Recensione
Squid Game
9.0/10
"Squid Game" è un serial sudcoreano di 9 episodi, concepito e diretto da Dong-hyuk Hwang, uscito nel 2021 e prodotto e distribuito globalmente da Netflix. In brevissimo tempo è diventata la serie più vista al mondo, trasformandosi in un fenomeno pop planetario e in un simbolo della capacità dei K-drama di divenire linguaggio universale.
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La trama in breve:
in Corea del Sud, 456 persone schiacciate dai debiti accettano di partecipare a un misterioso torneo. Non sanno che i giochi, ispirati a passatempi da bambini, nascondono regole mortali: ogni errore equivale alla morte e ogni vittoria è un passo in più verso un premio in denaro capace di cambiare la vita. Ma in realtà la competizione è uno spettacolo crudele e violentissimo, costruito per intrattenere pochi ricchissimi privi di scrupoli, pronti a scommettere sulla disperazione altrui.
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C’è una scala colorata che sembra uscita da un sogno di un bambino e che invece conduce all’incubo. Ci sono biscottini di zucchero che si spezzano tra le mani terrorizzate dei giocatori. E c’è un ponte di vetro sospeso che esplode catarticamente in mille schegge, tra gioco e morte, tra innocenza e brutalità.
"Squid Game" parla con la lingua universale della paura, del desiderio di riscatto e della lotta disperata contro un destino truccato, e lo fa con un linguaggio audiovisivo che sa ipnotizzare e inquietare, fissando nella memoria suoni, storie e immagini brutali e indelebili.
Uno degli elementi che contribuisce di più alla riuscita della serie è la sua immediatezza: la messa in scena di giochi che tutti conoscono, trasformati in trappole fatali. Ogni episodio serra la morsa attorno allo spettatore, spingendolo in un crescendo inesorabile. Ma dietro l’adrenalina c’è sempre anche l’allegoria. I colori pastello e le scenografie "giocattolose" evocano l’infanzia solo per contrapporla alla brutalità della morte; le scale infinite e i corridoi labirintici cancellano ogni via d’uscita; le maschere geometriche e le tute numerate annullano l’identità dei concorrenti. E poi ci sono gli oggetti-simbolo: il biglietto da visita, i dalgona, il salvadanaio gigante. Che traducono in immagini lampanti il cuore della critica sociale. Con questa forza visiva, "Squid Game" scolpisce l’immaginario collettivo più di tanti film di genere, portando il survival drama a un livello registico e simbolico raramente raggiunto.
Oltre alla domanda “quanto vale una vita?” esplicitata soprattutto nel cour finale, la prima stagione del k-drama affonda già il coltello in molte altre ferite aperte nel tessuto sociale. C’è in primis una critica spietata ed evidente al capitalismo, che riduce gli esseri umani a pedine sacrificabili e trasforma la disperazione in show. Nei giochi inoltre emerge anche la fragilità della fiducia e dei rapporti umani in questo contesto. Alleanze, amicizie e persino legami familiari si sgretolano in pochi istanti sotto il peso della competizione, mostrando quanto sia difficile mantenere solidarietà ed empatia in una realtà che spinge a tradire pur di sopravvivere e di raggiungere il successo.
I VIP che osservano e scommettono incarnano il voyeurismo più osceno e allo stesso tempo riflettono noi spettatori. Non stiamo forse facendo la stessa cosa dal nostro comodo divano? Non stiamo forse consumando quelle stesse morti come intrattenimento? C’è poi l’illusione del riscatto, un premio finale che corrompe ogni morale e spinge tutti a sacrificare dignità e umanità. Il denaro è ormai l’unico dio riconosciuto, e la serie lo incarna nell’immagine potente del gigantesco salvadanaio che si riempie mentre le persone muoiono: un novello vitello d’oro innalzato sul sacrificio umano. L’idolo spietato di una fede senza salvezza.
