Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

10.0/10
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Bella, candida, burrosa, composta al punto giusto, perfetta, immacolata, vergine, dedicata, simpatica, accondiscendente, nostra.

Correva il 1998, e la mente geniale del grande, compianto Satoshi Kon partoriva un lungometraggio animato che avrebbe lasciato un profondissimo segno nei decenni a venire, anche se, come tutte le più grandi opere, avrebbe impiegato diverso tempo per venire compreso e apprezzato.
Liberamente ispirato al romanzo “Perfect Blue: Complete Metamorphosis”, questo sofisticato e criptico capolavoro ci porta nella quotidianità di Mima, idol giapponese di fine Anni Novanta che decide di lasciare il suo storico gruppo dove ha fatto le prime fortune e ha acquisito notorietà, per lanciarsi come cantante solista.
In un mondo spietato e aggressivo come quello dello spettacolo, ogni attimo di gloria dura un battito di ciglia, e si fa presto a venir relegati nel dimenticatoio.
Questo Mima lo sa bene, e gioca le sue poche carte sapientemente: serve gavetta per acquisire notorietà; così, supportata dalla semper praesens manager Rumi Hidaka, Mima cerca di sfondare nel cinema, partendo da piccole e torbide parti in pellicole secondarie. Non si tira indietro, nonostante sia inizialmente titubante, quando le viene chiesto di posare per foto di nudo, proseguendo così la chimerica e vacillante scalata verso il “successo.”

Talentuosa, umile, sorridente, innocente, impegnata, d’esempio.
Idolo. Il nostro idolo.
Liberissima di essere nostra proprietà emotiva.


Che la vita delle idol giapponesi non sia tutta rosa e fiori ci è stato raccontato più volte attraverso cinema, fumetti, romanzi e animazione a vari livelli, ma sin dai primi minuti di questo critico, profondissimo prodotto, possiamo evincere atmosfere ineguagliabili, vero e proprio paradigma del genere psicologicamente stratificato. Senza che nulla venga esplicitato anzitempo, respiriamo aria di gioie plastificate, scene d’avanspettacolo alternate a dietro le quinte fra il degradante e l’inquietante: una prassi, in questo mondo; qualcosa che in fondo tutti già sappiamo, ma di cui non abbiamo davvero idea su fino a che punto possa influire sulla mente di chi lo subisce, quanto tossico e alienante possa essere.

Ogni spaccato artistico del film è di altissimo livello, tanto da aver affascinato numerosi artisti di Hollywood, fra cui Christopher Nolan, che tempo addietro ammise d’essersi spesso ispirato (e aver reso omaggio) - per inquadrature, sequenze “in-motion” e spunti psicologici - proprio ai lavori di Kon, dal suddetto “Perfect Blue” e anche da “Paprika” (chiarissimi riferimenti si possono apprezzare in colossal come “Inception”, “TENET” e “The Prestige”). Ma anche registi come Darren Aronofsky, David Fincher, Michel Gondry e Mamoru Hosoda sembrano essere stati influenzati da questo mondo fra l’onirico e il fantastico.
Potrebbe bastare ciò a far comprendere anche solo vagamente la grandezza di Satoshi Kon. Tale bagaglio artistico spazia da un solidissimo comparto sonoro a quello animato: la sigla cantata da una delle protagoniste non è che l’opening stessa del film (!); note nostalgiche e malinconiche pari passo, uno spontaneo accompagnamento di quello spaccato urbano nel quale sin da subito viene gettato lo spettatore, in pasto a una fossa di frenetici leoni mediatici, un Internet giurassico, appena in auge negli ultimi anni del secolo scorso.
C’è una sostenuta e mai interrotta ansia di fondo in un mondo che viaggia sempre a mille, fatto di passaggi pedonali stracolmi, treni che sfrecciano su piccoli quartieri borghesi dai volti tutti uguali, tutti sincronizzati; tutti, nessuno, centomila.
Nuvole rapide all’orizzonte scorrono a velocità innaturale, mentre il sole tramonta dopo l’ennesima, anonima giornata, dietro pinnacoli di vetro e acciaio, per sorgere il mattino seguente.
Copia, incolla, e ripeti con me: Sono libero e felice.

