Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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In questi ultimi giorni di agosto, che ci accompagnano tristemente verso la fine delle vacanze estive e il ritorno alla vita di sempre, è sulla bocca del mondo dell’animazione giapponese tutto un unico argomento: l’ultimo, e veramente ultimo, film del sensei Hayao Miyazaki. Grande curiosità ha destato la totale mancanza di una campagna pubblicitaria, e adesso che sono state divulgate le prime immagini tratte dal film, uscito da qualche settimana nelle sale giapponesi, Lucky Red ne ha annunciato l’acquisizione e l’arrivo anche in terra nostrana. Con il già tanto acclamato “The Boy and the Heron”, giunge al termine la carriera di uno dei più grandi e longevi registi dell’animazione giapponese di tutti i tempi, l’unico in grado di vincere un premio Oscar. La carriera di Miyazaki inizia nei lontani anni ‘70, in compagnia dell’amico di una vita Isao Takahata ed è, come molti sanno, legata allo studio d’animazione da loro fondato, il celebre Studio Ghibli. È risaputo che il primo film dello studio sia “Laputa - Il Castello nel Cielo”, pubblicato nel 1986 e diretto da Miyazaki stesso. In realtà, però, lo Studio Ghibli e la sua poetica devono tutto ad un altro lungometraggio, in cui sono presenti quasi tutti i temi trattati nei lavori successivi e che faranno, in un certo qual senso, da leitmotiv dell’intera produzione dello studio, “Nausicaä della Valle del Vento”. Nato come manga e poi trasposto su pellicola, il film viene pubblicato nelle sale giapponesi l’11 marzo 1984 e, ancora oggi, rappresenta una visione obbligatoria per chiunque voglia comprendere appieno la poetica di un artista immortale come Hayao Miyazaki.

In seguito a un cataclisma che ha sconvolto l’intero pianeta, una foresta tossica ha ricoperto la maggior parte della superficie terrestre. In questo scenario apocalittico, dove una nuova guerra è sul principio di esplodere, il regno della Valle del Vento - governato da Jihl, padre della coraggiosa Principessa Nausicaä - è una delle poche zone ancora popolate. Nausicaä ha due doni: saper cavalcare il vento volando come gli uccelli e riuscire a comunicare con gli Ohm, i giganteschi insetti guardiani della foresta. Grazie alle sue abilità, nonché all’amore e alla stima del suo popolo, la Principessa Nausicaä intraprenderà una coraggiosa sfida volta a ristabilire la pace e a riconciliare l’umanità con la Terra.

“Nausicaä della Valle del Vento” si presenta come il film manifesto del pensiero di Miyazaki, in cui sono presenti molti dei temi e delle ambientazioni a lui cari.

Ecologismo e paura del diverso. Dopo l’olocausto nucleare provocato dai Soldati Titani, queste creature dal potere immenso, la cui natura viene completamente taciuta, la specie umana ha impiegato circa un millennio per rimettersi in piedi. Nonostante ciò, soltanto una zona della terra è abitabile, perché l’altra è ricoperta dalla Grande Foresta, o Mar Marcio, come viene chiamato nel doppiaggio italiano. Il Mar Marcio è in costante espansione ed esala continuamente venefici miasmi. Come viene mostrato più volte nel corso del film, gli abitanti della Valle del Vento devono quotidianamente fare i conti con le spore che minacciano il loro bosco e a cui possono far fronte con il solo utilizzo del fuoco. La minaccia sembrerebbe essere incombente e, per questo, il vicino regno di Tolmechia progetta di utilizzare il fuoco per distruggere il Mar Marcio, in un ennesimo tentativo di vincere la natura, che si prospetta sin da subito fallimentare. In realtà, come scoprirà poi l’astuta Nausicaä, la Giungla Tossica non è malvagia, ma è la reazione della natura alla devastazione prodotta dall’uomo. I suoi alberi purificano l’acqua e la terra, avvelenate dall’uomo, e come effetto secondario rilasciano spore nocive nell’atmosfera. Nausicaä intende preservare la foresta tanto odiata, ma dovrà combattere contro la stupidità degli uomini e la loro paura per ciò che non comprendono. Miyazaki lancia un messaggio e una critica forti; chiede all’uomo di non paventare la natura, ma di comprenderla, inaugurando una pacifica convivenza. In questi tempi di crisi, il messaggio di Miyazaki appare più attuale che mai, ma, sebbene venga ribadito in altri film successivi, come “La Principessa Mononoke”, sembra non essere ancora stato recepito appieno.

