Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

6.5/10
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Riguardo il comparto tecnico non c’è niente da dire, se non che rasenti la perfezione, però proprio il fatto che non ci sia da dire sotto questo aspetto, ti fa venire voglia di scrivere un po’ di cose.

Tempo fa mi sono imbattuto in un articolo di giornale, dove si evidenziava l’evoluzione del marketing relativo ai film. Riassumendo brevemente il discorso: fino qualche decennio fa, ad attirare gli spettatori al cinema erano solamente gli attori che, con il loro nome, conferivano all’opera che era arrivata nelle sale, una sorta di marchio di qualità. Tutto ciò che faceva parte del comparto tecnico, era in qualche modo un’informazione che interessava solo gli addetti ai lavori, ed era considerata irrilevante per quanto concerneva la promozione (questo è quello che era scritto nell'articolo, qualche eccezione a me viene in mente, però lasciamo stare). Negli ultimi anni invece aveva incominciato a diventare sempre più spendibile il lato “extra recitativo”, per cui durante i trailer c’era una proliferare di annunci tipo: “dal regista, dai produttori , dall'autore di …” senza contare poi l’enfatizzazione dei premi (anche tecnici) conseguiti dai vari film, nei più famosi festival mondiali. Questo fenomeno, che nel tempo ha preso sempre più piede, può essere considerato anche positivo, visto che per ogni attore che ci mette la faccia, ci sono decine e decine di lavoratori invisibili, che a volte non sono nemmeno tanto ben pagati (ci sono stati degli scioperi da parte degli sceneggiatori, anche ad Hollywood).

“Bubble”, per certi versi, rappresenta il salto successivo di questa tendenza, che però nasconde anche una connotazione negativa: la scelta di “reclutare” lo “Studio Wit” e il regista Tetsuro Araki, resi celebri per i loro lavori ne “L’attacco dei giganti ”, da una parte crea un potentissimo richiamo verso tutte quelle persone che si sono appassionate a questa lunga saga (e dal punto di vista del marketing ci sta), ma dall’altro lato genera un forte sbilanciamento del lungometraggio verso il lato meramente tecnico (cosa tra l’altro già vista nei film americani, con l’avvento del digitale), a tutto discapito della sceneggiatura che ne risulta pesantemente penalizzata.
In sostanza si è fatto esattamente il contrario di quello che per me dovrebbe essere la norma, e cioè invece di partire da una buona scrittura, e cercare poi le migliori maestranze disponibili sul mercato per svilupparla, si è invece partiti da quello che lo studio di produzione e il regista sapevano fare al meglio (perché alla fine stiamo parlando del movimento tridimensionale elevato al cubo) e da qui, si è poi imbastita una storia un po’ raffazzonata e piena di lacune narrative. In altre parole non è stata la tecnica a mettersi al servizio della scrittura, ma è la storia che è stata costruita in base alle capacità tecniche (eccelse, per carità) disponibili.

La debolezza di “Bubble” risiede proprio nella trama, che apparentemente è anche piuttosto ambiziosa (e ciò peggiora le cose), visto che vengono buttati dentro: il mito delle sirene, le anomalie spazio/tempo gravitazionali e la geometria delle spirali, senza però poi creare un vero collegamento esplicativo del tutto. “Uta”, la coprotagonista, mi ha ricordato la versione femminile di “Tarzan”, ed è un po’ assurdo come nessuno dei compagni si ponga qualche domanda su chi (cosa) sia la ragazza, viste anche le sue strane anomalie, tanto fisiche quanto comportamentali. I vari personaggi, seppur nell’insieme simpatici, non vengono ben sviluppati (anche perché non avevano tempo per farsi conoscere, erano troppo impegnati a saltare). Non viene mai mostrato come si viva fuori dalla “bolla” di Tokyo, e il fatto che dall’esterno li osservino in TV, scommettendo su di loro, porta alla mente un certo “Hunger Games” .

Devo dire che mi è piaciuta quella strana danza sulle bolle che i due protagonisti, Hibiki e Uta, mettono in scena, poiché mi ha ricordato i rituali di corteggiamento di alcuni uccelli, che si vedono nei documentari, e insieme ad una discreta OST, creano un’atmosfera poetica e avvolgente, che di certo non è paragonabile ad un prosaico lui che invita la sua lei, a mangiare un onigiri, nel tipico “Slice of life” nipponico.

L’integrazione “fondali – personaggi” è quasi perfetta e supera di gran lunga quella dei “Giganti” anche se alcune scene, mi hanno lasciato la sensazione di star a vedere un video game dove a giocare, invece che un amico, era il regista.

