Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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7.5/10
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Prima di iniziare con la recensione vera e propria, intendo precisare che non ho ancora visionato i tre film usciti nell'inverno 2019. La seconda e terza stagione, infatti, vengono allacciate da questa trilogia in cui viene spiegato come si sono evolute le carriere dei protagonisti delle precedenti serie. I film non sono indispensabili per comprendere gli eventi presentati in “Psycho-Pass 3”, tuttavia possono essere utili per comprendere i retroscena di alcuni più o meno amati personaggi. Mi riferisco per esempio ad Akane e Kougami, che in questa serie appaiono, ma solo come personaggi secondari, in quanto le loro mansioni sono cambiate. Un altro esempio, invece, è la fastidiosa Mika, che in questa serie ricopre il precedente ruolo svolto da Akane Tsunemori. Di fatto, il vuoto generato dalla mancata visione dei tre film risiede solo nel modo in cui hanno fatto carriera alcune vecchie conoscenze, in quanto i veri protagonisti di questa serie sono altri.

La storia è incentrata su due nuovi investigatori che sono stati recentemente assegnati a un'unità investigativa del dipartimento di sicurezza. Il loro compito consiste nel monitorare il coefficiente di criminalità delle persone e arrestare coloro che superano la soglia considerata accettabile dal Sibyl System, in quanto potenziali futuri criminali. Durante una delle loro normali indagini, però, si imbattono in un caso molto insolito che renderà evidente l'esistenza di un'organizzazione criminale i cui membri riescono a nascondere il loro alto coefficiente di criminalità grazie ad alcuni accorgimenti. Di conseguenza, oltre a rendere impossibile prevedere un crimine, è diventato estremamente difficile anche individuare i colpevoli. Come se non bastasse, il tutto sta accadendo nel bel mezzo di alcune elezioni politiche che fanno leva sull'odio provato nei confronti degli immigrati, rendendo ancora più difficili le indagini. I nuovi investigatori, infatti, sono Arata Shindou e un uomo proveniente dalla Russia di nome Kei, il quale sta avendo a che fare con una società sempre più oppressiva nei suoi confronti a causa della sua nazionalità.

I due sono amici d'infanzia grazie al rapporto tra i loro padri, tuttavia non potrebbero essere più diversi. Arata, infatti, è un ragazzo sveglio, ma con un carattere molto spensierato e un'abilità speciale che gli permette di mettersi nei panni delle altre persone per scoprire cos'hanno visto in un determinato momento, per esempio durante gli ultimi istanti di vita, tuttavia si tratta di un'abilità che comporta un notevole stress fisico, e per tale motivo è costretto a utilizzarla molto di rado. Kei, al contrario, è una persona molto diligente che prende molto sul serio ogni incarico, e le uniche persone a cui mostra il suo lato più sensibile sono Arata e sua moglie Maiko.

Detto ciò, la serie si concentra molto sui protagonisti e sui loro problemi personali, il che non è necessariamente un male, se non fosse che nella seconda parte della serie questo aspetto sembra essere un po' troppo rimarcato, andando in un certo senso a rovinare l'interesse per i casi investigativi. Ci tengo a precisare che il mio fastidio non è rivolto a questi problemi in sé, ma al fatto che vengono continuamente tirati in causa quasi per fare l'occhiolino alle fangirl dei ragazzi tormentati. In particolare, ritengo che gli ultimi episodi fossero eccessivamente concentrati sulla situazione di Arata, quando in realtà l'attenzione sarebbe dovuta essere su altro. Tralasciando questo, ho trovato la prima metà della serie molto interessante. I casi sono stati gestiti molto seriamente e ritengo che il picco massimo in termini di coinvolgimento sia stato raggiunto nel quarto episodio, che sotto questo aspetto ritengo all'altezza degli episodi della prima serie. In questo caso, le scene d'azione e le musiche utilizzate hanno dato luogo a una combinazione perfetta che si è protratta per almeno metà dell'episodio. Sono proprio queste le emozioni che spero sempre di trovare in un anime, ma purtroppo non sono molto frequenti. I momenti salienti dei casi successivi sono stati abbastanza interessanti, ma non allo stesso livello, dato che ho avuto quasi l'impressione che l'emozione derivasse più dalla presenza del personaggio X piuttosto che dalle sue azioni. Questa, però, potrebbe essere solo una mia impressione. La serie è interessante e ho molto apprezzato il formato in cui è stata proposta. Effettivamente, per una serie del genere è difficile ricordare tutti i particolari rivelati, dato che parliamo di episodi di quaranta minuti, tuttavia, proprio per via della loro lunghezza, ritengo che riescano a coinvolgere molto meglio lo spettatore. Al di là dei personaggi, nell'arco di questi episodi è stato trattato molto bene anche il problema relativo agli immigrati. Argomento molto sentito in molti stati come l'Italia, il Regno Unito ed evidentemente anche il Giappone. La serie, infatti, ha riportato molti esempi concreti che vengono spesso tirati in ballo nella vita di tutti i giorni, come per esempio la frequente teoria secondo cui gli immigrati tolgono il lavoro ai comuni cittadini, che viene data la priorità alla loro sistemazione e il fatto che vengono sfruttati dalla criminalità, e via dicendo.