I dettagli fanno sempre la differenza, e la buonanima del sensei riesce a collocarli con tale maestria e con tale precisione, da creare un vero e proprio mosaico che sa di capolavoro assoluto; ma come ci si anestetizza al jet set cinematografico? Di fronte a una piatta ciclicità, senza accorgercene, annulliamo, smussiamo lentamente i nostri spigoli, limiamo le nostre velleità e le nostre caratteristiche più acute per uniformarci a ciò che pensiamo debba piacerci. Qualsiasi cosa, pur di entrare nel meccanismo stritolante di un sistema che non perdona chi fugge, ma accoglie chi ruota al ritmo giusto.
“Welcome to the machine”, cantavano con amara poesia i Pink Floyd nell’immortale “The Dark Side of The Moon”. Benvenuto nella macchina sociale, adempi al tuo compitino, comportati come ti si addice e farai successo, cara mia, c r e d i m i !
Indossa la tua maschera migliore, spogliati quel che basta e regala alla cinepresa quello che il pubblico brama per noia - o per assuefazione.
Come già accennato, artisticamente siamo a un livello altissimo: nonostante gli anni, rimane visivamente accattivante e intriso di saporitissime vibe quasi vintage che trasmettono magia; un chara design espressamente caratteristico e inconfondibile. Ognuno di questi elementi crea un amalgama gradevole che sprigiona il meglio nelle animazioni (primi piani eccezionalmente espressivi, sguardi e silenzi spaventosamente eloquenti) e nelle scene più importanti della vicenda.

Mima sta quindi cambiando carriera.
Ha deciso di intraprendere la strada da solista, irta di pericoli, compromessi e scommesse, ma, guardandosi allo specchio, continua a farsi forza e coraggio: perché mai non dovrebbe farcela?
Certo, il fatto di fissarsi allo specchio è un modo per guardarsi dentro e spronarsi, infondersi coraggio, determinazione. Tentare di smuovere l’anima.
Ma chi è, esattamente, quella persona allo specchio? È davvero lei stessa?
Quanti aspetti della nostra persona non sappiamo di conoscere, fin quando non si creano le condizioni necessarie nelle quali questo aspetto verrà istintivamente a galla?
I minuti passano e questo slice of life fittizio assume i contorni di un giallo noir, tramutando le consuete sonorità che solitamente accompagnano i lavori di Kon in versioni più cupe e sinistre. Brani sempre più cacofonici e disturbanti prendono per mano lo spettatore e lo accompagnano alle pendici d’una selva oscura, misteriosa, ricca di grattacieli e strade notturne illuminate malamente, ove di tanto in tanto ombre sinistre scivolano al di fuori del campo visivo, ispirando inquietudine e angoscia.
Così, il percorso della protagonista, che da idol sempre sorridente, bambolina perfetta per il sollazzo di migliaia di fanatici, diviene attrice disinibita di un mondo corrotto fino al midollo, comincia a sprofondare in una spirale di sfrenata morbosità, esattamente alla stregua di alcune scene che Mima deciderà di accettare pur di continuare a recitare la sua non-parte: scene di sesso, uno stupro di gruppo simulato, mettendo in risalto il marcio della cinematografia di bassa lega, segmenti proposti da Kon in una chiave talmente sofferta, confusa e disturbante, da divenire scene animate ormai iconiche a cui tutt’oggi si fa riferimento, in quanto pietre miliari dell’animazione moderna.
Ed eccolo, il vero stupro: sotto un brano dal ritmo lento, fastidiosamente cadenzato, i veri violentatori non sono altro che i fruitori del prodotto carnale-mediatico, falsi fan accaniti della loro eroina di plastica, attuatori dell’equazione ove la morbosità dello spettatore risulta direttamente proporzionale al bisogno di possedere idoli piuttosto che ideali, sfondo all’interno della cornice di un degrado quotidiano silente, poco accusato, una sorridente depravazione divenuta quasi fenomeno sociale studiato da anni.
Ma fino a che punto possiamo indossare maschere pur di ottenere successo? Dove siamo disposti ad arrivare?
È con disarmante amarezza, che ci si accorge di come Satoshi Kon, tramite “Perfect Blue”, abbia predetto un futuro traboccante di influencer pronti a rischiare la propria dignità mettendosi in vetrina per quattro soldi, sorridendo senza scrupoli ma contemporaneamente anche senza la minima idea del contraccolpo negativo che certi estremi compromessi possano provocare sulla propria vita e salute mentale. Dipendenti dall’approvazione, drogati di “like”, malati di un successo effimero, proprio come predetto quasi un secolo fa da Andy Warhol.