Pacifismo. Le truppe di Tolmechia, oltre a voler incenerire il Mar Marcio, combattono una guerra insensata contro Pejite, l’altro regno vicino della Valle del Vento. Nonostante tutti i problemi che affliggono il mondo, l’uomo trova sempre il tempo e il pretesto per farsi la guerra da solo. Era così quarant’anni fa e lo è ancora oggi, a riprova del fatto che la storia non ci ha insegnato proprio nulla. L’accusa contro la volontà dell’uomo di autodistruggersi è presente in parecchie altre opere, come “Il castello errante di Howl” e “Laputa - Il Castello nel cielo”.

Ambientazione steampunk e volo. Nell’opera si ritrovano le stesse strane macchine volanti presenti anche nei film successivi, e queste ci raccontano dell’ormai risaputa passione di Miyazaki per il volo. Uno dei doni di Nausicaä è, infatti, quello di saper volare, grazie all’utilizzo di un apposito marchingegno, di cui ci è completamente sconosciuto il funzionamento. La giovane principessa, però, non è l’unica a possedere questo dono. Le truppe di Pejite si spostano nel cielo con le loro cannoniere volanti munite di mitragliatrici, mentre i soldati di Tolmechia si muovono su delle vere e proprie navi volanti da guerra. Più che sulla terraferma, i due regni si danno battaglia nel cielo, disturbandone la quiete. Tra i film successivi che riprendono queste tematiche di chiaro stampo autobiografico, si ricordano “Porco Rosso” e “Si alza il vento”, giusto per citarne un paio.

Questi temi, così amalgamati, danno vita a una storia dal grande impatto emotivo, visivo e uditivo. Come sempre, i film di Miyazaki non sono solo trama, ma esperienza totalizzante. Da sola, l’ambientazione steampunk-distopica basterebbe a far strabuzzare gli occhi, ma sono la cura maniacale nei disegni, tutti rigorosamente fatti a mano, e l’accurata scelta dei colori per i fondali a fare realmente la differenza. Anche “Nausicaä della Valle del Vento”, come tutti i successivi lavori del maestro, si distingue per un comparto tecnico di prim’ordine e un comparto musicale che riesce a tenergli il passo. L’intramontabile Joe Hisaishi lascia ancora una volta il segno, regalando allo spettatore una colonna sonora emozionante e immersiva.

"Nausicaä della Valle del Vento" è una visione impegnativa, un film che non può essere visto alla leggera, apprezzabile solo da chi è disposto ad aprire la propria mente, per lasciarsi pervadere dalla più pura e autentica poetica miyazakiana.

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L'influencer dice: «Immagina dare 7 a "Nadia - il mistero della pietra azzurra"», ma il saggio dice: «Immagina dare più di 7 a Nadia - il mistero della pietra azzurra"».

Trasmessa in Giappone tra il 1990 e il 1991, produzione Gainax e avente alla regia di quasi tutta la serie Hideaki Anno, figura che i più conoscono soprattutto per quell'anime giusto un tantino famoso chiamato "Neon Genesis Evangelion", "Nadia" è una serie di trentanove episodi che prende ispirazione dalle opere di Jules Verne, in particolare "Ventimila leghe sotto i mari", e dal mito di Atlantide, per creare una serie d'avventura con una forte componente steampunk che, verso la fine, vira sempre più verso un immaginario vicino alla fantascienza classica (anche se, per forza di cose, a uno sguardo moderno appare retro-futuristico).
C'è quindi molto del romanzo scientifico, c'è molto delle opere giapponesi ad esso ispirato, ci sono varie citazioni ad altre opere giapponesi non direttamente collegate, a dire la verità c'è anche un po' di Zecharia Sitchin, ma, soprattutto, c'è una forte identità personale che rende la serie riconoscibile e memorabile.

