Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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7.5/10
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Concluso il re-watch di "Promare", mi sento pronta ad esprimere la mia opinione non richiesta.

Il film, come ci si aspettava, è esageratissimo, colorato e vivace. Character design divertente e luminoso, animazioni curate e dinamiche. Le musiche, superfluo dirlo trattandosi di Hiroyuki Sawano, stupende, adatte all’atmosfera, restano in testa anche nei giorni successivi alla visione. Le scene di azione, è il caso di dirlo, infiammano, in un mix di incendi multicolore, armature tamarre, veicoli militari giganteschi e robot alti come palazzi.

Arriviamo ora ai due punti deboli del film, cercando per quanto possibile di evitare lo spoiler: la trama e il villain.

La trama complessivamente regge, ma sono state introdotte una serie di complicazioni e spiegazioni pseudo-scientifiche nel tentativo di renderla più complessa e dare un senso di profondità maggiore al film. Le spiegazioni di questo genere in un film, a mio parere, possono essere di due tipologie: abbastanza dettagliate da sembrare pienamente sensate e coerenti nel quadro fantascientifico disegnato, oppure completamente esagerate, folli e divertenti. "Promare" purtroppo sta nel mezzo, abbozzando in una decina di minuti delle spiegazioni che sanno più di appiccicato a posteriori che di programmato a priori e che, inoltre, non aggiungono quasi nulla ai progetti dei protagonisti: senza fare spoiler, a loro come allo spettatore era già chiaro sia che il progetto del villain non fosse la strada giusta sia quale dovesse essere la soluzione alternativa da cercare.
A gusto mio ne va a perdere anche il messaggio del film: quella che all’inizio sembra più una trama incentrata sullo scontro tra due specie che devono imparare a gestire le proprie differenze e ad aiutarsi invece che trattare la minoranza come sacrificabile, si rivela poi essere una trama di carattere catastrofico in cui la minoranza va sì salvata, ma perché altrimenti ci rimetterebbe anche la maggioranza.

Per quanto riguarda il villain, all’inizio ha una caratterizzazione sensata: è effettivamente una persona che non si fa molti scrupoli, ma perché convinto del fatto che le sue azioni sono le uniche percorribili per la risoluzione di un problema. Invece, successivamente, nell’approfondimento del suo passato, molte delle sue azioni risultano essere solo cattiverie gratuite, sproporzionate alla motivazione da cui sono mosse o addirittura insensate, trasformandolo in una persona semplicemente malvagia, arrivista, crudele, negativa sotto ogni aspetto. Non esistono più sfumature di grigi, ma solo bianchi e neri.

In conclusione: il film è godibilissimo e divertente, la trama fila senza particolari contraddizioni, ma ha un po’ il sapore di “complicata a posteriori”. Come film di intrattenimento funziona.
Voto complessivo: 7,5.

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Negli ultimi trent’anni il genere robotico animato ha subito un mutamento evolutivo e costante, un excursus iniziato in seguito allo spartiacque introspettivo-psicologico di Neon Genesis Evangelion: col senno di poi, è stato chiaro che non avremmo più visto semplici, opachi e nostalgici prodotti figli di un orgoglioso, eppur obsoleto passato, ove coraggio e fiera mascolinità facevano da padroni, mettendo in scena qualcosa che a cavallo degli anni novanta è stato largamente (ed inevitabilmente) rimaneggiato. La profondità psicologica del capolavoro della Gainax e di Hideaki Anno ha dato una svolta sia al concepimento della sceneggiatura, sia al taglio visivo cinematografico che gli anime in generale hanno assunto da lì in poi.
Degno erede di questa metastasi fisiologica dello stantìo classicismo robotico, circa quindici anni dopo, l’ormai celeberrimo Tengen Toppa Gurren Lagann cominciò a tracciare impertinenti iperboli caricaturali, estremizzate ed esageratamente provocatorie, fondendo il più banale fanservice al nucleo del prodotto stesso come componente essenziale e al tempo stesso giocosa: fu un mix di elementi classici ed inediti, un caposaldo capace di evolvere ulteriormente il filone, suggerendo ad altri gruppi di produzione come A1-Pictures e (soprattutto) Trigger la via per un ulteriore balzo in avanti. Ne scaturirono ergo titoli di spicco come Kill la Kill, e in seguito, Darling in the Franxx.
Eccoci, ordunque: la falsa riga di quest’ultimo è essenzialmente un diffuso studio della psicologia umana (in primis adolescenziale) nuovamente applicata all’animazione robotica, capace di partorire una storia più romantica che mecha-centrica.

