Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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Normalmente gli anime/film tratti da videogiochi sono pessimi, media troppo distanti e un'immedesimazione minore rispetto al videogioco rendono un adattamento animato dignitoso quasi impossibile.
La soluzione adottata da Trigger per non collezionare un fiasco (ma nemmeno ottenere un capolavoro) è quella di mantenere l'universo narrativo del videogioco Cyberpunk 2077 ma cambiare completamente i personaggi e la storia.

L'universo narrativo è senza ombra di dubbio la parte migliore di questo anime, quindi un plauso va a CD Project per la sceneggiatura originale del videogioco: Night City è una distopia turbo-liberista comandata da mega-corporation in perenne lotta, è un posto dove puoi crescere molto a tuo rischio e pericolo, e anche di power-up ne puoi ottenere quanti ne vuoi a patto di pagare due costi: uno economico e uno di salute, ovvero un progressivo avvelenamento da cromo che ti rende prima dipendente da farmaci immunobloccanti e poi ti porta alla cyberpsicosi. Viene così tracciato un cammino che si riempie sempre più di sangue, eccesso e follia e finisce irrimediabilmente con un pallettone della MaxTac, le forze speciali di polizia, nella testa del cyberpsicopatico di turno.

Il buon apporto dello studio Trigger a quest'opera sta nelle animazioni: belle, fluide, particolarmente gore, ma abbastanza sobrie per questo studio, almeno fino a 2/3 dell'anime. Se fino a qui si rasenta la perfezione, purtroppo poi le animazioni scadono nel dover assecondare le solite esagerazioni fini a se stesse di Trigger, particolarmente brutte le animazioni dei numerosi veicoli che per una ventina di minuti vengono costantemente lanciati fuori strada trasformati in palline ribalzine di CG. Un pessimo risultato estetico, aggravato dal fatto di avvenire in una svolta che non aveva ragione di esistere, se non per il fatto di coinvolgere lo studio Trigger e quindi vedere inseriti a forza degli elementi da Mecha, anche se completamente estranei all'ambientazione.

Gli apporti peggiori all'opera dello studio Trigger oltre alle consuete esagerazioni, sono invece regia e sceneggiatura: la sceneggiatura è confusionaria, troppo veloce in alcuni frangenti, troppo lenta in altri, ci sono stacchi mal gestiti, cliché telefonati che sarebbero stati da evitare, specie per un pubblico che già conosce lo studio Trigger, si risolleva un po' all'ultimo episodio, trovando un finale giusto per l'ambientazione e per i personaggi della sua opera, e almeno qui il cliché è stato evitato.
La regia è invece abbastanza scialba, se la cava nei primissimi episodi e nelle parti action dei primi 2/3 di anime, ma poi risulta non pervenuta, si risveglia ogni tanto in qualche momento gore, ma perde il proprio treno ogni volta che un personaggio compie delle scelte fondamentali, e sono questi i momenti in cui il regista dovrebbe dare il suo tocco.

Spezzo una lancia infine a favore dei personaggi, quasi tutti buoni e bene inseriti nel proprio contesto, particolarmente pregevole è il personaggio di David Martinez, il migliore protagonista Trigger fin qui visto, David non è una trivella che sfonda tutto con la mera forza di volontà. Potremo seguire la sua partenza dalla povertà, le sue frustrazioni iniziali, il duro lavoro per emergere, la propria realizzazione e conseguente montatura di testa, per poi arrivare alla maturazione e a fare finalmente i patti con il mondo in cui vive, se questa maturazione sarà sufficiente per non buttare la propria vita come molti cyberpunk prima di lui, lo scoprirete guardando l'anime.

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Normalmente non guardo molte opere futuristiche... ma le poche che guardo sono davvero significative.

