Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Cinema e animazione d'autore per questo inizio di settimana che ci porta verso il Natale: Metropolis, La regina dei mille anni e No. 6

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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8.0/10
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Trionfo della CGI tra passato e futuro

Questo film del 2001 per la regia di Rintaro e la sceneggiatura di Katsuhiro Otomo rappresenta il sommo omaggio e la trasmigrazione in forma di anime dell'omonimo manga del '47 di Osamu Tezuka, a sua volta ispirato al film di Fritz Lang del '27, che qui trova nuova linfa in chiave cyberpunk grazie all'uso intensivo di tecnologia CGI nei fondali e nelle animazioni.

Sullo sfondo di un complotto politico mirato a sovvertire il governo di Metropolis, si snodano le avventure di Kenichi, nipote di un investigatore sulle tracce di uno scienziato pazzo, e di Tima, un sofisticatissimo androide dalle fattezze di bambina che avrà un ruolo messianico e salvifico nell'arco della vicenda.
Nel complesso, il lavoro di adattamento della sceneggiatura risulta efficace e scorrevole, nonostante i risvolti socio-politici e la complessità della trama. Il ritmo del racconto è ben cadenzato fra alti e bassi, con un'incalzante escalation delle scene d'azione fino al gran finale apocalittico in tipico stile Otomo. Il concetto di superuomo e l'uso distorto della scienza e del progresso tecnologico sono le problematiche messe in campo dall'anime, ma queste sono invero poco approfondite a tutto vantaggio della spettacolarità grafica e di uno sviluppo lineare dell'intreccio.

I personaggi, dal design dichiaratamente di stampo "tezukiano", non contrastano più di tanto con le ardite invenzioni sceniche a base di preponderante computer grafica, le loro movenze sono eleganti e realistiche e la loro psicologia emerge per forte caratterizzazione.
Ma i veri protagonisti sono gli splendidi scenari mozzafiato, minuziosamente definiti, e le ricche e fluide animazioni, con adrenalinici movimenti di camera in 3D che rendono la pellicola un raro spettacolo a livello visivo: un vera apoteosi di forme e colori digitali. Ci si perde nei labirintici meandri sotterranei suburbani e si rimane incantati di fronte ai vertiginosi skyline metropolitani, un concentrato di avveniristiche e ardite soluzioni architettoniche. Particolarmente curate sono le sequenze panoramiche che descrivono la folla e le agitazioni sociali, con un incredibile numero di personaggi e dettagli animati contemporaneamente in un'unica inquadratura.

La soundtrack di Toshiyuki Honda è senz'altro all'altezza della mega produzione e del superbo lavoro di animazione dello studio Madhouse: sontuosa e onnipresente, rappresenta un immancabile supporto alle scene ed è impreziosita da suggestivi effetti sonori e da numerosi brani hot-jazz in riferimento al film del '27, citato anche nella scena di apertura con artificiosi effetti di pellicola "vintage".
Queste particolari musiche unite alle scenografie - in cui si ritrovano elementi di arredo rétro accostati a strutture dal design ultramoderno - donano al racconto una peculiare atmosfera ibrida fra modernità e antichità dal sapore unico e originale.

Probabilmente l'imponente e straripante realizzazione tecnica portata alle estreme conseguenze barocche e virtuosistiche incide negativamente sulla sceneggiatura e sulle tematiche che inevitabilmente passano in secondo piano e rimangono poco sviluppati, d'altro canto può risultare un dettaglio trascurabile dato il soggetto arcinoto.
Metropolis è senza dubbio un progetto ambizioso, un'opera di largo respiro che si propone di consacrare e consegnare ai posteri l'immortalità del "dio dei manga" Osamu Tezuka e si presenta come punta di diamante nipponica nel panorama dell'animazione mondiale, gettando un ponte non solo tra passato e futuro ma anche tra oriente e occidente della cinematografia d'autore.



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Le premesse per un nuovo <i>Galaxy Express</i> all'apparenza ci sono tutte: una bionda dal corpo sinuoso e un omuncolo deforme e corto, con le stesse fattezze di Tetsuro. Questi elementi possono scoraggiare, ma in fondo la sapienza popolare spesso non sbaglia quando dice che l'abito non fa il monaco.
<i>Queen Millennia</i> è un'opera di Matsumoto più evoluta e matura, e ciò è evidente fin nel suo esordio. L'ambientazione non è più lo spazio, né vi si trovano fantomatici treni intergalattici. Ci si sposta nel passato, sulla Terra del 1999, in un'epoca nemmeno tanto distante da noi rispetto alle ere degli altri universi <q>matsumotiani</q>. Nel <q>leijiverse</q> <i>La Regina dei Mille Anni</i> è la stella focale della cronologia, che di logico ha poco, ma un inizio sì: questa serie è il punto da cui si origina tutto.
La trama è ciò che contrappone per antonomasia <i>Queen Millennia</i> a <i>Galaxy Express</i>. Quest'anime contiene dei filler, come tutte le altre produzioni animate relative all'universo suddetto, ma qui essi sono tutti funzionali al disegno del soggetto, a tracciarne con ineluttabilità le linee di contorno. L'architettura degli episodi si articola nella logica della successione, cosicché misteri e colpi di scena a essi collegati si snoderanno per tutta la durata della serie, anche se con un vistoso calo narrativo nella parte finale.

