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Animo ribelle ma castigato, portavoce di una generazione che procede a passo svelto ma barcollante tra imposizioni, disillusioni ed effimeri sogni calcistici, Pingu è il pinguino medio che a suon di "noot-noot" tenta di farsi strada in una realtà che gli ha accorciato le zampe in partenza, in una matassa destabilizzante che è il vivere nella postmodernità.
Vita masticata e risputata, nel fenomeno urbano-globalistico (che la city di questa nuova incarnazione seriale intende marcare), giunto ad affondare radici finanche nelle infertili lande ghiacciate dell'Antartide.
Pingu è l'uno, il nessuno e il centomila volti beccuti di un'identità alla ricerca di sé stessa, che si lega ineluttabilmente, in una società laddove i pinguini hanno imparato come guadagnarsi da vivere ma non come vivere, all'altra costante e disperata ricerca, quella di un impiego lavorativo che la definisca. Pingu è una mente condizionata, vittima confusa dello sballottamento fra le prospettive benefiche suscitate da blockbuster "documentaristici" francesi e le ansie generate dalle avvisaglie del Global Warming; è la punta di un iceberg composto di flemmatici maschere la cui stessa identità etnica (né bianchi né neri, o entrambi?) e di genere (la presenza o meno di sopracciglia come uno dei rari segni di demarcazione sessuale) sono messi in discussione sollevando inquietanti interrogativi, similmente a un meccanismo linguistico non ancora snaturato dagli effetti dell'omologazione globale, e che suona estremamente "alieno" e alienante.
Pingu in the City affronta con letterale freddezza il tema del cammino di formazione di un individuo calato in un microcosmo dove solo le altrettanto gelide mura di un igloo possono fornire rifugio e farsi preziose preservatrici di quell'unica, flebile fonte di calore garantita, costituita dal nucleo familiare.