Però i difetti non mancano.

La prima cosa che mi lascia perplesso di "Nadia - il mistero della pietra azzurra" è che la protagonista, Nadia appunto, sia il personaggio gestito peggio dell'opera, e questo anche prima dell'abisso tecnico noto come "Arco delle isole".
La caratterizzazione di base sarebbe che lei sia questa ragazzina un po' capricciosa e testarda, vegetariana e che ha una visione idealistica di come dovrebbe essere il mondo, oltre a provare una certa ostilità verso la tecnologia (contrapponendosi all'altro protagonista, Jean). Tutto questo anche giustificato dal fatto che, di base, lei ha quattordici anni.
Il problema è che Nadia non evolve mai.

Davvero, da scrittore sono rimasto interdetto nel constatare che, dopo momenti in cui ci si aspetterebbe la maturazione e l'evoluzione del personaggio, qualche episodio dopo (a volte addirittura l'episodio dopo), Nadia si dimostri la stessa rompiscatole che era in partenza. Questa ragazzina ogni due per tre deve mettersi a frignare e sparare frasi del tipo: "Eeeeeh! Ma mangiate gli animali, che cosa brutta!" o "Eeeeeh! Uccidete le persone (che volevano ucciderci sino a qualche secondo fa, nda), siete dei rozzi villani violenti".
La cosa è talmente evidente che, all'inizio dell'arco narrativo finale, tutta l'evoluzione psicologica di Nadia si regge su un'unica frase che dice in quel momento, quasi Hideaki Anno, dopo aver lavorato venticinque ore su ventiquattro iniettandosi ramen per via endovenosa (questo è quello che ho capito informandomi sulla produzione), si sia detto: "Poffarbacco! Me l'ero dimenticato", e abbia digitato sulla sceneggiatura la prima cosa che gli è venuta in mente, tutto attaccato, senza mettere spazi.
Nulla potrà togliermi questa immagine pittoresca dalla mente.

Non mi è mai capitata un'opera dove è così evidente che il personaggio scritto peggio sia il protagonista.
E, come ho detto, tutto questo senza prendere in considerazione l'arco narrativo delle isole.

Questi episodi che vanno dal 24 al 34 sono "infamosi", perché ritenuti all'unanimità la parte peggiore della serie, e sono d'accordo.
La colpa, se la dobbiamo dare a qualcosa, è dei mille casini produttivi che ci sono stati dietro la serie (cosa che accade a tutte le opere di Anno, fossi in lui mi farei delle domande) e sono semplicemente un abisso tecnico. Dai disegni e dalle animazioni che vanno dal brutto al bruttissimo, la scrittura che in alcuni casi quasi non è pervenuta, e alcuni dei modi più onestamente imbarazzanti per riempire spazio nelle puntate.
Dico davvero, c'è un intero episodio di viaggi mentali di Jean con la stessa animazione di Nadia riciclata, e un episodio con montaggi musicali. Mi ha riportato alla mente i tempi bui della mia infanzia, quando guardavo NekoTV che trasmetteva a ripetizione trailer e video musicali di artisti giapponesi a caso, per nascondere che il canale stesse morendo.

Per fortuna, con l'inizio dell'arco narrativo finale e il ritorno di Anno alla regia (non c'era lui dietro questi episodi), la serie si riprende e ritorna più o meno quella che era sin dall'inizio.
Con il finale vero e proprio che sa essere abbastanza d'impatto e anche un po' inquietante per alcuni risvolti narrativi.

Quindi, sì.
"Nadia - il mistero della pietra azzurra" è sicuramente un'opera importante, piena di pregi e dall'identità ben riconoscibile, capace di far sognare e di far provare forti emozioni grazie alla maestria con cui sono gestiti i suoi viaggi e le sue scene di azione, e offre anche spunti su dei temi interessanti. Però, per più motivi, ci sono dei difetti così evidenti che, dovendo guardare all'opera nel suo insieme, vanno considerati.
Possiamo comprenderli, forse anche giustificarli, ma l'onestà intellettuale di un esame critico, quale è la recensione, non permette di dimenticarli.