Dunque, mescolate IL bellO e la bestia e Matrix, ed ecco l’incipit.
Dinamiche sensuali, provocanti e scelleratamente eccessive sono alla base di un prodotto che principia con una base tanto improbabile quanto curiosa: robot insopportabilmente “kawaii”, dalle fattezze confusamente femminili, per nulla minacciosi, manovrati dai soliti ragazzini depressi o esaltati, il tutto condito da continue, insistenti strizzate d’occhio ad un fanservice talmente evidente da apparire - almeno in prima battuta – ai limiti dell’imbarazzante.
Attenzione però: ancora una volta Studio Trigger si guarda alle spalle e pesca correttamente. Le iperboliche animazioni dagli incalcolabili frame psichedelici trovano il loro sfavillante spazio in maniera differente, aprendo insospettabili porte verso corridoi paralleli alle trame fin qui assaporate, imbastendo una vicenda che utilizza i robot più come pretesto che come soggetti principali: sicuramente poco innovativo, ma di grandissimo impatto.
S’evince uno studio della cromatica molto attento e incisivo, scacchiere di pigmenti accesi sempre pronti a sollecitare l’occhio, il tutto correlato ad una vertiginosa dinamicità scenografica, ricca d’animazione spesso e volentieri di alto livello (tranne che in qualche campo largo, dove la qualità ne risente vistosamente). Sguardi intriganti, fondali di grande impatto, studio dei corpi femminili sensuali e volutamente provocanti: una sequenza d’ingredienti che ormai contraddistingue Studio Trigger, capace di tessere sottotrame interessanti e funzionali alla principale, come la substory fra Kokoro e Mitsuru, probabilmente la parentesi più intensa e struggente di tutta la vicenda.
Non da meno il comparto sonoro. L’opening è sicuramente un ottimo biglietto da visita, orecchiabile, dal retrogusto malinconico, note che presagiscono un evolversi inimmaginabile; meravigliosa invece la sequenza di ending - addirittura sei, - una migliore dell’altra, capaci di lasciar trasparire una pletora d’emozioni variegata: alti e bassi fra eccitazione, tristezza, esuberanza ed amarezza. Lo stesso si dica per l’intera colonna sonora, a tratti gloriosa e maestosa, un vero e proprio capolavoro d’accompagnamento.

Darling in the Franxx è una bellissima, strampalata e chiassosa storia d’amore: lo strano idillio fra Hiro ed… un numero. Un numero, sì, ma dall’aspetto di una bellissima, aggressiva, testarda, intensa ed indomabile ragazza.
L’incipit è il solito, per nulla accattivante: come accennato poc’anzi, ecco l’eterogenea crew di adolescenti destinati a pilotare queste macchine da guerra graziosamente infiocchettate con cui potranno, salvo imprevisti, ostacolare l’avanzata di mostruose creature provenienti dal sottosuolo, e così salvare ciò che resta del genere umano che ancora si ostina ad abitare un pianeta Terra allo stremo delle risorse, in un triste e arido futuro prossimo.
Seguiamo con grande curiosità le vicende di Hiro e compagni, intenti a sfoggiare uniformi di rara bruttezza ricordanti improbabili divise sudtirolesi di un grigio squallido, ispirate ad un austero militarismo, quasi grottesco, lontane anni luce dall’asettico, iconografico splendore dell’equipaggio del Nautilus de “Il mistero della pietra azzurra”.
Nonostante il caposaldo NGE abbia dettato regole d’impostazione, stile e sceneggiatura, Darling in the Franxx, banalmente, esordisce con ritmo e freschezza anche se ben poco risulta originale; tuttavia ciò non impedisce alla trama di decollare dopo pochissimi episodi. Il protagonista, apparentemente noioso, indeciso ed insicuro, nei primi minuti fa subito conoscenza con questa fanciulla forte, dai tratti pericolosi, dannatamente intrigante e un po’ fuori di testa che finirà per causargli un terremoto interiore senza precedenti.

Ebbene, come appena suggerito, apparentemente potrebbe sembrare la solita solfa, ma non è del tutto così.
Sull’onda lunga figlia dell’eterno concetto sci-fi Matrixiano, ecco che cominciano ad emergere dilemmi etici di crescente spessore: l’umanità avanza verso una direzione d’insospettabile pragmaticità, sacrificando poco a poco il dilettevole in favore di un utile ferreo ed inevitabile, una visione regimista distopica, asettica e freddamente meccanica.
In netto contrasto ad un mondo gelido ed esternamente incomprensibile, sono alcuni personaggi secondari a spaccare letteralmente lo schermo emergendo in maniera sontuosa, sconcertante o addirittura elegante. Kokoro è una di questi, amica di Hiro e 002, incuriosita dalle radici dell’essere umano e di come si comportava quando il pianeta Terra non era in una condizione d’emergenza critica. In Kokoro identifichiamo quindi la figura materna portante dell’anime, il ritorno alle origini naturali ed istintive, il volto della libido genuina e dell’attrazione terrestre incondizionata, accompagnata dagli altri comprimari che rispecchieranno le debolezze e i sentimenti dell’animo umano: Ichigo, vestita di brama e gelosia, affetto sincero e grande coraggio; Goro, l’immancabile “migliore amico” del protagonista, saggio, forte ma poco carismatico; Mitsuru, dal classico complesso di inferiorità, invidioso tanto da non riconoscere le proprie capacità e i propri (meravigliosi) pregi; non da meno la coppia Miku-Zorome, immancabile elemento infantile con un pizzico di “tsundere” vecchio stampo, capaci di strappare qualche sorriso ed alleggerire il carico di drammaticità che si trascina con ritmo crescente.