Alla fine mi sento di consigliare “Bubble” ai soli amanti del comparto tecnico e visivo in particolare, perché da questo punto di vista stiamo a livelli altissimi, tutti gli altri possono tranquillamente saltarlo.

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Se ci sono dei prodotti che spiegano bene perché il cartone animato porta qualcosa di nuovo e non replicabile nelle arti, quest’anime è sicuramente uno dei primi che mi vengono in mente, per tante ragioni. La più evidente è, naturalmente, nel contenuto.

“Serial Experiments Lain” è spesso qualificato come un seinen (cioè progettato per un pubblico maschile di età adulta), di una fantascienza surreale che in precedenza esisteva pienamente quasi solo nella letteratura di scrittori come J.G Ballard e Philip K. Dick; quest’ultimo viene citato dall’autore dell’anime con il suo romanzo “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”, un’influenza evidente ma ricombinata alla perfezione.

La protagonista è l’omonima Lain, una timida ragazzina di quattrodici anni che ha rapporti molto goffi con le compagne di classe e con la sua stessa quotidianità, che passa buona parte del tempo a recludersi nel Wired: una sorta di surrogato futuristico di Internet che non si focalizza sulla ricerca di siti ma sull’accesso a una realtà virtuale che si scoprirà presto essere più di questo.

La scoperta del Wired porterà Lain a scoprire letteralmente nuovi lati di sé stessa, come un alter ego con un carattere diverso, più disinibito. Ma la scoperta più determinante è l’idea che il mondo fisico e il Wired non siano due entità totalmente distinte e separate e che la tecnologia sia in realtà il risultato di un grande progetto di proiettare nella realtà l’inconscio collettivo, per cui Lain non si limiterà a riflettere sull’ essenza del mondo ma sulla sua stessa natura e il suo scopo nel mondo. È tutto giocato su una compenetrazione e un respingimento tra fisicità e fantasmagoria, tra finzione e realtà, tra mondo digitale e analogico, tra individuo e collettività.

“Serial Experiments Lain” è un prodotto che non emoziona dal punto di vista empatico, perché vuole appositamente essere freddo, alienante, spesso crea un senso di disagio ed è come se volesse in contemporanea staccarci e immergerci nella storia, perché fa un uso quasi anarchico del narratore esterno e dei “dipinti psichedelici” del Wired, che rende la narrazione appositamente frammentata e dissociata, addirittura in diverse occasioni vediamo immagini di persone reali, quasi come se “invadessero” il medium dell’animazione, ma da questa deformati. Per questi motivi, abbiamo spesso la sensazione che più volte la narrazione rallenti e acceleri di colpo, resa irregolare dalla comparsa di immagini e informazioni che si intromettono come virus, e non sappiamo sempre se siano realmente percepite dai personaggi, per cui ci sentiamo da una parte “respinti” dalla storia, dall’altra questi schizzi onirici ci immergono nell’estetica del Wired, ci fanno entrare in un altro mondo che emoziona proprio per la sua irregolarità e caos, anche in paragone ad altri mondi fantastici che, a differenza sua, non sono fantasmagorici e surreali, ma più “vicini” al nostro, come la Terra di Mezzo o Hogwarts. L’introduzione di un narratore esterno riflette invece le voci all’interno della testa di Lain e serve soprattutto a noi ascoltatori per ottenere informazioni sulla storia e quindi trarne i maggiori spunti.

Questo dimostra anche come il tema dell’informatica sia stato reso in maniera visionaria, esteso a livello esistenziale. C’è una porzione di funzionalità e immagini riconducibili ai nostri computer, ma l’estetica e gli scopi ultimi diventano ben più di raccolta informazioni, numeri, poligoni e pixel, ma anche più dei videogiochi e della normale realtà avanzata, perché vengono create da zero nuove regole che però sentiamo radicali, fluide e immersive quasi come la nostra vita vera, per cui anticipa in un certo senso l’idea di “metaverso”: un’invenzione recentissima che naturalmente non ha mai raggiunto (e sicuramente non raggiungerà mai) i livelli del Wired, dove l’informatica è elevata a una sorta di surrogato della dimensione spirituale.