Il lungometraggio raggiunge l’apice nella parte finale, sondando la coscienza della protagonista, mutando definitivamente in un thriller sottile, incisivo e spietato.
Il progressivo declino della moralità e della psiche sono lo scivolo verso un baratro di follia sempre più buio e miserando; Mima si trova così attanagliata da sensi di colpa, e il rammarico d’aver abbandonato il precedente lavoro che la soddisfaceva, la confortava e, soprattutto, la definiva; ogni cosa, ora, appare smarrita su questa perigliosa e amara strada del successo mordi e fuggi. Gli avvenimenti macabri cominciano così a susseguirsi senza soluzione di continuità: lettere minatorie, cadaveri inaspettati, un blog di stalker; un mix di surreali paure e ansie dove la protagonista finisce per confondere la finzione nella quale recita con l’amara realtà che la sta consumando.
Ed è qui che “Perfect Blue” compie un ulteriore, incredibile e inaspettato salto di qualità, elevandosi a mostro sacro dell’animazione moderna: anche lo spettatore si ritrova confuso, non più sicuro se ciò a cui ha assistito finora sia realtà narrativa o finzione partorita dalla mente della protagonista, o addirittura finzione fittizia all’interno di una mente che vive una vita parallela e onirica.
Delirio assoluto, script del prodotto pazzesco.

La sequenza finale è arte allo stato liquido, fluidificante d’un climax indimenticabile, un epilogo da manuale ove il dramma si consuma come sul set di un film noir, fra un disturbante ciak e l’altro. Fotogramma dopo fotogramma la visionarietà di Kon scolpisce un epilogo sconcertante, un ibrido di emozioni che lascia a bocca aperta.
Atroce: questo è l’aggettivo che si addice meglio a “Perfect Blue”.
Lo stesso regista e autore spiegò che il messaggio del film era proprio quello di riuscire a concretizzare e affermare sé stessi nel marasma della società, dove il virtuale talvolta finisce per sovrastare il reale, creando illusioni e viaggi mentali paradossali, e ciò che si considera sano e “comfort zone” può rapidamente mutare in pericolosa, inconsapevole follia.
Inevitabilmente, si sconfina nel metafisico e nel filosofico.
La realtà oggettiva non esiste (?).
Esiste solo una realtà interiore, succube di cambi d’umore, paure, emozioni e di tutto ciò che percepiamo dentro di noi, che crea ciò che avviene al nostro esterno. Giochi di riflessi, superfici, specchi, perché è nel nostro riflesso e nella riproduzione di noi stessi che si annida la bugia della realtà oggettiva: il fatto è che il nostro tutto esiste solo per ciò che percepiamo nella nostra testa.
Il talento del compianto, glorioso e indimenticato Satoshi Kon di trasmettere su schermo concetti talmente astratti con ritmo e cadenza memorabili riesce a segnare lo spettatore per sempre.
A prescindere dai gusti personali, questo è un capolavoro di indiscutibile spessore che eleva il prodotto animato moderno a vero e proprio modello a cui ispirarsi.
Da vedere assolutamente almeno una volta nella vita.

9.5/10
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"Se l'uomo percepisce la verità in uno stato di coscienza, vedrà ovunque solo la miseria e l'assurdità della vita... e un grande disgusto lo assalirà" (F.W. Nietzsche - Su verità e menzogna in senso extramorale)

Chiaki J. Konaka nella sceneggiatura di "Texhnolyze" sembra essere riuscito a riscrivere il pensiero di Nietzsche, trasformando il "disgusto" in "disperazione".
Chi mi ha preceduto nella recensione di questa serie è riuscito in taluni casi a sviscerare gli innumerevoli e più o meno reconditi riferimenti a opere, correnti filosofiche e religioni perlopiù ascrivibili alla cultura occidentale. Tuttavia, sebbene sia un'opera pregna di concetti e significati anche più prossimi alla nostra cultura, la visione di "Texhnolyze" risulta comunque ostica, allegorica, metaforica e non da ultimo agnostica.

Il "De Profundis" dell'utopia cyberpunk?