"Plastic Memories", opera del 2015, ha sede in un futuro non molto lontano dove gli androidi sono perfettamente inseriti all'interno della società, tanto da essere indistinguibili dagli esseri umani in tutto e per tutto, incluse le funzioni biologiche.
In questo futuro, tali androidi sono conosciuti con il nome di "Giftia", i quali vengono rilasciati in prestito agli umani, vivendo con loro e instaurando rapporti proprio come persone normali. Tuttavia, questi "Giftia" hanno una durata limitata che si aggira intorno agli otto anni e mezzo, allo scadere dei quali devono essere restituiti, altrimenti il loro codice va fuori controllo e si trasformano in pericolose bestie primitive.
L'organizzazione che gestisce questo settore di prestiti, chiamata "SA", è il teatro nel quale il nostro protagonista, il sempre solare e un po' imbranato Tsukasa, riesce a farsi assumere grazie all'aiuto del padre. Il reparto al quale Tsukasa è assegnato è il Servizio Ritiri, che si occupa proprio del recupero dei Giftia il cui tempo sta per scadere. Durante il suo primo giorno di lavoro egli incontra Isla, una silenziosa, schiva e solitaria Giftia, la quale diventerà la sua partner, in quanto umani e Giftia lavorano fianco a fianco durante le trattative con i rispettivi nomi in codice di "Spotter" e "Marksman".
Tsukasa, ben presto, si renderà conto che la procedura di recupero dei Giftia implica la completa e totale cancellazione della loro memoria, azione che li trasformerà in persone totalmente diverse una volta che saranno riattivati. Loro malgrado, Tsukasa e Isla si ritroveranno effettivamente a strappare per sempre delle persone dai cari che li hanno sempre amati, e perciò non tutti reagiscono positivamente a tale azione.

Ed è proprio da qui che voglio partire: dalla premessa della serie. Sebbene non sia nulla di nuovo, riesce a stupire e soprattutto a coinvolgere. I Giftia sono delle persone a tutti gli effetti e vengono trattati come tali in ogni ambito, a dispetto della loro aspettativa di vita molto bassa. I due protagonisti, Tsukasa e Isla, li ho adorati dall'inizio alla fine. Nel corso della serie vediamo Tsukasa disposto sempre a sorridere di fronte a qualunque avversità, non importa quanto dolorosa essa sia e quanto dolore egli provi, e soprattutto vediamo la maturazione di Isla, la quale passa da persona fredda, "meccanica" e schiva a una ragazza dolce e quasi espansiva.
Ottimi anche gli altri personaggi, fra i quali voglio citare Kazuki, manesca e impulsiva, la quale rappresenta la motivazione del perché lo Studio 1 della SA è conosciuto come quello che più fa attenzione al benessere psicologico dei clienti e dei Giftia, e Michiru, la "tsundere" che si rivela essere uno dei personaggi più tristi. Man mano che la serie va avanti, si finisce per affezionarsi a tutti i membri dello Studio 1, ed è stata questa una delle cose più belle.
La trama va avanti in maniera scorrevole, le evoluzioni dei personaggi sono graduali, per poi culminare nell'estremamente triste, seppur ben ovvia, conclusione. Guardando questo anime, sono passato da sorrisi ebeti, sorrisi imbarazzati, risatine genuine fino letteralmente a piangere come un bambino. Promuovo a pieni voti.

Il lato tecnico è anche buono: i disegni sono fluidi e gradevolissimi da guardare, le animazioni sono carine, le voci sono assolutamente superbe.
Dal lato sonoro invece abbiamo musiche azzeccatissime e soprattutto l'uso di complete assenze di suoni proprio per sottolineare la tensione. Opening ed ending non mi hanno detto nulla, sfortunatamente.

Mi sento davvero in crisi nel dover dare un esatto voto a questa serie, è praticamente una bufera di emozioni che ho amato dall'inizio alla fine. Posso capire chi ci ha visto un'opportunità sprecata nel trattare in modo complesso una società di umani e androidi, ma con tredici episodi non ti puoi permettere di snodare cose troppo complesse, quindi ritengo che la strada che hanno scelto sia stata perfetta, ovvero un'opera ottima, coinvolgente, agrodolce e tenerissima. La consiglio decisamente agli amanti del genere romantico.

