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Innanzitutto trovo la traduzione letterale del titolo “Ricordi a goccioloni” molto più significativa ed evocativa della infedelissima trasposizione inglese “Only yesterday”: perché banalizzare un titolo che è invece ricco di fascino, di originalità e che rispecchia perfettamente, in maniera metaforica ovviamente, il dispiegarsi della trama? Il filo conduttore è quello della protagonista che si ritrova, nel suo viaggio di vacanza, a ricordare e rivivere la se stessa delle elementari in tanti episodi più o meno significativi della sua infanzia. Il viaggio è la madeleine che risveglia una pioggia improvvisa di ricordi sopiti, ognuno dei quali è "un gocciolone", appunto, che bagna la protagonista volente o nolente: le scivola addosso, la inonda di sensazioni ancora vive, ancora attuali, ancora significative, e poi passa via veloce, lasciandola lì traballante d'emozione e già raggiunta da un altro gocciolone. Non è la solita trama lineare, il passato che si ricostruisce "goccia dopo goccia" seguendo il filo cronologico della crescita, no, sono proprio goccioloni pescati a caso da un'unica se stessa di 10 anni. Se volessi rendere l'idea di come si dispiega la trama in maniera figurativa, questi ricordi non potrebbero costituirsi né come scala che porta verso una meta in divenire, né come puzzle che necessita di tutti i pezzi insieme incastrati a perfezione secondo un ordine prestabilito per avere senso: è piuttosto un mosaico, in cui ogni tessera è bella e colorata per conto proprio, sagomata in quadratini che si possono affiancare in qualsiasi maniera senza combinazioni prestabilite per dare vita a un insieme di bell'effetto, non per forza di senso compiuto. Non ricostruzione di un puzzle previsto, insomma, ma costruzione tutta nuova di un bel disegno inaspettato. La protagonista non è il risultato e il punto di arrivo di una serie di episodi che ne hanno influenzato il carattere in un rapporto di causa ed effetto (che tanto amano gli psicologi occidentali e le autrici di certi shojo), i suoi ricordi non sono vincolanti, non la portano ad un'unica scelta possibile (che in un film ottimista sarebbe l'eroico riscatto, in un film molto pessimista lo scatto disperato di morte).
Lei a un certo punto, per cause esterne, decide di ridisegnarsi, mettersi in gioco ricollocando a proprio piacimento e secondo la necessità le tesserine di mosaico/goccioloni raccolti mano mano. Il suo passato non ci viene presentato dal regista per capire come e perché è diventata ciò che è. Qui funziona tutto al contrario: i ricordi sono il punto di partenza per una ri-costruzione volontaria e consapevole di ciò che lei vuole essere, vuole diventare o, per lo meno, non vuole essere più. È lei che disegna il proprio mosaico stabilendo dove piazzare le tessere una volta che il gocciolone ne ha portato alla luce una. Il passato non è vincolo o condanna, ma nuova opportunità per comprendersi e indagare se stessa.

Il ritratto che fa Takahata di questa ragazza una volta bambina, è realistico e sincero. Lei è una ragazza come potrebbe esserlo chiunque, una ragazza del tutto incapace di incarnare i valori sinceri e incorruttibili delle eroine per esempio miyazakiane, una ragazza normale con i suoi pregi e i suoi difetti, con una storia che non ha nulla di eclatante, composta da piccoli episodi di vita fra i più banali (come la grande aspettativa per un frutto mai gustato prima o il capriccio per avere un oggetto nuovo). Una persona reale, inserita in un contesto normalissimo, che soffre, gioisce e ricorda come ciascuno di noi, e prova paure che non sarà né la prima né l'ultima a sentire. Una bambina e poi una donna con i suoi lati lucenti e i suoi lati oscuri, con i suoi aspetti dolci e quelli detestabili. La perfezione dei protagonisti dei mondi di Miyazaki è qui molto lontana, e di magico o fantastico non c’è assolutamente nulla se non l’atmosfera da “fiato sospeso” che il regista riesce a creare. Ma come farlo con tante… banalità? A leggere una trama così semplice, senza colpi di scena, mostri, misteri o inseguimenti, parrebbe tutto piatto e noioso. La quotidianità, solitamente, non si addice alle storie da raccontare. Si racconta qualcosa di eclatante, normalmente, di molto drammatico o di molto comico, minacce alla Terra, amori impossibili, grandi scontri, malattie, sorprendenti arti magiche, mondi fantastici, animali parlanti… Ma come fa invece Takahata a tenere sempre desta l’attenzione, a far scorrere i minuti velocemente, a trattenere i nostri occhi incollati alla pellicola e desiderosi di goderne ancora per ben 2 lunghe ore?