"Texnholyze" è stato ideato dai medesimi autori di "Serial Experiments Lain" e "Haibane Renmei": Chiaki J. Konaka, Yasuyuki Ueda e Yoshitoshi Abe. Chi già conosce le opere citate e si accinge alla visione di questa serie potrà intuire che ne segue lo stesso stile, che definirei come "abrasivo": nessun compiacimento al "mainstream", nessun compromesso, tantomeno commerciale.
E per un'opera del genere non si potrebbe neppure scrivere una recensione secondo gli stilemi classici, perché chi avrà la voglia, la curiosità e il coraggio di arrivare fino al termine forse proverà come me la sensazione che "Texhnolyze" non si pone come obiettivo principale quello di piacere alla più vasta platea possibile. Anzi, si potrebbe al limite tacciarla di essere un esempio di sfoggio di un abile sincretismo costruito tramite un florilegio di citazioni, immagini, stili, metafore spesso misleading, per poi consentire di arrivare alla comprensione del senso del messaggio dell'opera solo negli episodi finali, quelli più lirici ma anche meno criptici, in cui si pensa di intuire il profondo messaggio di sfiducia, smarrimento e dolore insito nell'esistenza umana.

L'abrasività di "Texhnolyze" la si percepisce ovviamente non solo per la trama e il finale del percorso escatologico piuttosto cupo e tragico, ma anche e soprattutto per lo stile espositivo/visivo molto sperimentale, spesso estremo e audace, talvolta innovativo e quasi anticipatore. I primi episodi sono particolarmente impegnativi: immagini e inquadrature psichedeliche, primi piani inquietanti con sguardi torvi, sofferenti, assenza quasi totale di dialoghi, silenzi, rumori e musiche che incutono disagio nello spettatore. Le interazioni tra i personaggi sono lente, contemplative, prima facie anche noiose e confuse, che disorientano e mettono a dura prova l'attenzione dello spettatore, che si ritrova di fronte a un guazzabuglio di messaggi senza essere in possesso della "Stele di Rosetta", una sorta di monolite granitico, incomprensibile e inquietante, dove l'unica costante che sembra presente e unire come un fil rouge tutti gli episodi è il dolore fisico e psicologico dei personaggi, contrapposto ai loro vani e ridicoli tentativi di ribellarsi al destino, da intendersi come la fine dell'esistenza.

"Ti dimostrerò che il Texhnolyze non esiste a scopo distruttivo. Ti renderò un uomo dello stesso valore di Onishi, se non perfino migliore" (Eriko Kaneda, la dottoressa che impianta gli arti artificiali a Ichise).

L'illusione che la sostituzione di parti umane con quelle robotiche e perennemente sostituibili o riparabili rappresenta la chimera dell'umanità, per superare in primis i suoi limiti biologici, fino a raggiungere l'immortalità.
In questo senso "Ghost In The Shell" di M. Oshii era già andato oltre, immaginando che lo spirito di una persona fosse traducibile in bit e trasferibile da un corpo cibernetico a un altro con l'altro elemento tipico del cyberpunk dell'ambientazione futuristica e distopica in cui ci si poneva il quesito sulla natura dell'anima, della coscienza di sé (il "Ghost") una volta scorporato dallo "Shell".
"Serial Experiments Lain" ne estremizza il concetto, spostando la dimensione dell'esistenza dal reale al virtuale, per cercare di capire se sia considerabile ancora una forma di vita quella nata e sviluppata sulle mere informazioni che si sviluppano nella rete e in generale in potenti computer (vedasi l'AI).
"Texhnolyze" con il suo percorso finale sembra invece l'amara constatazione della futile illusione dell'uomo di elevare la propria esistenza a una perfezione fisica e mentale che non le è propria, e che è destinata inesorabilmente a fallire, nonostante tutti i tentativi di superare i limiti, proprio perché l'uomo non è destinato né capace di sopportare l'esistenza perfetta e infinita che tanto anela.
"Texnholyze" è una sorta di iperbole, e lo si intuisce chiaramente una volta che i protagonisti raggiungono la superficie. In un'ambientazione onirica, metafisica e di pace senza più alcuna passione o emozione, il dolore che contraddistingue la vita umana diventa atarassia sterile e senza senso in un loop continuo in attesa di Godot.
Tanto da far sembrare le vicende della sotterranea e "umana" Lux e dei suoi personaggi di spicco la vera essenza dell'esistenza umana, che trae forza e un senso proprio dalla sua fragilità e caducità, in cui la morte, ma anche e soprattutto i continui tentativi di sottrarvisi da parte di tutti i personaggi, non è altro che il senso proprio dell'esistenza.
"Texhnolyze" non è nichilista nel senso filosofico del termine, ma è per certi versi la sua negazione. L'unico personaggio che potrebbe essere definito come tale è Yoshii.
È l'unico che agisce ispirandosi all'aforisma di Nietsche citato in apertura. Lui è l'unico che traduce l'esistenza in un atto di distruzione del tutto, per provare a risorgere libero da tutto. Resta tuttavia un anarcoide che sembra voler impersonare l'Übermensch che si diletta a far saltare gli equilibri di Lux solo per dimostrare di esistere, in antitesi alla desolazione della vita nel mondo perfetto della superficie.

