemblati senza altro criterio all'infuori della funzione richiesta. Homuncoli, tanto utili quanto grotteschi, come delle inquietanti bambole di carne. Ad esse viene estratto il cervello, sostituito da circuiti o controlli in remoto. I sadra sono organici, ma sono pur sempre dei semplici "pezzi". Costrutti. Senza coscienza e senza "anima".

Ma è davvero così?

È possibile trattare la materia organica come metallo inerte? È possibile declassare la biologia a branca della tecnologia?

Questi quesiti e i temi proposti da Kago, nell'alveo del cyberpunk (in eco a Evangelion e Ghost in the Shell), sono arricchiti dal suo stile fortemente "carnale". La spersonalizzazione del corpo umano è accompagnata da un gusto profondamente fisico ed eroticizzato, firma dell'autore. Tra esaltazioni dello splatter e richiami (neanche troppo velati) alle atmosfere di Tsutomu Nihei e Moebius, siamo di fronte ad una sintesi ottimamente riuscita di due mondi considerati antitetici: l'élan vital, regolato dalle leggi del pathos; e un senso finalistico, freddo e reificante. Non si può, anzi, non si deve più distinguere la carne dalla carrozzeria, l'istinto dall'input, il mezzo dallo scopo.

L'autore sperimenta la fantascienza distopica per veicolare i messaggi a lui cari: l'alienazione sociale, la mercificazione dell'eros (e del corpo femminile nello specifico), la massificazione dei sentimenti e la violenza e sottomissione che fanno da sottofondo alla società moderna che si autoproclama, somma ipocrisia, vittoriosa sull'istinto per mezzo della ragione. La stessa ragione che traduce l'Uomo in consumatore e poi in prodotto di consumo. Un principio volto alla realizzazione del sistema perfetto, totalmente autosufficiente, tramite un "cannibalismo razionale".

Kago ha dato un corso falsamente antologico alla sua opera, suggerendo una struttura da "Cronache Marziane", ma che invece ha un suo denominatore che collega tutte le sottotrame anche quando queste hanno un impatto relativo sul finale, anch'esso artificiosamente costruito per sembrare aperto.
La forza dell'autore trova poi il suo punto massimo in quelle piccole frecciatine che suggeriscono al lettore di trovarsi di fronte ad un mondo deformato e alieno ma allo stesso tempo troppo simile al nostro per permettere di etichettarlo come pura fantasia. L'eugenetica, la corruzione, l'abuso di potere, l'isteria consumista, i soprusi sociali, il contrabbando, la disfasia fra i sessi,...
Troppi i rimandi per non parlare di vera e propria invettiva satireggiante i tempi moderni.

Ecco quindi che nella martellante pubblicità che tappezza un crocicchio alla Blade Runner si possono scorgere suadenti e irriverenti réclame come: "DOLCE GUIDA AL SUICIDIO" o "SVENDITA DI POMPE".

Lo stile del mangaka è molto dettagliato, in fede alle esigenze "hardware" della trama. L'ambientazione e la struttura narrativa sono curati con dettagli che richiamano un senso favolistico che conferisce al tutto quel sottile sottofondo horror tipico delle trame dedicate al mondo dell'infanzia. La natura autoconclusiva dell'opera non fa che aumentare questo effetto piacevolmente disturbante.
Magistrale la cura usata per le azioni dal sapore truculento, enfatizzate nella loro carnalità al punto che le scene sembrano avere un loro status "sonoro", rendendosi palpabili e realistiche pur nel grottesco.

La Star Comics ha poi fatto un interessante lavoro di rilegatura usando una sovraccoperta lucida in trasparenza che integra l'immagine cover con elementi sovrapposti. Un dettaglio inconsueto per l'editoria manga che regala un inaspettato valore aggiunto.

Quando consideriamo "materia" ciò che prima si riteneva "vita", non stiamo solo ridefinendo un elemento esterno a noi. Soprattutto quando questo elemento è parte integrante del nostro quotidiano. Ridefinendo le nostre estensioni, ridefiniamo noi stessi. Adeguiamo la nostra vita a nuove forme di materia, nuove forme di razionalità. Una razionalità che non può ammettere di aver perso contro le leggi della materia.
Quando la vita diventa macchina, la macchina diventa vita, e un simile processo può avere un solo possibile e fatidico esito:

le macchine hanno fame.