È nella parte centrale che Darling in the Franxx da il meglio di sé, rivelandosi un vero e proprio capolavoro d’introspezione e riflessione, dove i coraggiosi e incoscienti ragazzi si troveranno ad esternare il proprio intenso spettro emotivo, perdendo l’ingenuità della fanciullezza e sacrificando la propria innocenza in cambio della verità del mondo che li circonda: amara metafora della nostra quotidianità.
Ne rimane quindi una fragranza adolescenziale frizzante e calamitante. Gli episodi proprio prima del gran finale si scoprono dotati di un coinvolgimento emotivo di estrema potenza; relazioni e guerra fra sessi, alti e bassi, odio e amore, gelosia e amicizia, ogni elemento incastra perfettamente: le menti dei giovani protagonisti vengono esplorate realisticamente, ci mostrano impulsi e reazioni che rendono unico e vero ogni essere umano, elementi indelebili che preservano la specie e ci donano un istinto di sopravvivenza che, a conti fatti, è l’insegnamento che la storia stessa vuole impartirci: nessuna macchina o dittatura funzionale dotata di una monotona immortalità catatonica potrà mai sostituire lo splendore di una vita vissuta secondo le proprie emozioni e i rischi che tutto questo comporta.
Il rush finale è un susseguirsi di colpi di scena, alcuni assolutamente inaspettati. Il parallelismo fra Stridiosauri e Franxx ricorda ovviamente quello fra EVA e Angeli, e pian piano “buoni” e “cattivi” sembrano non essere più tali, fino a quando, disarmante, non diviene chiara l’unica legge naturale di tutto l’universo: chiunque lotta per la propria sopravvivenza, seguendo il proprio istinto primordiale.
Ma non è tutto, no di certo; quando ogni cosa sembra ormai essere narrata e avviata verso la conclusione, un secondo, micidiale colpo di scena sconvolge gli ultimi due episodi, un vero e proprio plot twist traumatico e sconcertante. Il finale si flette in un andamento altalenante, ma, imperante e indissolubile, sopra ogni cosa, permane quel “far l’amore” profondissimo, oltre la fisicità, il purissimo ed incontrastabile sentimento che lega due persone, analogia del romantico, invisibile filo d’Arianna, metafora che trascende la semplice attrazione, regalandoci così un epilogo agrodolce che omaggia il cerchio della vita nella sua epocale, infinita interezza.

Più concretamente parlando, i mecha concepiti dall’animazione nipponica post duemila, sono ormai sempre meno robot e sempre più prototipi umanoidi di un Eden atipico già immaginati e revisionati in quel capolavoro senza tempo che fu “Il Mistero della Pietra Azzurra” (Nadia of Blue Seas), ma la necessità di stupire e andare oltre, trascina (e trascinerà) inevitabilmente gli sceneggiatori verso nuovi orizzonti, dove diviene impossibile non rivisitare capolavori del passato: la differenza la può fare solo la saggezza nel trattare tali elementi, proponendo idee valide. Immense Trigoni-fortezza volanti ricalcano così le terribili navi da guerra di Argo/Gargoyle in Nadia; la città sotterranea dove l’umanità si nasconde dagli Stridiosauri ci ricorda la fredda Neo Tokyo 3 di NGE, ed i piloti dei Franxx costretti a cercare una simbiosi psicofisica - sia con la macchina, sia col partner - per poter dare il giusto apporto sono una lapalissiana citazione a Rei e Shinji, o forse proprio un chiaro omaggio.
Darling in the Franxx non brilla per originalità, ma mettendo insieme i frammenti, il mosaico finale che ne consegue può essere considerato senz’ombra di dubbio un ottimo lavoro, anche se quel finale compresso in soli due episodi avrebbe sicuramente meritato un arco narrativo più lungo per poter essere espresso al meglio.
Probabilmente, è nel suo immaginario distopico che questo prodotto dà il meglio di sé: in una società dove i rapporti umani sembrano essere del tutto spariti lasciando posto solo alla fredda pragmaticità di un benessere asettico che mira esclusivamente alla preservazione della specie annientando ogni piacere e frivolezza, incentrare il funzionamento delle unità robotiche sulla sublimazione psicofisica e mimica di un chiaro atto sessuale appare come un messaggio ben chiaro, schietto e provocatorio: non abituatevi alla routine della società, vivete appieno, e ricordate che nessun surrogato virtuale potrà mai sostituire la travolgente ebrezza dell’attrazione fisica e reale.
Questa volta lo studio Trigger la fa davvero grossa, e fa bene. Può sembrare quasi trash, ma è soltanto un’esca: pilotare i Franxx pare la parodia di un amplesso accennato ed al tempo stesso un ballo che unisce e fortifica, una danza dove l’uomo detta il ritmo e la donna si lascia accompagnare, e nel contempo un primitivo rapporto platonico (ricercato ossimoro? Ennesima provocazione?) dai chiari connotati sensuali e provocatori. Un metodo incredibilmente pretestuoso, giocoso e a tratti davvero stupido per inserire una gigantesca dose di fanservice fra un cannone laser e una bomba al plasma, e la cosa assurda è che risulta funzionale sotto ogni punto di vista.