Semmai, "Texnholyze" tende ad assomigliare per certi versi a "Tenshi no Tamago" di M. Oshii. E Ichise, dall'inizio alla fine, come "L'uomo che guarda" di Moravia, è un viaggiatore che parte per una nuova destinazione da esplorare, alla scoperta di emozioni, facendole proprie. Da osservatore passivo di ciò che lo circonda, oggetto incurante di qualsiasi cosa gli facciano, si trasforma in un soggetto che scruta emozioni e vicende riguardanti la propria esistenza e quella altrui, anche senza viverle in forma attiva, con un atteggiamento surrealmente molto simile a quello di uno studioso, di fronte a un fenomeno. Per poi rendersi conto che nulla riesce a diventare definitivamente un suo patrimonio, perché tutto è fumoso e fuggevole.

Dal punto di vista tecnico, "Texhnolyze" è "stunning": sbalorditivo. Riuscire a rappresentare per immagini l'alienazione, la solitudine, il dolore fisico e psicologico con quelle atmosfere cupe, dark, con colorazioni sature, contrastate all'eccesso, è un po' come inventare un nuovo "linguaggio" che sembra voler indagare nel profondo e rappresentare la realtà da punti di vista nuovi e quasi sorprendenti. Sotto questo aspetto Hiroshi Hamasaki (regista anche di "Steins;Gate") si è spinto verso un deciso sperimentalismo eccentrico e simbolico degno e adeguato a una sceneggiatura criptica come quella di Konaka.

Per concludere, "Texnolyze" rappresenta, a suo modo, l'arte. Si potrà opinare su contenuti e modalità di rappresentazione, ma resta uno tra i più fulgidi esempi dell'animazione nella cosiddetta Golden Age.

9.0/10
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"Death Note" è un'opera sottovalutata.

Questa è un'affermazione che i più riterrebbero falsa, ma credo possa essere ritenuta vera se, considerando che "Death Note" ha ormai smesso di essere sulla cresta dell'onda, constatiamo come l'opera abbia fisiologicamente perso le migliaia di fan idolatranti, mentre sopravvivono determinati luoghi comuni che ormai vanno sfatati. Non farò una colpa a chi ci ha creduto sinora, non è da tutti voler analizzare a fondo un'opera per capirne appieno i messaggi, i tropi e giudicarne al meglio la scrittura. Anzi, è con grandissima filantropia che, utilizzando i mezzi da me acquisiti con i miei studi umanistici e di critica artistica, risparmierò a costoro la fatica di farlo.
Quanto sono buono, quanto sono bravo! Lasciate che mi faccia un piccolo applauso da solo e mi dedichi un paio di minuti all'onanismo prima di continuare.

Ordunque, qual è l'incipit di "Death Note"?
Qualora non lo sapeste, è una storia che parte dalla noia.
La noia di uno shinigami, un dio della morte, che dopo aver passato l'eternità a decidere chi debba morire scrivendo nomi sul suo quaderno, decide di movimentare le cose lasciando cadere il suo quaderno nel mondo umano. (Comprensibile. Immaginate di essere un'impiegato statale per l'eternità, vorreste causare un genocidio anche voi.)
E la noia di Light Yagami, un ragazzo apparentemente perfetto che prova un'apatia verso il mondo, una delusione costante contro l'umanità, che vede come mediocre e perlopiù malvagia.

Light si ritroverà in mano il quaderno della morte (il "Death Note", appunto) e, una volta appuratone il funzionamento, deciderà di usarlo per ripulire il mondo dai criminali e diventare il "dio di un nuovo mondo".