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“Il mondo di oggi è un susseguirsi di attentati terroristici; di catene d’odio che si trasformano in grandi conflitti: ogni giorno siamo bombardati da notizie che ci inducono a pensare che forse, silenziosamente, sia già iniziata la terza guerra mondiale. La tecnologia militare ha sviluppato una forza tale da riuscire a sterminare più volte il genere umano. Sarebbe bello se adesso la musica di Marie avvolgesse tutto quanto il mondo”.
Così parlò Usamaru Furuya nel 2016 in merito a “La musica di Marie”, opera iniziata dal Mangaka nel 1999 e portata a termine nel 2001.
Data la situazione mondiale attuale, è piuttosto raggelante rileggere queste parole, profetiche e disilluse.

La carezzevole melodia di Marie cela malinconiche note di disarmonia, come metafora perfetta di un sottotesto dolceamaro scandito da un carillon.
Furuya alla sua prima “storia lunga” (l’autore prima si era cimentato soltanto in storie autoconclusive e yonkoma) estrae dal suo cilindro creativo un’opera anacronistica e visionaria, sospesa sotto un tetto d’acqua, fluttuante sopra una foresta meccanica.

Pryte è un mondo pacifico, che si erge sui resti di una civiltà sepolta dal progresso tecnologico e dalle guerre.
A regolare la pace è Marie, divinità-androide che vola nei cieli di Pryte intonando una soave melodia che acquieta l’animo delle persone.
Questa dimensione utopistica che vede l’armonia regnante, è resa possibile grazie ad un compromesso: l’uomo non può spingersi oltre una certa soglia di avanzamento tecnologico, e per mantenere la pace deve sottostare agli argini evolutivi imposti dalla superiorità divina.
Sotto il suono stride di giganteschi ingranaggi, ai piedi della foresta meccanica,
sopra asettici laboratori di ferraglie ammassate in claustrofobici labirinti, che ricordano le oscure costruzioni del Nihei di “Blame!”, sboccia la tenera storia di Kai e Pipi.

Il ritmo narrativo è lento e mite, ben irrigato da un racconto placido ma coinvolgente, che sembra la classica quiete prima della tempesta, con il dramma pronto ad esplodere da un momento all’altro, generando un’atmosfera di calma inquieta molto simile a “Dogville” di Lars von Trier.
Furuya dona una cura minuziosa al background dell’opera, strutturando con zelo un worldbuilding dalla cosmogonia complessa e articolata, fatto di usanze, costumi, credenze, culti, e terribili segreti.
Nell’ambientazione post-apocalittica dalle connotazioni steampunk, abbiamo forti richiami miyazakiani, (“Nausicaä, della valle del vento”, “Laputa, il castello nel cielo”) specie nelle sue ricostruzioni fondate sul “progresso involutivo”. Troviamo altre fonti d’ispirazione in “Proteggi la mia terra”, fantascientifico shōjo di Saki Hiwatari, e nel capolavoro di Hiroki Endo “Eden”, che esordiva su rivista soltanto un anno prima rispetto a “La musica di Marie”.
Erano gli anni post “Ghost in the shell” e “Matrix”, e gli sfondi a tema fantascienza distopica proliferavano a dismisura.

Dio ha creato l’uomo?
O è stato l’uomo a creare Dio?
Più che rispondere, Furuya domanda.
L’autore non vuole fugarci i dubbi, anela piuttosto a porci quesiti atti a stimolare profonde riflessioni esistenziali, senza darci punti fermi, rimettendo in discussione tutto quanto.
La costante critica alla religione dottrinale ed ecclesiastica, dipinta come una buia prigione mentale, è bilanciata dall’esaltazione della spiritualità personale, intesa come “illuminazione”, raggiungimento dell’”io”, e riesce a scindere la forza della fede dalla speculazione clericale.