Auf wiedersehen!

P.S. Immaginatevi se Neo inciampava nel cavo della corrente...

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Karma, destino, fatalismo.
Forze invisibili che l’essere umano ha tentato di comprendere, nel corso dei secoli, in un modo o nell’altro, assegnando spiegazioni faticosamente logiche, spesso mistiche, talvolta divine. O semplicemente, negandone l’esistenza.
Possiamo partire da questo concetto per introdurre “Re:Zero - Starting Life in Another World”: un quasi isekai, una quasi avventura, sicuramente un fantasy, ma soprattutto un viaggio all’interno delle debolezze adolescenziali costrette ad affrontare un destino amaro e infausto, così come gli esseri umani stessi hanno sempre tentato di fare: arrendersi agli eventi o effettuare uno sforzo di volontà così potente da piegare il cosiddetto “fato”?
Il supposto fatalismo che fa da cornice al concetto che “ogni cosa accade per un motivo, anche e soprattutto ciò che non sappiamo spiegarci” trova un’appagante sublimazione in questa genesi ed esecuzione del causa/effetto in tutte le sue molteplici “sliding doors”: un connubio d’avventura, romanticismo e psicologia davvero apprezzabili, dettate con un ritmo inaspettato, saturo di colpi di scena e ribaltamenti di fronte.

Sebbene sulle prime battute appaia tutto fin troppo semplice e per nulla verosimile, ci si accorge ben presto che “Re:Zero” sia un prodotto colmo di citazioni trasversali, ricco di provocazioni volute, sollecitazioni e attimi di difficile interpretazione che in qualche spettatore potrebbero generare una qualsivoglia frustrazione, soprattutto se ci si aspetta che tutti i misteri vengano lesto risolti. È quel tipo di storia in cui si deve avere pazienza, collezionare indizi uno alla volta, e ricostruire il quadro d’insieme pezzo per pezzo.

È questa la storia di Subaru, protagonista di un isekai che potrebbe sembrare senza capo né coda. Adolescente svogliato, perennemente chiuso in casa con la testa su videogiochi, PC e fumetti, insicuro, fragile sia fisicamente che psicologicamente come tanti altri della sua età, passa le sue giornate a fantasticare e procrastinare. Di ritorno da un supermercato, dopo aver acquistato qualche snack per la serata, si ritrova improvvisamente catapultato in una strada che non conosce, all’interno di una città che non conosce, in un mondo bizzarro e sconosciuto, abitato non solo da esseri umani ma anche da creature assurde e mostruose, che tanto ricordano i videogiochi a cui è affezionato. Come se non bastasse, il pericolo è dietro l’angolo: una banda di delinquenti lo prende di mira, e sarà una misteriosa e bellissima ragazza a salvargli la vita, una giovane dall’aspetto quasi fatato, dai capelli d’argento e dallo sguardo gentile ma deciso, ma dal nome misterioso...
È un avvio troppo semplicistico, banale, dozzinale. Ed invece è tutto calcolato al millimetro, supportato da un comparto tecnico audiovisivo davvero eccellente.
Il design dei protagonisti è curato, uno stile classico che non eccede né delude; le espressioni, le posture e gli atteggiamenti dei personaggi risultano minuziosi, un incentivo nella comunicazione delle loro emozioni, attitudini e sentimenti. Altresì, i fondali e gli ambienti che circondano i nostri eroi si rivelano uno dopo l’altro delle piccole perle, magari non così originali - non tutti, ma alcuni senza dubbio -, figli di uno stile classico, forse banale per questo genere di prodotto, ma azzeccatissimo. Le animazioni risultano spesso eccellenti, fluidissime, ma non mancano cali di qualità che in una serie di venticinque episodi possono benissimo presentarsi. Degne di nota alcune scene d’azione, estremizzate ricalcando i canoni degli shonen più famosi, ove la fisica accetta una deformazione irreale in favore dei poteri magici e sovrumani di certi personaggi, e il pathos e la dinamicità raggiungono vette inimmaginabili.
Il primo “doppio episodio pilota” lancia quindi Subaru all’interno del regno di Lugunica senza nessun preavviso, scoraggiato, disorientato e smarrito. I primi minuti sono blandi, d’ambientazione sia per lui che per noi, ma ben presto la storia decolla, ricorrendo presto allo stratagemma narrativo che sarà il perno cardine di tutta la trama, ovvero un cerchio ricorsivo che rese immenso “Steins;Gate”, e che qui viene sfruttato in altro modo, seppur altrettanto ingegnosamente. Il colpo di scena che chiude la fine di questo primo, lungo episodio iniziale mette le prime carte in tavola per quella che sarà una lunga partita contro non solo le avversità visibili ma soprattutto quelle invisibili, come un destino ineluttabile e forze oscure al di là di ogni immaginazione.
L’amo è gettato, la colonna sonora incalza e lo spettatore non può che abboccare. Lo shock prima dei titoli di coda non è da poco, e quando sopraggiungono le note della sigla di chiusura si ha da subito l’impressione di esser di fronte a qualcosa che potrebbe regalarci numerose sorprese. L’intero comparto sonoro è veramente eccezionale, forse superiore a quello visivo, ricco di pezzi che valorizzano i differenti momenti della storia, variando da quelli d’azione a quelli romantici e psicologici. Nei momenti drammatici vien fuori l’orchestra in un vero e proprio orgasmo acustico, per non parlare della prima sigla di chiusura dinanzi accennata, “Styx Helix” (letteralmente “Spirale Stigea”, memorabile rimando allo Stige “dantesco” - fiume degli Inferi che trascinava le anime dei morti) del duo Myth & Roid, una melodia e un titolo quanto mai azzeccati, visto ciò che accadrà da qui in poi.

