Tex 1A volte non hai anche tu la sensazione di essere solo un attore, di essere partecipe di un fiume senza significato, di un «teatro della crudeltà» dove niente può essere diverso da come è, da come sarà, dal modo in cui è stato?
A volte capita, a volte ci si ferma in determinati istanti in cui è come se si aprissero gli occhi per la prima volta su ciò che ci sta attorno, per la prima volta svegli. A volte ci si risveglia da un incubo, altre volte ci si sveglia nella realtà, in una verità che non è un incubo, ma semplicemente quello che ci circonda, dato così com’è. In certi frangenti si percepisce l’inevitabilità, e si vede l’inevitabile di ciò che esiste.

Tra le altre cose, chi ha creato Texhnolyze credo sia partito da ciò, o quanto meno a questo è approdato come colonna vertebrale per tutti gli elementi aggregati nella serie.
Appunto, chi ha creato Texhnolize. Persone che fanno ciò che vogliono, non ciò che vuole il mercato. L’ha diretto Hirotsugu Amazaki, il quale poi con lo stesso stile alienante dirigerà Shigurui, serie incompleta ma morbosa come Texhnolize. L’ha sceneggiato tra gli altri Chiaki J. Konaka, che aveva dato prova della sua singolarità scrittoria con Lain e ne darà altre alla stessa altezza con Ghost Hound e Mononoke. Ne ha disegnato i personaggi Shigeo Akahori, partendo però dal conceptual design di quel Yoshitoshi Abe creatore originale del già citato Lain e del particolarissimo Haibane Renmei. Per chiudere, ne hanno curato le musiche Hajime Mizoguchi e Keishi Urata: compositore delle OST di Jin-Roh e di Escaflowne- the movie, il primo; responsabile del sinth sempre in Jin-Roh, e in Akira, Arjuna, Cowboy Bebop e Wolf’s Rain, il secondo.
Vanno citati, non è per fare il figo che ne parlo, ma per dare un retroscena e contestualizzare la natura di Texhnolyze, e perché sono stati in gamba e meritano un tributo, per quanto conta, per la loro creazione.

L’opera è sperimentale, ma non la più sperimentale mai uscita. È estrema, ma non in misura superiore ad altre che lo sono di più. In parte ciò si deve alla sua durata, poiché ventidue episodi richiedono una costruzione diversa rispetto a dieci o giù di lì. In parte, e soprattutto, ciò deriva dalla storia, dal respiro, da quello che vuole esprimere la serie, da cosa vogliono dire gli autori e da quanto complesso è il soggetto. Il quale in ultima analisi è sfuggente, anzi fino alla fine non si riesce a comprendere del tutto dove voglia andare a parare. S’intuisce però, il che è diverso, è addirittura meglio. Perché l’intuizione è una condizione più interna e sottile che ipnotizza l’attenzione e la spinge alla sete di senso, non di uno sviluppo della trama. Non che questo manchi: nonostante l’articolazione dell’intreccio sia lenta, essa metabolizza sviluppi episodio dopo episodio, e a seguito dello scioglimento di molti nodi ci si rende conto di quanta acqua sia passata sotto i ponti e di quanti “fiori” siano stati trascinati dal suo flusso.
Tuttavia il vero punto non è cosa accadrà dopo, ma trovare la chiave di decodifica del significato di ciò che si vede, della sensazione di occulto che fa tutt’uno con il crepuscolarismo della città di Lux, nella quale la luce è accecante ma impura, dove non c’è limpidezza – se non quella artificiale – ma solo degrado, metallo marcio e polvere in cui si consumano fino alla fine drammi disumani. Sempre sotto una rete di cavi, sempre sotto un cielo vuoto.

Texh 2

Le figure che si muovono in tale scenario sono border line, disturbate nella loro caratterizzazione psicologica e nel loro modus operandi. C’è chi appartiene alla mala, ovvero agli Organo, ai suoi vertici, e di conseguenza si attiene a un’etichetta mafiosa che rispetta un’eleganza d’altri tempi mantenendo la seria implacabilità di ogni clan criminale.
C’è chi loro si oppone, l’Alleanza, i cui membri attuano strategie e sabotaggi di stampo terroristico e sono votati alla conservazione della “carne”, di una carne non “corrotta” dalle protesi articolari figlie della tecnologia Texhnolyze, la quale rappresenta la raison d'être di qualcun altro di davvero significativo nello scenario umano dell’opera.
Poi ci sono ovviamente gli sbandati, i “ragazzi contro” figli del disagio dell’epoca i quali fanno storia a sé, e metà hippies e metà teppisti stanno tra i due schieramenti languendo nelle loro vite in comune, pronti a mordere le caviglie dei due antagonisti quando il momento è critico.
C’è anche chi viene da non si sa dove, da un luogo “esterno” ai territori di Lux; uno scrutatore, un profeta o solo un pazzo che distruggerà gli equilibri e muoverà la pietra angolare del castello di poteri della città.