"Death Note" è un'opera preziosa per la cultura umana, anche oltre quella pop.
Questo perché, contrariamente a quanto si pensi, riesce a gestire al meglio sia le sue tematiche che l'evolversi dei suoi eventi. Non si ha mai la sensazione che qualcosa sia assurdo e forzoso, creato all'ultimo momento per risolvere una situazione, perché anche quando un occhio critico riconosce i "plot devices" creati per risolvere una situazione futura, lo stesso occhio critico può rendersi conto che essi non sono introdotti all'ultimo, ma sempre inseriti con cura nel flusso della narrazione. Vengono presentati al momento ideale, permettendoti di interiorizzarli e accettarli come informazioni di base nella trama, in modo che la risoluzione dei risvolti di trama a essi collegati avvenga con naturalezza.

Parlando di naturalezza, altro grande pregio dell'opera è la capacità di evolvere con organicità e verosimiglianza una storia che parte da un elemento sovrannaturale. A differenza di storie con elementi simili, che vengono equiparate a "Death Note" per ragioni a me ignote (es. "Code Geass"), gli elementi sovrannaturali di "Death Note" non diventano mai una panacea per risolvere ogni situazione, ma rimangono componenti narrative uguali a tutte le altre, senza rapporti di potere squilibrati. Anzi, la loro onnipotenza viene spesso messa in dubbio, a causa di dettagli nel loro funzionamento che non permettono di abusarne, mentre lasciano spazio di manovra a chi vi si oppone. Quindi, cose come gli occhi della morte e le regole sulla proprietà del quaderno non risolvono mai situazioni altrimenti irrisolvibili, ma le rendono ancora più intricate (e non complicate) e interessanti, aumentando la tensione e il pathos di determinate scene. Oltre a creare risvolti di trama sempre nuovi, sempre interessanti.

Questo permette alla storia di rimanere, nonostante gli elementi sovrannaturali, nei canoni del genere poliziesco/thriller, e in quelli del giallo d'investigazione classico. Tale stato delle cose rende necessaria la stessa sospensione dell'incredulità richiesta dalle altre opere che rientrano in questi generi. Ad esempio, bisogna accettare che esistano persone capaci davvero di fare tutte queste tribolazioni mentali incredibilmente cervellotiche (ho espresso questo concetto nel modo più lungo possibile perché mi dava soddisfazione farlo). Bisogna anche dire che, un po' ironicamente, anche su questo "Death Note" riesce meglio di altre opere. Questo perché, mentre in altre opere dello stesso genere come può essere (per non scomodare classici come Sherlock Holmes o i romanzi della Christie) ad esempio Detective Conan, può risultare inverosimile che una persona comune, un impiegato magari, riesca a pianificare un delitto talmente complesso che persino l'Agente 47 si complimenterebbe, di contro in "Death Note" questa dissonanza, se tale vogliamo considerarla, accade molto meno. La motivazione risiede in due elementi: il primo è l'identità non episodica di "Death Note", che non rende necessario uscirsene con tanti personaggi diversi che concepiscono delitti via via più complicati; il secondo è che le persone che muovono la narrazione dell'opera non sono persone comuni, ma sono letteralmente le persone più intelligenti al mondo, o seguono i piani di quest'ultime. Questa sovrabbondanza di intelletto può anche avere un grande valore simbolico (perché "Death Note" non è un'opera superficiale, come a lungo si è creduto). Light, ad esempio, è l'incarnazione della perfezione secondo i canoni della società moderna (anche se l'opera sta invecchiando. Vent'anni dal suo inizio sono tanti). Light è il figlio che ogni madre e padre vorrebbe, lo studente che ogni scuola vorrebbe dire di aver istruito e il cittadino che ogni politico farebbe apparire negli spot promozionali per innalzare il patriottismo della popolazione. La sua perfezione è parte fondamentale della sua essenza, perché deve dare l'impressione di raggiungere anche la sua morale, e quindi far ritenere lui come la persona più adatta al ruolo di "giudice supremo". All'inizio viene naturale tifare per lui perché si ha la sensazione che stia facendo la cosa giusta. Non è un assassino, è solo un eroe maledetto che sta venendo ostacolato da una società che non lo comprende. Poi, più passa il tempo, e più si prosegue nella seconda parte della storia (ne parliamo più avanti), e più ci si rende conto che non è così. Light è solo una persona piena di sé che ha avuto la "sfortuna" di eccellere in tutto, ma che in realtà è anche mediocre. Perché è così perfetto che non si può mettere in dubbio, non può cambiare e non può migliorare.