“Re:Zero” possiede un taglio decisamente adolescenziale, ma è capace di coinvolgere a qualsiasi età. I dialoghi si rivelano spesso brillanti, nonostante in qualche frangente scricchiolino un poco a causa di un adattamento dall’omonima light novel non proprio perfetto, destando qualche perplessità sia per logica che per ridondanza.
È un intreccio surreale, imprevedibile e piacevolissimo: sin dai primi episodi si creano nodi interrogativi che non potranno essere sciolti in modo semplice o immediato, ma necessiteranno di scoperte inattese e colpi di scena impensabili, il tutto legato all’incomprensibile dilemma temporale che affligge il nostro coraggioso, insicuro e mai domo Subaru. Sebbene alcuni scenari e situazioni possano invece essere prevedibili, i numerosi cliffhanger di fine episodio e i colpi di scena a ripetizione rendono la serie più che piacevole, e invogliano a seguirla con crescente interesse.
Spiccano volentieri anche i momenti ilari, dove impera una comicità eterogenea fra freddure di bassa lega, battute quasi-british, gag da cabaret di serie C e altre uscite comiche davvero divertenti, atte a controbilanciare la potente, soverchiante dose di drammaticità che nei momenti cruciali lascia addirittura spazio a una brutalità insospettata e ad una violenza macabra, quasi splatter, proprio a voler modellare un tuttotondo di emozioni e sensazioni che spazia in ogni direzione: un prodotto veramente sfaccettato e più profondo di quel che si possa inizialmente immaginare.
Ci si impersona facilmente nello sfortunato protagonista: probabilmente uno dei personaggi maschili adolescenziali e “destinato ad essere” più riusciti mai visti.
La bellezza di “Re:Zero” sta soprattutto qui, in questi delicati dettagli di vivido e incerto realismo. Subaru è uno di quei ragazzi che dentro si sente un fallito perché non ha ancora realizzato nulla di significativo nella sua vita, passando i giorni della propria esistenza nell’anonimato e nell’ombra, vittima delle sue stesse insicurezze e paure. E proprio questa figura di adolescente ordinario e per nulla appariscente lo rende ben più reale degli stereotipi di plastica da locandina o fanart; un nerd dalla battuta pronta, ma che non tutti afferrano, spesso imbranato, capace di strappare più di un sorriso coi suoi comportamenti sconclusionati e al tempo stesso di far infuriare a causa di sciocchezze avventate, figlie del ragazzino immaturo che è, desideroso di migliorarsi più per sé stesso che per gli altri, caratteristica aspramente classica delle persone insicure. Ma nonostante la sua inspiegabile comparsa in un universo distante anni luce dalla nostra realtà, prettamente fantasy – dove, non si sa come, a parole riescono a capirsi senza alcun bisogno di tradurre o interpretare -, e nonostante la mancanza di logica per tanti altri elementi che potrebbero facilmente far storcere il naso, il prodotto risulta comunque eccellente.