Tornando all’argomento iniziale, un anime del genere non è solo artisticamente rilevante e profondo quanto potrebbe esserlo una serie TV o un film, ma è anche praticamente impossibile da trasporre con persone e paesaggi reali per l’altissimo budget che richiederebbe, cosa che non sarebbe neanche così opportuna, perché “Serial Experiments Lain” vuole spingere ad oltranza le prerogative del cartone animato e quindi creare un discorso con il linguaggio stesso del medium, che viene fatto non solo introducendo sprazzi di immagini reali videomontate, ma anche facendo un uso oltranzista della bidimensionalità, come ad esempio con le sagome “cosmiche” delle case che compaiono in moltissime occasioni nell’anime. Tutto questo incarna in estetica l’idea esistenziale che ciò che vediamo sia un “cielo di carta”, per citare Pirandello, e serve dunque da ciliegina sulla torta per un capolavoro come ne ho visti pochi nel suo medium artistico.

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"Time waits for no one" - "Il tempo non aspetta nessuno". Questa sorta di aforisma appare più volte scritto nel corso del film animato sulla lavagna del laboratorio di chimica in disuso della scuola che frequenta la protagonista del film Makoto Konno.
E alla fine della visione ho cominciato a pensare che il regista Mamoru Hosoda l'abbia fatta apparire in diversi frangenti del suo film perché doveva rappresentare la chiave di lettura della trama del suo film.

"La ragazza che saltava nel tempo" è un film che viene classificato come commedia, fantascienza, scolastico, a tema sui viaggi nel tempo e sull'amicizia e amore tra adolescenti.
E, prima facie, il film anime narra le gesta della protagonista Makoto che, una volta scoperto accidentalmente il potere di spostarsi a piacimento nel tempo, sfrutta questo "potere" per porre rimedio a situazioni che possano arrecare pregiudizio a lei o alle persone che conosce, fino a cercare di cambiare il passato anche a scopo altruistico, coerentemente alla sua indole di ragazza un po' tomboy, poco femminile e insicura dei propri mezzi, ma anche altruista, tanto da utilizzare il suo potere non solo per sé stessa, ma anche per risolvere secondo la sua visione i problemi di coloro che le stanno vicini.

E se ci si limitasse a giudicare il film da ciò che rappresenta, dovrei scrivere che si tratta di una storia semplice, oserei dire quasi banale, e da un punto di vista meramente fantascientifico anche un po' raffazzonata, poco chiara e coerente: quasi più un fantasy (un po' anche puerile), piuttosto che un anime di fantascienza vero e proprio.

A mio avviso sarebbe pertanto un errore valutare "La ragazza che saltava nel tempo" come un mero anime di vera e propria fantascienza, proprio perché non vengono molto approfonditi gli aspetti tipici di un film che fonda la sua storia in brevi viaggi nel tempo; non a caso il film, più che concentrarsi sulla componente sci-fi e il come e il perché dei viaggi, si limita a mostrare in un modo anche quasi "ludico/giocoso" e "spensierato" (basti pensare a come la protagonista riesca a spostarsi nel tempo) gli effetti rocamboleschi e pasticciati delle azioni compiute dalla protagonista per cambiare il futuro appena vissuto.

E allora quale potrebbe essere l'interpretazione dell'opera di Hosoda?
"Il tempo non aspetta nessuno"... e ho pensato: quante volte sia da ragazzi che poi da adulti abbiamo riflettuto sulle conseguenze di un futuro ipotetico, se in una determinata occasione ci fossimo comportati in modo diverso da quello attuato...
E, con un po' di invidia, constatiamo che alla protagonista del film Makoto viene donato un potere incredibile: viaggiare/muoversi nel tempo per rimediare o facilitare delle situazioni di cui lei conosce l'esito, in modo da cambiare il corso delle cose e migliorare il futuro (secondo la sua visione), salvo poi accorgersi che, pur cambiando un tassello del complesso mosaico della consequenzialità degli eventi, gli effetti su tale catena non sortiscono sempre l'effetto sperato. Paradigmatica è la scena in cui Chiaki si dichiara a Makoto e lei, a forza di cambiare il passato per evitare di ricevere la dichiarazione, ottiene l'effetto indesiderato...

Il primo "monito" che ho ricavato è quello che il potere di ripercorrere le proprie scelte e poterle cambiare è un potere che, qualora i cambiamenti apportati non siano pensati in modo ragionato, porta inevitabilmente a ripercussioni indesiderate.
Ma, e soprattutto, la protagonista Makoto sta vivendo quel periodo di transizione che parte dall'adolescenza e la porterà all'età adulta, in cui il cambiamento di sé, delle relazioni con i suoi amici e della sua vita in generale e la loro elaborazione non è la sua priorità, anzi...
Ma sta inesorabilmente crescendo, e anche tutto ciò che la circonda sta cambiando, diventando forse più complesso, e tale aspetto la spaventa... e penso proprio che chiunque, chi prima, chi dopo, abbia condiviso questo momento delicato di transizione, in cui le decisioni sul futuro destabilizzano al pari di quelle che mettono in gioco sé stessi e i propri sentimenti... e mantenere lo status quo spesso è la soluzione di comodo più semplice da scegliere e accettare.