In merito alle musiche, siamo nella media. E' stato fatto un ottimo lavoro nel quarto episodio e in qualche altra scena d'azione, ma a parte questi casi ritengo che non ci fosse nulla di eclatante. Gli episodi sono ricchi di momenti con musiche poste con un volume molto basso o addirittura privi di sottofondi sonori. Non si percepisce mai la sensazione di vuoto, ma, se ci fossero state delle musiche particolarmente belle, sicuramente non sarebbero passate inosservate.
Lato sigle ho apprezzato molto l'opening, in cui, oltre ad avere delle scene veramente ben animate, hanno scelto di utilizzare solamente colori molto saturi e in grande contrasto tra loro, creando un effetto visivo che personalmente mi piace molto. La canzone è cantata da una persona che non ha avuto altre esperienze con sigle animate, mentre l'ending è stata cantata dai Cu Shu Nie, un gruppo che non molto tempo fa si era già occupato dell'ending di “The Promised Neverland”.

Concludo sottolineando che l'ottavo episodio non conclude la serie, ma lascia la storia in sospeso, lasciando intendere che il vero finale verrà raccontato nel film annunciato per la primavera 2020, sperando che questo sia sufficiente a mettere la parola fine a questo caso. Anche se priva di finale, la serie rimane molto valida e godibile, specialmente in alcuni episodi, quindi ne consiglio la visione.

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Dopo la straordinaria pellicola diretta da Mamoru Oshii, tocca al suo allievo Kenji Kamiyama mettersi alle redini di un altro prodotto ispirato all’universo cyberpunk ideato da Masamune Shirow: nel 2002 nasce così “Ghost in the Shell - Stand Alone Complex”, serie di ventisei episodi realizzata dallo studio Production I.G.

L’anime, ambientato nel 2030, segue sempre le vicende del maggiore Motoko Kusanagi e degli altri membri della sezione 9, impegnati a risolvere casi di spionaggio, terrorismo e complotti politici. L’opera si compone di puntate autoconclusive (denominate “stand-alone episodes”) e di puntate collegate fra loro nelle quali si sviluppa una trama orizzontale incentrata sull’Uomo che Ride (“complex episodes”).

Se il lungometraggio del ’95 anteponeva i ragionamenti filosofici ed esistenziali alla creazione di un intreccio solido e ricco di colpi di scena, la serie qui analizzata si imposta più come un classico poliziesco in cui gli intrighi e l’azione fanno da padrone. “Stand Alone Complex”, infatti, presenta una varietà di casi in cui i nostri agenti avranno a che fare con cospirazioni, rapimenti od omicidi: il ritmo è dunque più serrato, e l’opera si configura come prodotto d’intrattenimento molto più del suo predecessore. Tuttavia, non si può certo dire che la serie sia un semplice susseguirsi di eventi senz’anima: i vari problemi etici riguardanti l’utilizzo di corpi cibernetici, così come la costante fuga dalla realtà, emergeranno spesso nelle vicende raccontate. Tali spunti di riflessione sono presenti sia negli episodi “stand-alone”, che ho trovato godibili tanto quanto quelli collegati tra loro, sia nelle puntate che vanno a costituire la storia dell’Uomo che Ride. Questo caso, oltre ad essere stato macchinato nei minimi dettagli, si propone infatti di affrontare alcuni fenomeni che si verificano anche nella società odierna (su tutti l’imitazione di una figura fittizia resa possibile dal forte impatto dei media).

Sul lato personaggi, l’anime non introduce particolari new entry (antagonisti a parte), ma si limita ad approfondire o reinventare quelli presenti nel lungometraggio. In questo modo avremo degli interessanti focus sul capo sezione Aramaki, che più volte ci sorprenderà con le sue incredibili doti strategiche, o sull’agente Togusa, forse uno dei membri più “umani”. Il cambiamento che invece ha interessato Motoko e Batou ha fatto storcere il naso a una buona fetta di pubblico. Il maggiore, da un lato, ha abbandonato quel suo lato glaciale e un po’ ambiguo per convertirsi nella classica poliziotta sensuale e testarda (forse un tentativo di avvicinarla alla protagonista ideata da Shirow?); il suo collega più fidato, dall’altro, sembra avere assunto le caratteristiche del solito agente dai muscoli possenti incline al sarcasmo. Una piccola rivelazione, infine, è costituita dai Tachikoma: all’inizio utilizzati per la parte più umoristica e “kawaii” dell’anime, i piccoli robot hanno in seguito imparato a ragionare sul concetto di vita e di morte e hanno sviluppato una personalità propria.