“Re:Zero” è un videogioco in tutto e per tutto: il vezzo ludico degli autori si vede reincarnato in un anime che possiede le inequivocabili fattezze di un GDR in chiave squisitamente nipponica, con tanto di “punti di salvataggio” cruciali da dove il tanto bistrattato Subaru potrà “ripartire” in caso di fallimento e conseguente dipartita. Pare assurdo? Esatto! Perché la morte è un altro elemento molto presente, quasi indissolubile, diremmo, capace di perseguitare e avvinghiarsi al protagonista come una sorta di maledizione ultima e finale. La trama muta quindi - come ovvio che sia - in base alle azioni che influenzano il mondo circostante, ma è nel contempo un astuto stratagemma per permettere l’esplorazione di eventuali linee temporali che si interrompono a causa di eventi determinanti e irrimediabili.
Entra nel bosco. Attacca i nemici. Affronta il boss. Muori per mano del boss. Ritorna in vita. Entra nel bosco. Cerca un alleato. Attacca i nemici. Attacca il boss, ma questa volta in modo differente, e con l’aiuto di un alleato.
L’esito sarà diverso? O il boss ucciderà di nuovo il nostro eroe? E dopo?
Quante volte abbiamo giocato a videogiochi simili.
Ma cosa accadrebbe se tutto questo fosse reale? La mente umana sopporterebbe lo stress di vedersi annientare per poi tornare fra i vivi, avendo fatto tesoro delle esperienze precedenti e nel contempo aver subito traumi terribili a causa di esse? Quanto potrebbe durare?
Surreale, a metà fra incubo e sogno, questa chiave di lettura è una costante determinante, ed è anche l’estrema bellezza intrinseca del prodotto in questione.
Dramma, pathos, ogni elemento d’apprensione cresce in modo uniforme, e verso metà serie si assiste a picchi di qualità davvero memorabili; la storia è un continuo di colpi di scena intriganti e inaspettati.

Altro elemento fondamentale è l’approfondimento dedicato alle due gemelle, Rem e Ram. Nonostante l’estetica di entrambe (e di tanti altri personaggi della saga) appaia noiosamente stereotipato (la solita lolita colorata e tsundere, le ragazzine cameriere, il padrone di casa bizzarro, la bella protagonista pura ed evanescente, il solito eroe incapace ma adorato dalle donne), questo non inficia in alcun modo l’esito delle vicende, anzi, sono elementi che si incastrano in modo ottimale. Entrambe sono parte cardine della vicenda, capaci di arricchire sia il versante sovrannaturale sia quello romantico in una maniera davvero intensa, e, man mano che si procede con gli episodi, si prende atto che ogni comprimario ha un ruolo più o meno determinante nel puzzle che va a lentamente a consolidarsi.