Ecco quindi che, se non ci si sofferma sui singoli episodi dei cambiamenti del passato, l'impressione complessiva che ho ricavato dopo la visione del film è la rivisitazione, con gli occhi da adulto e in chiave molto metaforica, delle scelte che si compiono da adolescenti.
Makoto è l'archetipo dell'adolescente che pensa, ragiona e agisce (o non agisce) in base a scelte ispirate molto spesso da timori, paure, principi ed errori di valutazione che portano molto spesso a "non fare" piuttosto che "fare", per la paura di mettersi in gioco, di essere giudicati non all'altezza delle situazioni o di non essere accettati per quello che si è, di ricevere un rifiuto o un diniego, di fallire nei propri propositi o semplicemente perché non si è in grado di valutare con la giusta maturità e serenità certe situazioni che la vita ci costringe ad affrontare.

E Il giochino dei viaggi nel tempo è solo una metafora del messaggio che Hosoda vuole trasmettere con quest'opera e che è ben ricavabile dai dialoghi che la protagonista Makoto intrattiene con la zia Kazuko e che invito ad ascoltare/leggere con attenzione. Mi è sembrato che proprio nelle conversazioni con la zia Kazuko Makoto abbia provato ad analizzare i suoi problemi e timori, per poi provare ad elaborare le possibili soluzioni, inclusa la condivisione del segreto di poter viaggiare nel tempo, trovando nella zia una persona comprensiva, open-minded e saggia. Nei pochi momenti in cui si sono confrontate, e sulla base dei dialoghi anche un po' criptici sulla circostanza che Kazuko abbia avuto la sua prima storia di amore alle superiori e che ora non aveva idea di dove si trovasse la persona amata, mi è sembrato che in fondo Kazuko possa in qualche modo rappresentare la Makoto del futuro che spiega alla sé del passato non tanto e solo come "utilizzare" il potere di viaggiare nel tempo, ma anche fornendo le indicazioni su come valutare e ponderare l'importanza delle proprie azioni e sentimenti, in modo che Makoto possa elaborare le proprie risposte in autonomia... il tutto poi senza giudicarla e rimproverarla per gli errori e le leggerezze commessi.

Probabilmente, anche la circostanza che Kazuko lavori come restauratrice in un museo e che stia restaurando proprio il quadro che Chiaki stava attendendo di vedere potrebbe rappresentare metaforicamente l'attesa da parte di lui del passaggio da un'età (adolescenza) a un'altra (adulta) della protagonista... ma, forse, sto interpretando troppo liberamente le immagini del film.

Se a Makoto e alla zia Kazuko Hosoda ha attribuito un certo senso di "profondità", conferendo soprattutto a Makoto una evoluzione positiva, gli altri personaggi sono abbastanza normali e standard, e il comparto tecnico, con l'eccezione delle musiche, non mi è sembrato degno di nota: chara desing molto semplice (un po' nello stile di Hosoda, e che ho già avuto modo di apprezzare in "Wolf Children") e spesso poco dettagliato, soprattutto nei personaggi di sfondo.

È proprio la trama e la sceneggiatura il pezzo forte de "La ragazza che saltava nel tempo", e il finale "aperto" (che sembra tipico delle opere di questo genere) mi è sembrato il più appropriato per la storia narrata.

Qualcuno potrà obiettare, ma avrebbe ridotto la carica poetica e simbolica del messaggio che Hosoda voleva trasmettere: la vita è fatta di attimi, emozioni e sentimenti di quel preciso momento e vanno vissuti come tali, perché con ogni probabilità, una volta persi o rinnegati, non ci sarà una seconda possibilità di viverli nuovamente nel modo più pieno e soddisfacente.

In fondo, citando Gibran ("Il Profeta" - capitolo dedicato al Tempo) e con la consapevolezza che "ciò che in [noi] è senza tempo" e "che la vita è senza tempo", "...ieri e domani non sono che il ricordo e il sogno dell’oggi". "...Ma se dovete nella vostra mente scandire il tempo in stagioni, lasciate che ogni stagione cinga tutte le altre, e che l’oggi abbracci il passato col ricordo, e il futuro col desiderio".