Texh 3 E poi c’è chi è emarginato da tutto, estraneo al gioco, in cui entrerà a forza ma senza scampo: l’animale mosso solo dalla sua furia frutto di reazioni indotte, in assenza delle quali cade nella passività catatonica. Ichise. E con lui c’è la bambina, Ran, l’enigma, la domanda e la risposta nascoste dietro una maschera, dietro due occhi, sigillate dietro un’innocenza perturbata dalla consapevolezza del tutto, e del sempre.
Altri si aggiungeranno, altre presenze all’inizio celate, le quali forse rappresentano i marionettisti di tutto lo spettacolo, o forse sono anch’esse parte della scena. Di una scena che tra simboli e metafore accumula azioni e procede espandendosi sempre più, fagocitando i suoi protagonisti e le loro storie nel suo climax imperturbabile, fino all’apogeo dell’orrore.

In questa varietà ogni personaggio è manifestazione dell’egoismo e della violenza umani, di un dolore indispensabile all’uomo e che ne definisce la vera natura, senza la quale non siamo che ombre, fatti dell’identica sostanza di queste ultime. Violare il sangue e la carne testimonia la nostra umanità; farlo con la tecnologia la fa trascendere, ci fa evolvere. Come appunto il protagonista di Texhnolize, l’Ichise esasperato dell’inizio che però è il medesimo del proseguo, sempre se stesso anche quando si “texhnolizza” e “civilizza”, anche quando la sua bestialità diventa tanto latente da renderlo irriconoscibile.
«Panta rei». Eppure il fiume è sempre lo stesso. Tutto muta, lentamente, tranne il fato; tutto segue la corrente del suo fato. Solo chi lo osserva esula dalla follia, ne ha avversione e disgusto e lo vive con distacco. Tuttavia a ciò non ne consegue la salvezza perché nell’anime, nel suo nichilismo e pessimismo assoluti, non c’è salvezza, e nel suo epilogo di desolazione e disperazione solitaria non c’è redenzione. C’è solo la realtà dilaniata, solo la concretizzazione di una profezia che ha divorato pure il suo oracolo, perché anche quest’ultimo è contenuto in essa, ne è vittima, come si palesa in due delle scene più strazianti cui si poteva assistere.

Ed è un peccato che il comparto visivo non accompagni sempre la narrazione come questa meriterebbe, o almeno non lo fa al principio. In quanto i disegni inizialmente sono duri, rigidi, un po’ tozzi e colorati con deformazioni poco piacevoli nella distribuzione delle ombre proprie. Le animazioni stesse sono impacciate e macchinose: non c’è naturalezza nei movimenti degli arti, che sembrano azionarsi in maniera indipendente dal resto del corpo, né armonia o quanto meno agilità nella figurazione.
Poi, al contrario di quanto di solito accade con le serie di medio metraggio, le quali sparano la maggior parte delle proprie cartucce nei primi episodi, il tutto si va alzando di livello poco per volta ma in modo evidente, fino a dei picchi conclusivi che giungono a standard di vera eccellenza.

La tecnica diventa così degna sia delle inquadrature, soggettive e oggettive anomale, oblique, frutto di classe immensa; sia degli ambienti, opprimenti, stranianti e ricreanti alla perfezione, con l’ottima fotografia, il vero concetto angosciante di atmosfera post-cyberpunk; sia delle musiche. Queste spaziano fra i generi più disparati – emblema di ciò l’opening e l’ending agli antipodi –, sorprendono per la delicatezza e per l’ispirazione di cui sono capaci e rendono magnetica una visione destabilizzante.
Una visione nella quale i protagonisti si alternano con la loro carica d’agonia: figure sofferte, malate, diverse per caratteri ma identiche nella loro profondità e accomunate dalla sconfitta definitiva e globale, dalla distruzione di un’era che «lascia tutto ciò che è stata in eredità alla terra» – che lascia solo mistero e rovina, dai quali forse sorgerà un ultimo fiore di Rafia e poi più niente.