"Death Note" è una grandissima decostruzione dell'idealismo, ci mostra come la perfezione sia bella solo come ideale, mentre diventa aberrante una volta concretizzatasi. Se un dio esistesse davvero e comunicasse con noi, sarebbe malvagio. Non perché la perfezione sia indice di malvagità, ma perché la società è stata creata a uso e consumo di persone imperfette, e non rispecchia la prospettiva aurea di una tale creatura. Solo un essere imperfetto può dare valore alla vita umana, soprattutto alla propria, pur sapendo di essere parte dell'umanità. Quell'entità che da sola uccide la maggior parte degli individui della propria specie, che ha creato meccanismi come l'economia, che creano disparità sociali, conflitti, e che, indirettamente, è causa dell'inquinamento del pianeta su cui vive. L'umanità è la più grande piaga del pianeta Terra, seconda solo a catastrofi galattiche, eppure l'uomo trova valore nella propria esperienza e rigetterebbe l'idea di essere ucciso per un ordine superiore. Lo stesso uomo che ogni giorno prega un'entità che crede perfetta, e desidererebbe che tale entità esista davvero.

Ed è giusto così, perché siamo creature imperfette e alla perfezione dobbiamo solo ambire, augurandoci di non raggiungerla mai nel breve tempo vitale che abbiamo.

"Death Note", se lo si sta ad analizzare, porta a riflettere anche su queste tematiche. Lo fa meglio di opere incensate del recente periodo, e lo fa sempre.
Anche nella seconda parte.

Parliamo dell'elefante nella stanza.
La seconda parte di "Death Note" viene definita da molti (praticamente tutti) come la parte debole dell'opera, qualcosa di visibilmente inferiore rispetto al resto e piena di difetti. Questa cosa è vera solo a uno sguardo superficiale, se non la si analizza in funzione dell'opera nel suo insieme, e di quanto detto prima nell'opera stessa, facendosi ingabbiare in alcune reazioni emotive totalmente irrazionali.

La seconda parte di "Death Note", a livello di scrittura, non ha problemi. Non ci sono buchi di trama o forzature di sorta, e presenta comunque momenti con grandi battaglie di ingegno. Le uniche "colpe" che possiamo trovargli sono il suo non essere iconica come la prima, e il fatto che Mello e Near non sono personaggi che ispirano molta simpatia. Entrambi non dicono davvero nulla sulla qualità intrinseca dell'opera, semmai sul sentire comune di molti sull'opera. Il sottoscritto non smetterà mai di ricordare che bisogna giudicare le opere per quello che sono, e non per quello che vogliamo esse siano. Altrimenti non stiamo analizzando l'opera, ma stiamo gonfiando il nostro ego a tal punto da invaderla, ed è problematico.

Piuttosto, la seconda parte riesce bene nel mostrarci il crollo di Light come figura quasi divina, confermando quanto essa sia solo psicotica. Come ho detto prima, ci conferma che la sua ideale perfezione sarà il motivo del suo fallimento, poiché fallirà proprio a causa del suo non poter essere onnipotente. Il suo genio sarà sconfitto dal fatto che gli uomini sono imperfetti, e quindi non seguono le sue logiche. Se la seconda parte di "Death Note" fosse davvero scritta male, il suo finale ne uscirebbe depotenziato. Invece, rimane tanto di impatto quanto lo sarebbe stato se fosse stato alla fine della prima (e, anzi, traslandolo lì si sarebbero sollevati molti più problemi di scrittura.)

Un'ultima parola sul comparto tecnico dell'anime: magnifico.
"Death Note" riesce ad avere le battaglie psicologiche più emozionanti e adrenaliniche di questo mondo, e dovrebbe fare scuola verso tutti coloro che vogliono gestire questi momenti senza ammorbare. L'anime è la dimostrazione che nell'arte non è il soggetto a essere il punto di interesse principale, ma il contesto costruitovi attorno. Una buona scrittura e una buona regia possono rendere memorabile anche una sequenza dove si vede la vernice asciugarsi o, come nel caso di quest'anime, un breve momento dove Light mangia una patatina.

Potrei spendere altre quarantamila, se non più, parole su "Death Note", ma credo di aver detto abbastanza e sento di aver finalmente espresso un opinione consapevole e puntuale sull'opera, scevra da tutte quelle velenose credenze popolari che la attorniano.

Ricordatevi sempre di pensare con la vostra testa.
Auf wiedersehen.