E finalmente la bionda, Kira Tesawa, non è più un alone, né una comparsa con la falsa promessa di un fascino legato all'ambiguità. Il carisma c'è davvero, e c'è davvero una storia sotto: piccoli e disordinati elementi concorreranno a svelare il ritratto in tutte le sue tonalità. Kira è la concrezione dei significati legati al buon governo, sorta di allegoria della temperanza e della giustizia in versione utopica, con tutte le contraddizioni di chi si dibatte tra il volere e il potere.
Per ciò che concerne l'omuncolo brutto, finalmente si assume consapevolezza del fatto che, se Tetsuro fosse stato come Tori, <i>Galaxy Express 999</i> sarebbe stato un prodotto quantomeno accettabile. Anche Tori piange spesso, ammettiamolo, ma di certo non diventa il lagnoso per eccellenza. Pure Tori ha i suoi assurdi colpi di testa, non privi di una certa vanagloria, che lo riavvicinano al carattere di Tetsuro. Ma qui questi momenti di follia sono catartici per il protagonista, in quanto lo mettono di fronte all'impossibilità di evolversi in uno stereotipo di eroe fanfarone e tronfio. Anzi, essi hanno la finalità di toglierlo per un po' dalle luci della ribalta per salvare infine gli episodi in calcio d'angolo. E lo spazio lasciato da Tori è consistente.

L'osservatorio Amamori e il QDI costituiscono uno degli sfondi più belli della serie, e articolano un vasto ordito di vicende atte a impedire che la Terra venga colpita da un pianeta dall'orbita irregolare: Lamethal. Ma la tensione di tali intrighi, che raggiunge anche livelli non trascurabili d'audacia, purtroppo si allenta fino a scomparire dopo la prima metà della serie. Peccato che i brevissimi e interessanti baleni di battaglie spaziali lascino il posto a stupidi e infantili siparietti sui compagni di scuola di Tori o sui genitori di Kira. La loro funzione di riempitivo è malcelata, suscitando immediatamente un forte tedio nello spettatore. L'ironia di cui sono forieri questi stratagemmi stride vistosamente con la complessità e la serietà dei fatti narrati. La serie non disdegna il patetismo, tanto caro alle produzioni animate legate a Matsumoto, ma come sempre si tratta di una nota stonata e goffa, che sottrae altri punti.

Tutto sommato però il taglio registico di alcune scene fa dimenticare questi difetti, accompagnato anche dalla sobrietà e dal carattere pittoresco di alcuni sfondi. A ciò si aggiunga la straordinaria costanza a livello qualitativo dei settori legati al chara design e alle animazioni.
Nonostante il continuo loop dei temi musicali, il comparto sonoro mostra una certa raffinatezza, contenendo melodie concise, taglienti, efficaci. Ma la musica in sé non è scevra di ossimori, così anche qui troviamo temi delicati, dolci e intrisi di pathos, dosati con la sapiente autorevolezza che ne evita il decadimento in motivi gonfi di vuota maestosità e di retorica, fenomeno pressoché diffuso in prodotti contemporanei.

Si poteva fare di meglio, molto meglio, questo è vero. Non si può certo dimenticare la goffa involuzione della Regina Madre di Lamethal, consegnata al finale dell'opera spoglia - senza una motivazione incisiva - dell'aura di fredda impassibilità che l'aveva fino ad allora velata.
I limiti del plot narrativo non possono garantire al titolo un posto tra gli indimenticabili, come è stato per <i>Capitan Harlock</i>. Nonostante ciò arriva il comparto tecnico molto elegante a salvare <i>Queen Millennia</i> dall'aborto. La serie non tiene il filo narrativo fino alla fine, smaglia purtroppo la rete dell'intreccio proprio nel punto in cui questo doveva essere tirato con polso fermo. Ciò le pregiudica una valutazione più alta. A ogni buon conto lo spettatore e il fan di Matsumoto ricorderanno lo spazio di <i>Queen Millennia</i> come un universo più riuscito rispetto a quello di <i>Galaxy Express 999</i>.



3.0/10
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Se si volesse descrivere "No.6" con un'espressione che generalmente tendo a evitare e che solitamente vedo abusata, lo si potrebbe senz'ombra di dubbio appellare "un'incredibile occasione mancata", e non si avrebbe davvero torto a rimarcare con enfasi tale concetto. Occorre, per amore di giustizia, dare però una motivazione di tale sentenza, la quale potrebbe apparire del tutto ingenerosa.