“Cosi come il sole benedice la terra con i suoi raggi…
Anche la luna libera silenziosamente la notte dalle tenebre…
Cosi anche Marie veglia su di noi…mentre orbita lentamente intorno al nostro mondo”

Il medioevo è il periodo più buio dell’umanità, culmine di un progresso decisamente involutivo rispetto alle civiltà antiche.
Dopo l’imperante gloria romana ebbe inizio un lento regresso, sfociò in un preoccupante decadimento socio-culturale che sprofondò inesorabilmente verso l’età di mezzo.
Molte pagine di storia erano state bruciate dalle guerre passate, e l’uomo era più incline alla lettura dei testi sacri che non a documentarsi storicamente, questo rendeva la gente ignorante e suscettibile all’occulto, donando alla chiesa totale potere di controllo. Capiamo quindi l’importanza che ha oggi un database come internet, che con i suoi “infiniti” dati registrati, funge da vera e propria salvaguardia culturale.
L’incontrollata evoluzione tecnologica però, finirebbe con l’allontanarci dalla nostra natura, facendoci dimenticare la nostra essenza.
Quando l’interazione virtuale sostituirà il contatto fisico, chi sfamerà quel primordiale desiderio di carne?
Cosa accadrebbe se le intelligenze artificiali superassero i loro creatori ribellandosi e reclamandone il controllo?
Marie, dea benevola e indispensabile, ma anche spietata, supponente, “superiore”, tanto da non permettere all’uomo di volare nei suoi cieli, la cui dolce sinfonia sa essere anche cacofonia disturbante, è, in questa sua polarità, perfetta metafora del progresso tecnologico.

I personaggi, sobri e mai sopra le righe, sono densi di simbolismo, specialmente i due protagonisti.
Se da un lato Kai ha letteralmente le stigmate del prescelto, incarnando la spiritualità e l’ultraterrereno, “una mano per aprire la porta, l’altra per controllare il tempo”, dall’altro Pipi, nelle sue vesti di ragazza semplice e genuina, rappresenta l’umanità in tutti i suoi aspetti più primordiali e terreni: l’impulsività, la testardaggine, sopratutto la purezza dei sentimenti, quelli che nutre per Kai, il quale, nonostante le voglia un gran bene, è intensamente innamorato di Marie.
Le pulsioni sessuali che il ragazzo nutre verso la divinità, trovano il culmine in una vignetta che lo ritrae masturbarsi (l’autore non è nuovo a queste scene) in estasi, mentre osserva la dea volante dalla finestra.
Emblema del divino che regredisce all’istinto, ibridandosi al terreno, il sacro che diventa profano, il tempo che si capovolge riportandoci all’origine, alla creazione.
L’uomo ha creato Dio?
O è stato Dio a creare l’uomo?
Personaggio chiave degno di menzione é Il sacerdote Guul, costantemente in bilico tra fede e scienza, tra religione e progresso, incarnante molti dei dilemmi amletici dello stesso autore.

Il disegno del Mangaka seppur non ancora al suo apice espressivo, è davvero notevole. Dettagliato ed esplosivo nella realizzazione delle macchine, quanto dolce ed aggraziato nei volti dei personaggi, puliti e tondeggianti nella loro semplicità. Le splash page raffiguranti la dea sono una gioia per gli occhi, lo zenit di un grande comparto tecnico, composto dalla commistione di più stili, anche se da questo punto di vista l’autore sperimenta meno che in altre sue opere.

L’edizione italiana a cura di Coconino Press, accorpa in un bel volume di oltre 500 pagine i 2 Tankōbon originali, confezionandolo nella raffinata veste grafica della collana Doku, uno degli esperimenti editoriali più originali visti in Italia, e per realizzazione, e per titoli scelti.
A onor del vero va sottolineata una certa fragilità dell’albo, sia negli spigoli, che tendono a rovinarsi, che nella sovraccopertina di cartoncino, tutt’altro che resistente.

Uno degli autori più interessanti del panorama fumettistico attuale ci regala un gioiello dello slice of life fantascientifico, che sprizza fervida fantasia da tutti i suoi pori, consacrandolo come genio visionario del manga.
I fan dell’azione e dei ritmi convulsi non troveranno pane per i loro denti, “La musica di Marie” è una via crucis verso l’ascensione, la pace di un eterno amore oltre la morte.
Chi cerca risposte sbaglia in partenza, Furuya non fa che aggiungere strade ad un labirinto senza uscita, rendendoci abbaglianti semplici chiazze di buio.
Un’opera fuori dal costrutto di Dio e dentro le pieghe dello spirito, cantata da una voce triste e graffiata, che risuonerà a lungo nelle memorie, come eco lontana di un irraggiungibile miraggio.