I personaggi sono tutti costruiti in modo molto credibile, seppur a tratti caratterizzati in maniera estrema. Per citare solo i principali: Gi-hun Seong è l’uomo comune trascinato all'inferno, Sang-woo Cho la ragione che diventa calcolo spietato e Sae-byeok Kang il dolore silenzioso dei dimenticati. A dar loro corpo e voce degli interpreti che hanno saputo reggere con professionalità la pressione di un progetto così ambizioso. Jung-jae Lee, Hae-soo Park, Ho-yeon Jung (insieme a tanti altri) restituiscono infatti performance intense, capaci di restare scolpite nel cuore degli spettatori. Li osserviamo cadere, combattere e tradire: e in ognuno si riflette un frammento di umanità che ci riguarda. Tutto questo non è frutto di improvvisazione estemporanea o del genio del singolo interprete, bensì di una scuola attoriale solida e di un ecosistema cinetelevisivo che, con quest'opera (ma non solo), ha mostrato di poter competere con qualsiasi altra industria audiovisiva del mondo.
La mano del regista e creatore della serie Dong-hyuk Hwang orchestra tutto con rigore e visionarietà dall'inizio alla fine. Dalla costruzione delle inquadrature al ritmo narrativo, alla capacità di trasformare i contrasti estetici in simboli universali. La sua regia tiene insieme spettacolo e allegorie in modo perfetto, trasformando ogni gioco in un rito crudele e ogni morte in immagini scioccanti. In un’intervista l'autore ha anche spiegato di non essere un amante dello splatter e del gore, e che "ogni goccia di sangue in Squid Game è puramente simbolica": un linguaggio pensato proprio per svelare la violenza insita nella società.
Dal punto di vista tecnico c'è da sottolineare anche come molte scelte e inquadrature giochino con il paradosso: bellezza contro brutalità, colori saturi e scenografie geometriche. Composizione degli spazi e ambientazione claustrofobica: tutto costruisce un’estetica che riesce a creare un mosaico di icone contemporanee.
Pur con qualche snodo prevedibile (che non scalfisce la potenza del risultato), "Squid Game" è una serie che ha saputo trasformare il survival-drama in un fenomeno mondiale e in una riflessione sulla nostra società riuscendo a unire l'intrattenimento con una critica sociale lucida, profonda e intensa. Insomma, più che una semplice serie un monito travestito da intrattenimento. E una volta visto, non si torna più indietro.
Forse è stato questo il vero colpo di scena: farci scoprire che l'isola dei giochi non è un set televisivo, ma la società in cui viviamo ogni giorno. E la vittoria di Dong-hyuk Hwang è stata averci costretto a guardare negli occhi le nostre stesse regole malate.
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La trama in breve:
in Corea del Sud, 456 persone schiacciate dai debiti accettano di partecipare a un misterioso torneo. Non sanno che i giochi, ispirati a passatempi da bambini, nascondono regole mortali: ogni errore equivale alla morte e ogni vittoria è un passo in più verso un premio in denaro capace di cambiare la vita. Ma in realtà la competizione è uno spettacolo crudele e violentissimo, costruito per intrattenere pochi ricchissimi privi di scrupoli, pronti a scommettere sulla disperazione altrui.
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C’è una scala colorata che sembra uscita da un sogno di un bambino e che invece conduce all’incubo. Ci sono biscottini di zucchero che si spezzano tra le mani terrorizzate dei giocatori. E c’è un ponte di vetro sospeso che esplode catarticamente in mille schegge, tra gioco e morte, tra innocenza e brutalità.
"Squid Game" parla con la lingua universale della paura, del desiderio di riscatto e della lotta disperata contro un destino truccato, e lo fa con un linguaggio audiovisivo che sa ipnotizzare e inquietare, fissando nella memoria suoni, storie e immagini brutali e indelebili.
Uno degli elementi che contribuisce di più alla riuscita della serie è la sua immediatezza: la messa in scena di giochi che tutti conoscono, trasformati in trappole fatali. Ogni episodio serra la morsa attorno allo spettatore, spingendolo in un crescendo inesorabile. Ma dietro l’adrenalina c’è sempre anche l’allegoria. I colori pastello e le scenografie "giocattolose" evocano l’infanzia solo per contrapporla alla brutalità della morte; le scale infinite e i corridoi labirintici cancellano ogni via d’uscita; le maschere geometriche e le tute numerate annullano l’identità dei concorrenti. E poi ci sono gli oggetti-simbolo: il biglietto da visita, i dalgona, il salvadanaio gigante. Che traducono in immagini lampanti il cuore della critica sociale. Con questa forza visiva, "Squid Game" scolpisce l’immaginario collettivo più di tanti film di genere, portando il survival drama a un livello registico e simbolico raramente raggiunto.