Diamo inizio alla nostra dissertazione dal primo elemento che normalmente si nota nell'approcciarsi alla serie in questione, ovvero la sua spasmodica brevità. Ciò ovviamente non va a costituire un difetto come elemento in sé considerato, ma a fronte della generale inconsistenza e dei notevoli buchi che ammorbano l'intera narrazione, dal principio alla fine, non ci si può che chiedere quale ragione abbia cagionato tali spietati funambolismi sinottici.
Eppure le idee c'erano, sebbene non propriamente originali e innovative, ma senz'altro si portavano su un campo, quello sociologico e psicologico, che di certo può essere sfruttato a dovere con egregi risultati, si pensi ad opere quali "Infinite Ryvius", ad esempio.

Si para innanzi, invece, un'opera estremamente mal gestita, colpevole una regia caotica e confusionaria unita a una sceneggiatura spesso ridicola e fatiscente. Ciò che sconvolge, tuttavia, è il come i concetti cardine vengano spietatamente vituperati, essendo esposti con totale mancanza di profondità seguendo un metodo estremamente piatto e lineare, sia pure con le dovute eccezioni, le quali in ogni caso non sortiscono certo l'effetto di ribaltare la disastrosa situazione delineatasi.
Il concetto della città ideale e perfetta, incarnazione di un'utopia tanto agognata dall'uomo per la conservazione della sua amata pace, è di certo gravida di speculazioni di ogni tipo, che vengono vergognosamente estromesse spostando l'attenzione sul rapporto tra i due personaggi principali, di dubbio interesse se non per le fan yaoiste, e prospettando una sotto-trama dal sapore fantastico/fantascientifico che va a inficiare pesantemente la coerenza della serie. Essa rimane quasi del tutto deficitaria di giustificazione o spiegazione, lasciata cadere in un baratro verso il nulla assoluto. Si assiste, nel finale, a una profusione di avvenimenti del tutto assurda e di cui manca ogni presupposto, che evidentemente non è stato esplicitato a dovere per mancanza di tempo.

Ad onor del vero, per essere onesti, ci vengono fornite delle pallide riflessioni di natura sociologica legate alla città, ma esse si mantengono su una linea superficiale poiché, come già accennato, l'attenzione della serie si sposta altrove, su lidi di tutt'altro genere. Risulta dunque un peccato che non si sia sviluppato maggiormente il tema legato all'utopia della città perfetta, che impone agli abitanti l'assoluta e indiscutibile fedeltà e obbedienza alle sue leggi, eliminando dalla comunità ogni membro che anche solo accenni comportamenti di natura indipendente. Siffatta impostazione si produce certo in una pace sociale formale, seppur falsa e nociva poiché dovuta a una repressione spietata di qualsivoglia istinto o volizione, e, contemporaneamente, comporta una spersonalizzazione dei suoi cittadini, immersi in una vita apatica e monotona, privati delle libertà fondamentali e, per dirla alla Rousseau, "costretti a essere felici".

Tralasciando la considerevole rilevanza che potrebbero avere tali riflessioni in merito alla filosofia del diritto, a cui ovviamente la serie non fa riferimento, essa si limita a una anodina constatazione di come il protagonista e i personaggi sentano, per motivi diversi, il disagio di tale imposizione, e di come dietro tale artefatta idilliaca realtà si celino un marciume e un'ingiustizia disgustosi. Infatti il benessere cittadino è costruito sul sangue di molti uomini, e si mostra ad esempio come gli anziani, che ormai costituiscono un peso, vengano sottoposti a esecuzione per essere tolti di mezzo, così come ogni potenziale elemento disturbatore. La realtà al di fuori delle mura, per contro, è un luogo assimilabile allo stato di natura di "hobbesiane" reminiscenze: "homo homini lupus" è di certo un'espressione azzeccata, vige la legge del più forte e del più scaltro, un mondo non certo tenero anche se forse più "libero", in quanto presenta meno ostacoli alla libera attività dell'uomo di autodeterminarsi. Il protagonista agognerà una soluzione, di abbattere il muro che separa le due realtà, in un'ingenua presa di posizione del tutto idealista che verrà messa in crisi nel finale, ma superata per merito di un "deus ex machina" estraneo ai personaggi del tutto fuori luogo e privo di qualsiasi fascino o senso. Ovviamente non vi è spazio per dubbi di natura etica e morale, la città viene senza mezzi termini identificata come nemico e il suo ideale ostracizzato.

Da come ne parlo sembrerebbe che, in un certo qual modo, la serie tratti o perlomeno tocchi tutte queste tematiche, ma è d'uopo far notare come se le lasci invece scappare, portando a una conclusione del tutto priva di pudore.
Generalmente apprezzo i tentativi, anche se un po' maldestri, di addentrarsi in un qualcosa di serio e interessante, ma questo è il caso in cui l'espressione "far cadere le braccia" non è abbastanza per ambire a esprimere quel senso di basita incredulità che mi ha pervaso durante la visione. Chiudo qui la mia esposizione, ritenendo di avere speso fin troppo del mio tempo per un titolo del genere.