Passando al lato tecnico, l’anime presenta un character design diverso dal film ma ugualmente dettagliato (Motoko è ovviamente quella che ha subito il restyling più intenso), mentre disegni e animazioni mantengono una qualità buona ma non eccelsa per tutta la durata dell’opera. Perfettamente integrata nell’animazione tradizionale è la computer grafica utilizzata per rappresentare i Tachikoma e gli strumenti tecnologici in generale; gli sfondi, dal canto loro, tratteggiano ancora una volta ambientazione futuristiche ma mai troppo utopiche.
Se l’opera di Oshii poteva fregiarsi di uno dei compositori più importanti dell’animazione giapponese, la serie di Kamiyama non è certo da meno: la poliedrica Yoko Kanno, che già ci aveva impressionato con “Cowboy Bebop”, firma una colonna sonora composta da tracce appartenenti ai generi più disparati e capaci di accompagnare al meglio qualunque scena. Ed è sempre la Kanno a realizzare la musica delle sigle: da un lato abbiamo l’opening “Inner Universe” cantata in diverse lingue dall’artista russa Origa e accompagnata da una sequenza realizzata in 3D, un po’ a mo’ di videogioco (sostituita nelle repliche dalla funk-rock “Get9” interpretata da Jillmax, stavolta accostata a scene di animazione tradizionale); dall’altro abbiamo l’ending alternative rock “Lithium flower” coi vocali di Scott Matthews (rimpiazzata nelle repliche dalla stupenda “I do” interpretata in italiano da Ilaria Graziano).

In definitiva, “Ghost in the Shell - Stand Alone Complex” è un’opera meno incisiva rispetto al suo predecessore, ma riesce ugualmente a intrattenere grazie a casi polizieschi ben congegnati che forniscono al pubblico non pochi spunti di riflessione. Voto: 8.

9.0/10
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La prima cosa da sapere su "Blame!", è che approcciarsi a questo manga vuol dire abbandonare ogni forma di comodità possibile: Nihei realizza un'opera senza la minima intenzione di prendere per mano il lettore, ma anzi, lo catapulta in un mondo estraneo, le cui logiche sono del tutto aliene e misteriose per chi legge. I personaggi che popolano questo oscuro mondo, già di per sé poco loquaci, non hanno alcun interesse nello spiegare o raccontare l'ambientazione in cui si trovano, lasciando quindi il lettore in balia di un universo alienante e di avvenimenti che solo in parte sarà in grado di comprendere appieno.

Questo, che rappresenta uno scoglio per una larghissima fetta di possibili consumatori, è invece il più grande pregio di "Blame!", prodotto dedicato solo a coloro che si sentano di lasciarsi affascinare da un mondo misterioso e inquietante senza doverlo per forza capire, godendo anzi di questa totale mancanza di controllo su di esso. Un mondo completamente sommerso dalla tecnologia, che si auto-alimenta e da tempo incalcolabile continua a espandersi senza sosta, tanto che non esiste più un cielo, ma solo metallo, tubi, cavi, torri, luci, stretti cunicoli che si alternano ad imponenti e sconfinati sale, formando un infinito labirinto che si estende in altezza per un numero spaventoso di livelli.

Il personaggio principale, Killy, un essere cupo e silenzioso, è l'elemento più misterioso di tutto il criptico racconto: egli è costantemente alla ricerca di particolari geni in via di estinzione, una ricerca che lo porta a vagabondare per la mega-struttura senza sosta e senza via di ritorno, dotato soltanto di una pistola potentissima, quasi leggendaria.

È difficile dire altro sulla trama che, seppur proseguendo in modo non sempre chiaro e con alcuni momenti che vanno interpretati, resta sempre molto interessante e piena di trovate originali. Molto di questo racconto viene narrato dalle sole immagini (i dialoghi sono davvero rari, soprattutto all'inizio), che sono centrali: il mondo di "Blame!" si racconta da solo, parla al lettore più di quanto facciano i personaggi, è il protagonista più di quanto lo sia lo stesso Killy. È lui a dettare i ritmi della storia, stringendosi in angusti corridoi ed espandendosi improvvisamente in bellissimi scorci di ambienti sconfinati. Nihei si trova quindi libero di sfruttare al massimo i suoi studi in architettura, ed unirli alla sua fantasia più sfrenata. Il risultato è qualcosa di assolutamente unico. Anche il design delle creature è curato ed originale, spesso inquietante.

Vanno criticati negativamente, invece, i disegni delle sequenze più concitate: se da una parte il senso di velocità e frenesia viene restituito in modo impeccabile, dall'altra il tratto troppo sporco impedisce di capire bene cosa sta effettivamente accadendo, e a fine scontro ci si trova spesso a riguardare le tavole per capire chi abbia vinto e come.

Insomma, come da premessa, "Blame!" non aiuta a farsi capire, la storia ti costringe alla massima attenzione, a volte a tornare indietro e ragionarci su, per essere compresa al meglio, eppure l'opera ha un'anima quasi magnetica, che di fronte ad un lettore che si lascia ammaliare dall'indubbio fascino dell'ambientazione, tiene agganciati fino alla fine, e regala momenti ed immagini indimenticabili.