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megna1

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In principio vi fu il cantiere della Cappella Sistina, poi arrivò lo Studio Ghibli, impresa fondata da Hayao Miyazaki con la benedizione di Isao Takahata e il patrocinio della Tokuma Shoten.

Miyazaki aveva rivoluzionato il settore per merito del layout del lungometraggio "Taiyo no Ouji - Hols no Daiboken", considerato da molti il vero punto di svolta della scena nipponica, che fino a quel momento aveva tentato di imitare le scuole d'oltreoceano (con scarsi risultati). Una raffica di successi uno dopo l'altro che culminarono nel 2014 in un meritatissimo Oscar onorario alla carriera.

«Ebbè?!». Vi chiederete esterrefatti. «Perché una premessa a guisa di fanfara trionfale per un voto così infimo!». Semplice, volevo farvi capire com'è facile passare dalle stelle alle stalle nel giro di un battibaleno.

"Earwig and the Witch" è il primo titolo prodotto da Toshio Suzuki nell'ovattata era post-COVID. In questo momento nefasto per l'umanità, in mesi e mesi di reclusione forzata in casa ci hanno rifilato una pletora di cartoon ritenuti educativi ed istruttivi e, in aggiunta, un considerevole numero di remake alquanto ignominiosi. E poi lo sanno tutti, infatti, che tra il 25 dicembre e l'Epifania è d'obbligo guardare il "cartone di Natale". Prendiamo ad esempio "Soul", l'ultima genialata della Pixar, che sta sciogliendo in brodo di giuggiole critici, addetti ai lavori, genitori e pargoletti. Il riverito studio che ha per simbolo Totoro si accoda pertanto alla lunga fila di pretendenti che provano a copiare l'azienda californiana, con lo scopo di raccattare almeno un minimo di gridolini smancerosi e occhi a forma di cuore nei commenti in rete. E per raggiungere questo intento hanno ripescato un'opera minore e poco considerata della scrittrice Diana Wynne Jones.

Ed eccomi qui, mio malgrado, a recensire un altro risibile filmucolo in CGI pieno zeppo di linguacce, sberleffi infantili e versacci insopportabili, di cui nessuno sentiva la mancanza. Goro è riuscito a rimuovere quasi tutto ciò che avevano fatto di buono l'anziano padre e i decani dello studio. «Puro liquame audiovisivo», come sentenziava spesso e volentieri il caro vecchio utente Fagiana. Dove sono finiti quei momenti di magica sospensione e di dolce immobilità di Miyazaki senior? I richiami a Conrad e Kipling, l'ucronia, l'ecologismo. Tutto svanito. Puf! Volatilizzato. Oltre a quello si è avuta una eradicazione del sapore esotico e di quella imperscrutabile filosofia tanto cercata da noi occidentali. Si comincia a percepire l'embrione di quel politicamente corretto che comincia a pulsare nella lontana terra del Sol Levante. Miyazaki (Hayao) è come un eterno bambino che scappa di casa, osserva, sogna e scarabocchia, in barba alle regole imposte dagli adulti. Goro è alla mercé degli sponsor e dei magnati della televisione. Il regista di "Mononoke Hime" non faceva l'artista di professione, ma era uno spirito libero. Goro cerca di farlo come lavoro, ma annaspa e va a tentoni.

Non starò qui a perdere tempo prezioso con la trama, dal momento che è condensabile in meno di quattro righe e, oltretutto, è storia saputa e risaputa. Forse l'intervento di qualcheduno dalla mano esperta avrebbe potuto contribuire a rendere lo storyboard un po' più vivace. Trovo eticamente irrispettoso trasformare un innocente racconto per ragazzi in un insulso special per la TV. Mi ricorda quei direct-to-video scrausi che si trovano nei cestoni appresso le casse di un qualunque, anonimo ipermercato di periferia. Sto già pregustando il grazioso quadretto familiare: «Cara, compriamo questo?». «Sì tesoro, così la smette di frignare!». Ecco come si è ridotto lo studio di "Omoide Poroporo" e "Porco Rosso". In compenso i grandi gruppi americani faranno carte false per averlo come esclusiva nei propri palinsesti.

Inutile girarci attorno. È innegabile che nel brutale passaggio alle tre dimensioni il character design di Katsuya Kondo ha perso molto del suo fascino. Avevo già storto il naso passando in rassegna le prime immagini, che non lasciavano presagire nulla di buono. La scalmanata protagonista, tipizzata e imbronciata, non emana la solita bizzosa allegria e non m'ha trasmesso alcun tipo di soprassalto. I personaggi secondari mi fanno addirittura pensare ad automi programmati in fabbrica con movimenti innaturali e schematici. Sembrano passati secoli da quando il burbero e pignolo Miya-san faceva sopralluoghi a sorpresa, correggendo i settei uno ad uno, con l'immancabile sigaretta traballante fra le labbra. Oggi a sistemare le imperfezioni ci pensano costosi computeroni con programmi specifici e sofisticati algoritmi, meno scorbutici e senza problemi di tabagismo. Tuttavia c'è chi andrà a magnificare la risoluzione grafica e la compressione video, oppure il fatto che l'acqua e il fuoco siano entrambi indistinguibili da quelli della realtà. Io invece sono rimasto costernato dal fatto di essermi trovato davanti a un rendering di pessima fattura. I capelli sono letteralmente inguardabili, sembrano plastificati con una macchinetta per il sottovuoto. Le sole e uniche cose che m'han fatto rivivere le atmosfere ghibliane sono state due nuvolette passeggere, che ho intravisto di sfuggita in un paio di occasioni. Ora come ora, altri momenti di piacevolezza non me ne vengono in mente.

Mortificante, se calcoliamo che fino a pochi anni orsono i fan non vedevano l'ora di mettere le mani sui loro titoli per ammirare i fulgenti effetti speciali di Yoshinori Kanada, le maestose nubi di Katsu Hisamura, gli immani sfondi di Nizo Yamamoto e Toshiro Nozaki, il delicato equilibrio dei disegni di Yoshifumi Kondo, i colori di Michiyo Yasuda che agivano da cardiotonico. A quelli che sono ancora tra noi verrà una sincope, gli altri si rivolteranno nella tomba davanti a cotanto scempio. È stato un supplizio vedere il nome del papà di Goro associato a un fallimento di tale portata. Un disastro su tutta la linea. Penso che sia arrivato il momento di intonare il de profundis per il cinema d'animazione giapponese. Dopo di questo ci può essere solo l'apocalisse. Sarò drastico, ma vedo l'assoluta necessità di un "Grande reset", visto che anche l'ultimo baluardo dell'arte contemporanea è crollato. Direttori e supervisori nonché soggettisti e sceneggiatori di ogni ordine e grado devono riunirsi assieme e discutere del futuro dei nostri beneamati anime.

Il bello è che ci avevano già "deliziato", per modo di dire, con l'orripilante serie "Ronja, La figlia del brigante", e ora lo hanno rifatto. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico; a questo punto mi viene da pensare che Goro sia il classico ammanicato. Stavolta, però, ha passato il segno. Farebbe meglio a darsi una smossa, se no altro che cerimonia degli Oscar o Festival di Venezia, di questo passo l'unico premio che può ambire a vincere è il Razzie Award. Speriamo che gli iconoclasti che verranno distruggano per sempre questa robaccia immonda. Anzi no, meglio preservarla e studiarla. Per non ripetere mai più certi errori!