Tirando le somme, la cosa più bella di Darling in the Franxx è il suo messaggio incredibilmente positivo: anche se alcuni esseri umani si rivelano i mostri che sono sempre stati, anche se la guerra fra razze ed etnie è e sarà inevitabile, l’amore è la forza più potente che esista, e, se vero ed indissolubile, può prevalere su qualsiasi difficoltà. Ma non è tutto: soffocati dalla routine quotidiana, ci dimentichiamo di che grande miracolo sia la nascita di una nuova vita scaturita dall’unione di due esseri umani; lo consideriamo un evento scontato, ed invece si tratta di un miracolo inspiegabile e meraviglioso che dovrebbe stupirci, sempre.

“Io non vivo per combattere, ma combatto per vivere”.
Una massima che potremmo adattare a qualsiasi periodo storico, per qualsiasi persona che tenta di assaporare istanti felici senza doversi trascinare lungo la propria esistenza giorno dopo giorno.
Sì, in Darling in the Franxx vince l’amore, trascendendo tempo e spazio, proprio come in Interstellar, anche se in modo molto, molto diverso.
Lasciate che sia così, almeno nei sogni di chi ci spera sempre.

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Tutta la vicenda dell'OAV ruota intorno al Madox-01, un mech sperimentale dell'esercito giapponese, che finisce fortuitamente (dopo un incidente di trasporto) nell'officina del giovane meccanico Koji Sugimoto. Quest'ultimo, da buon appassionato di meccanica e tecnologia, riuscirà ad azionare da solo il mech, ma questo sarà anche l'inizio dei suoi guai: l'intero esercito si metterà infatti sulle sue tracce per intercettare e recuperare il mezzo perduto.

"Metal Skin Panic MADOX-01" è la prima opera da regista di un giovane ma già promettente Shinji Aramaki, che si era fatto le ossa qualche anno prima col mecha design di "Mospeada" e la serie TV di "Transformers". Seppur si tratti di un OAV piuttosto acerbo in termini di sceneggiatura, riesce comunque a distinguersi dalla massa per la qualità generale del disegno, tanto dei mezzi meccanici quanto dei personaggi. Siamo nel pieno degli anni '80 e ad influire sul gusto degli anime è anche il cinema "guerrafondaio" americano di "Rambo" e "Commando", e questo si nota anche in "Metal Skin Panic MADOX-01" per la sua insistenza sulle scene d'azione nonché le ripetute (e compiaciute) inquadrature dei mezzi militari.
Il tutto è però narrato con un tono mediamente leggero e vagamente umoristico: Koji ad esempio si caccia nei guai perché si sposta per Tokyo con la corazza addosso, nel tentativo di raggiungere la sua fidanzata ad un appuntamento (muovendosi per le strade come se stesse guidando una Bentley); lo stesso "villain", il tenente Kilgore, fa il verso al tipico soldato guerrafondaio, e la sua ragione di vita è dimostrare a tutti la superiorità del suo carro armato, mezzo che egli considera come estensione del suo stesso corpo.

Nel complesso, l'opera risulta gradevole da guardare anche a distanza di parecchi anni dalla sua uscita, in parte grazie al mecha design e in parte grazie al fatto di non prendersi eccessivamente sul serio, senza però scadere mai nella burla - cosa che a mio avviso ha penalizzato altre opere simili e contemporanee come "Dominion Tank Police".
Ovviamente, trattandosi di un OAV autoconclusivo di quarantacinque minuti, non è possibile pretendere una gran profondità né in termini di trama né in termini di caratterizzazione dei personaggi, ma resta comunque un OAV leggero e scorrevole, nel complesso apprezzabile soprattutto se siete interessati a scoprire uno dei primi lavori originali di un artista tuttora molto quotato come Aramaki.