Se c’è un aspetto di questo film e del suo regista che mi ha affascinata, è proprio la capacità di trasformare la quotidianità in evento cinematografico. In tanti possono essere capaci di creare storie fantastiche di grande suspance. Ma soltanto dei veri maestri, a mio avviso, sono in grado di trasformare il reale, l’abituale e quindi quasi banale o scontato, in elemento di attrazione. Takahata lo fa in questa pellicola con grande maestria, sublimando in atmosfere significative anche l’episodio in apparenza più trascurabile. Certo l’attenzione per i piccoli particolari, la cura nel disegno, nell’animazione e l’uso attento delle musiche per sottolineare e costruire anche sonoramente i momenti, non solo per accompagnarli, giocano un ruolo fondamentale nella riuscita del film. Non nascondo che ad alcuni potrà sembrare lento, anche un po’ troppo, se sono abituati al cinema d’azione in cui deve per forza succedere qualcosa, un colpo di scena, una grande svolta finale. Ma per chi come me ama le cose semplici, persone a cui piace gustare i dettagli e assaporare i secondi su cui la cinepresa indugia un po’ di più, e che considera le espressioni (anche se di cartone animato) rappresentative quanto e anche più delle parole, un film come questo non può far altro che deliziare. La visione diventa un vero solluchero di sensazioni, di brividi, di sorrisi, in un coinvolgimento totale della parte più delicata e sensibile dello spirito. La conclusione, contaminata da una metafora visiva geniale e azzeccatissima, è il giusto coronamento di un’opera di grande spessore, a livello narrativo, strutturale e intellettuale.

Se volessimo pensare a questo film banalmente come un viaggio alla riscoperta dell’infanzia, oppure alla riscoperta della natura, credo che saremmo fuori strada. L'infanzia è reale e non c'è nulla di nostalgico da riscoprire, ma soltanto il ricordo frammentario di una se stessa a volte anche capricciosa e ipocrita che sa molto poco di rimpianto. E così non è neanche un viaggio di riscoperta della natura, anche nel film viene detto chiaramente dal protagonista “tutto il paesaggio che vedi è così perché costruito dall'uomo, di naturale non c'è nulla": l'uomo e la sua volontà sono la forza motrice al centro del film, la protagonista non riscopre "la natura" nel senso bucolico del termine, ma riscopre i gesti rituali e atavici della ruralità, la dipendenza per la sopravvivenza data dal lavoro fisico e manuale in cui la natura e gli eventi atmosferici sono talvolta amici e talvolta nemici, dunque la tenacia e la grande forza d'animo, oltre che fisica, delle persone che la lavorano. Direi piuttosto che tanto l'infanzia quanto la ruralità sono espedienti narrativi e indizi ben congegnati per portarci fino al culmine della narrazione: l'atto della scelta compiuta, come atto di adultità (presa in carico di responsabilità), come atto di umiltà (non si diventerà mai perfetti, ma l'importante è ammettere i propri difetti e rendesi conto delle proprie mancanze), come atto di speranza (andando controcorrente rispetto al senso comune), come atto di volontà forte. L’incontro con la sua controparte maschile e la presa di coscienza di un aspetto di sé che la accompagna fin da bambina e non ha mai avuto il coraggio di rimuovere o mettere in discussione sono il nodo da sciogliere per comprendere il vero senso del film: un amore guardato dalla prospettiva molto giapponese di “presa in custodia” della donna da parte dell’uomo e la forza in questo senso di affrontarsi nei propri lati più oscuri. Senza dispiego di lacrime e baci per addolcire e commuovere, ma con la solidità di un racconto oggettivo, da un punto di vista esterno e costruito sapientemente su un filo invisibile fino all’ultimo momento, che vi gira tutto intorno.

Takahata possiede l’indiscutibile abilità di prendere lo spettatore e portarlo dentro allo schermo, dentro al suo film, perché dipinge un mondo talmente reale che uno qualunque fra noi potrebbe esserne protagonista. Non suscita meraviglia, ma immedesimazione e forte empatia e così riesce a farci sospirare, mettere in ansia o rasserenarci fianco a fianco con i suoi personaggi. Takahata abbraccia, culla, accompagna. In questo caso, poi, Takahata sprigiona un’energia di vita sorprendente, una volontà di vivere, mettersi in gioco e affrontare se stessi, i propri difetti e le proprie paure che lascia un messaggio forte e positivo allo spettatore. Bisogna affrontarsi a un certo punto, ci dice il regista, non si può fuggire in eterno da sé, dalle proprie responsabilità e dal proprio passato, perché è una fuga inutile che prima o poi dovrà finire e che non porta da nessuna parte.
Non è incredibile trovare tutto questo in una storia che ci parla di piccoli episodi quotidiani accaduti a una bambina di 10 anni? Non sarebbe incredibile trovare tutto questo nelle nostre storie fatte di piccoli episodi quotidiani che ci accadono ogni giorno? Homo faber fortunae suae.