Oltre alla domanda “quanto vale una vita?” esplicitata soprattutto nel cour finale, la prima stagione del k-drama affonda già il coltello in molte altre ferite aperte nel tessuto sociale. C’è in primis una critica spietata ed evidente al capitalismo, che riduce gli esseri umani a pedine sacrificabili e trasforma la disperazione in show. Nei giochi inoltre emerge anche la fragilità della fiducia e dei rapporti umani in questo contesto. Alleanze, amicizie e persino legami familiari si sgretolano in pochi istanti sotto il peso della competizione, mostrando quanto sia difficile mantenere solidarietà ed empatia in una realtà che spinge a tradire pur di sopravvivere e di raggiungere il successo.
I VIP che osservano e scommettono incarnano il voyeurismo più osceno e allo stesso tempo riflettono noi spettatori. Non stiamo forse facendo la stessa cosa dal nostro comodo divano? Non stiamo forse consumando quelle stesse morti come intrattenimento? C’è poi l’illusione del riscatto, un premio finale che corrompe ogni morale e spinge tutti a sacrificare dignità e umanità. Il denaro è ormai l’unico dio riconosciuto, e la serie lo incarna nell’immagine potente del gigantesco salvadanaio che si riempie mentre le persone muoiono: un novello vitello d’oro innalzato sul sacrificio umano. L’idolo spietato di una fede senza salvezza.
I personaggi sono tutti costruiti in modo molto credibile, seppur a tratti caratterizzati in maniera estrema. Per citare solo i principali: Gi-hun Seong è l’uomo comune trascinato all'inferno, Sang-woo Cho la ragione che diventa calcolo spietato e Sae-byeok Kang il dolore silenzioso dei dimenticati. A dar loro corpo e voce degli interpreti che hanno saputo reggere con professionalità la pressione di un progetto così ambizioso. Jung-jae Lee, Hae-soo Park, Ho-yeon Jung (insieme a tanti altri) restituiscono infatti performance intense, capaci di restare scolpite nel cuore degli spettatori. Li osserviamo cadere, combattere e tradire: e in ognuno si riflette un frammento di umanità che ci riguarda. Tutto questo non è frutto di improvvisazione estemporanea o del genio del singolo interprete, bensì di una scuola attoriale solida e di un ecosistema cinetelevisivo che, con quest'opera (ma non solo), ha mostrato di poter competere con qualsiasi altra industria audiovisiva del mondo.
La mano del regista e creatore della serie Dong-hyuk Hwang orchestra tutto con rigore e visionarietà dall'inizio alla fine. Dalla costruzione delle inquadrature al ritmo narrativo, alla capacità di trasformare i contrasti estetici in simboli universali. La sua regia tiene insieme spettacolo e allegorie in modo perfetto, trasformando ogni gioco in un rito crudele e ogni morte in immagini scioccanti. In un’intervista l'autore ha anche spiegato di non essere un amante dello splatter e del gore, e che "ogni goccia di sangue in Squid Game è puramente simbolica": un linguaggio pensato proprio per svelare la violenza insita nella società.
Dal punto di vista tecnico c'è da sottolineare anche come molte scelte e inquadrature giochino con il paradosso: bellezza contro brutalità, colori saturi e scenografie geometriche. Composizione degli spazi e ambientazione claustrofobica: tutto costruisce un’estetica che riesce a creare un mosaico di icone contemporanee.
Pur con qualche snodo prevedibile (che non scalfisce la potenza del risultato), "Squid Game" è una serie che ha saputo trasformare il survival-drama in un fenomeno mondiale e in una riflessione sulla nostra società riuscendo a unire l'intrattenimento con una critica sociale lucida, profonda e intensa. Insomma, più che una semplice serie un monito travestito da intrattenimento. E una volta visto, non si torna più indietro.
Forse è stato questo il vero colpo di scena: farci scoprire che l'isola dei giochi non è un set televisivo, ma la società in cui viviamo ogni giorno. E la vittoria di Dong-hyuk Hwang è stata averci costretto a guardare negli occhi le nostre stesse regole malate.
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