Nonostante tutto ciò, il punto forte, anzi, eccezionale di “Re:Zero” sono, come accennato poc’anzi, l’introspezione e l’evoluzione del protagonista.
Il dialogo è l’arma più potente utilizzata dai creatori. L’approfondimento meticoloso dei protagonisti passa dalle parole, talvolta profonde, sofferte, intense, ricercate, talvolta superficiali, infantili e quasi grottesche, fuori luogo e irritanti, per non dire frustranti. Confronti, litigate, scherzi, ogni tessera del mosaico lessicale è posata nel posto giusto, almeno apparentemente. Si sfrutta la diversità razziale propria dei fantasy in quanto universi ricchi di creature eterogenee, per puntare il dito contro la discriminazione e i pregiudizi che spesso appannano la vista e la ragione della gente, tanto più se si tratta di semplici popolani costretti a ubbidire e a credere semplicemente a ciò che sentono senza informarsi, senza conoscere, senza accertarsi della realtà dei fatti (scenario quanto mai attuale, nevvero?)
Ed è proprio perché nelle azioni risulta spesso incosciente, esagerato ed incerto, pronto a ricordarci che stiamo assistendo a uno show prettamente fantasy d’azione pieno di magia, creature mitologiche e attributi sovrumani che superano ogni comprensione di logica terrestre, che Subaru ai nostri occhi apparirà ancora più umano, più vicino a noi, spaventato non solo da questi allucinanti dimostrazioni di astratta magnificenza, ma terrorizzato dall’ignoto, dalla vita stessa, dal domani e dalle sfide che non è sicuro di poter affrontare (oltre che da un destino straziante che metterebbe a dura prova la psiche di chiunque); ecco quindi che emerge lentamente la paura di ciò che può esservi là fuori, paura dell’incertezza del futuro. Nel travaglio interiore v’è l’inizio di un viaggio dove la meta è puramente esistenziale e ciò che ci viene insegnato è proprio durante il viaggio stesso, costellato di momenti difficili, imbarazzanti, frustranti, dolorosi, e anche vergognosi. Ci vuole una giusta dose di empatia e riflessività per apprezzarli e accettarli, figuriamoci per comprenderli appieno.
A dispetto del suo target e a prescindere da qualsiasi recalcitranza, “Re:Zero” si può apprezzare nel pieno dei suoi valori soltanto se si viene a patti con la propria fragilità e umanità, accettando le parti integranti della propria esistenza. Che sia un eroe inventato da una matita, o che sia lo specchio che abbiamo di fronte al nostro viso, la questione non cambia: quanto ci fa paura gettare lo sguardo nell’angolo di coscienza più buio e vigliacco che abbiamo? Cosa faremmo pur di essere apprezzati? Mentiremmo se dicessimo che, nella vita, non ci siamo mai fatti questa domanda almeno una volta, e sono proprio queste debolezze che rendono Subaru reale, intimo, teneramente e dolcemente vivo, miserabile eroe in costante evoluzione, all’interno di una storia fantastica che in realtà non esiste, ma di cui siamo inconsapevoli protagonisti nella vita di tutti i giorni.
Per controparte, è giusto sottolineare che anche fra i “villain”, seppur in minoranza, ci sono elementi che spiccano: è obbligatorio menzionare il demenziale Betelgeuse, un’inquietante macchietta, indiscutibilmente malato di mente, un disperato che sembra uscito da qualche racconto lovecraftiano dotato di abilità che rievocano la dolcissima e controversa Lucy di “Elfen Lied”, ma dall’aspetto di un chierichetto disagiato sotto una pesante dose di LSD andata a male. Eccezionale, un personaggio biunivoco, capace di far morire dal ridere e nel contempo far venire i brividi.

In definitiva, “Re:Zero” è fantasy allo stato puro, e nel contempo ci mostra ben altro.
La magia in ogni sua forma riempie la storia; visti nel quadro d’insieme, personaggi e ambientazioni ricalcano un tardo Medioevo colorato e fantastico degno del miglior JRPG, dove scenari, quartieri e concezioni fra il primo Rinascimento e un iperbolico Barocco-gotico si intersecano con usanze e cibi mondani della nostra quotidianità. Creature fantastiche, mostri mitologici, castelli antichi e streghe misteriose sono l’appetitoso contorno a ciò che però si rivela, infine, essere solo una prima parte di quel che sarà probabilmente una grande epopea.
Con un finale dolceamaro che non conclude realmente nulla e lascia tutto in sospeso, viene ancora più voglia di questa tanto attesa seconda stagione, anche, e non solo, per conoscere gli sviluppi delle conseguenti questioni amorose che coinvolgono determinati personaggi.

“O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”, disse il Joker di Nolan, anni fa.
“Oppure vivi di nuovo, imparando dalla tua morte”, potremmo dire ora.
Catartico.