Kaiba 01 Non so se Yuasa conosca Richard K. Morgan. Credo che Morgan sia comunque misconosciuto fuori della cerchia dei cultori della fantascienza. Di chi ha letto quel Bay City che riprendeva ciò che il cyberpunk aveva ancora da dire e ne estraeva una storia di spessore e profondità, satura d’idee come nella migliore tradizione della corrente. Una storia che, en passant, ha raccolto il premio Phillip K. Dick. Tanto per gradire.
Kaiba ha molto, moltissimo del soggetto di Morgan. Yuasa lo muove su altre strade, con altri scopi, ma la base è quella: il corpo intercambiabile. Una custodia, in Kaiba come in Bay City – nel quale così viene pure chiamato, tra l’altro. Nel dubbio, si può prenderla come convergenza evolutiva.

È pur vero che altri spunti, concettuali e non soltanto, Yuasa li pesca da fonti a lui più vicine. Si va dall’Akira di Otomo alle molte manifestazioni di Ghost in the Shell, fino al NGE che fu. Su quest’ultimo debito ci sarebbe da discutere perché le aspirazioni totalizzanti del discorso di Anno portano, a torto o a ragione, a ricondurre a Evangelion quasi tutto ciò che anche di vagamente simile gli è seguíto. Ma la parentesi sarebbe troppo ampia. Il succo della faccenda è che l’originalità contenutistica, così acclamata dagli intenditori (o sedicenti tali) dell’animazione, in Kaiba è un aspetto trascendentale. A Yuasa importa d’altro. Yuasa lavora su ben altro.

Il contrappunto, per esempio. A un primo colpo d’occhio pare lampante la dissonanza tra i temi e la veste di Kaiba. Figurazione “pupazzosa”, bambinesca; condizioni distopiche, pervasività della morte. Sotto la superficie c’è un’operazione parecchio raffinata che, sul piano espressivo, gioca sulle possibilità produttive del contrasto tra le implicazioni delle azioni e la loro resa grafica: sulla carica che si genera dall’interazione tra accenti opposti. Da una parte la crudezza/crudeltà delle scene, dall’altra la messinscena buffa/carnevalesca.
Yuasa l’aveva già fatto ai tempi di Genius Party, con Happy Machine, da gemellare per parecchi motivi a Kaiba, che potrebbe magari nascere come una ripresa ed espansione di quel piccolo gioiello. In aggiunta, qui, Yuasa scherza con l’alternanza dei toni – comico, patetico eccetera –, con la loro giustapposizione che ne ingigantisce gli effetti, li rende paradossali, li dissacra anche. Sempre sotto l’egida di una (auto)ironia che non vela del tutto l’amarezza per una realtà disumana, postsumana, o forse terribilmente umana.

In Kaiba la disperazione è occultata, o meglio ribaltata: altra faccia di un mondo plasmato sullo zucchero filato; precipitata sotto un chara all’apparenza kawaii. In realtà Yuasa opera in modo più sottile anche in questo. Riprende e riattualizza un modello (pre?)tezukiano stilizzando pupazzetti che si muovono in mezzo a orrori strampalati. È la sublimazione nel grottesco di una tragedia di bambole, quella di Yuasa, un riuscire a prendere sul serio ciò che superficialmente è impossibile prendere sul serio. La posta in palio non è solo, o meglio non tanto la rottura degli stereotipi iconografici dell’animazione mainstream.

Kaiba 02 È lo stesso argomento fantascientifico di cui parlavo prima a essere sovvertito, innestato in uno spazio fantasmagorico, surreale, dove le leggi fisiche non funzionano – non ce n’è bisogno. La presenza divina è inglobata nel tessuto del mondo. In Kaiba il trascendente si fonde all’immanente. Dio esplora un universo di cui fa parte e in cui tutto è visibile. Una realtà irreale, una dimensione metafisica dove s’incontrano dio e contro-dio. Né mimesi del “nostro” mondo né ricalco dell’idealità proposta dai canoni classici della japanimation. Magari solo uno tra i possibili creati della divinità proteiforme di Mind Game.

E, come in Mind Game, lo stile di Yuasa continua a spezzare schemi formali, ma in maniera differente. Mitiga lo sclero furioso del film del 2004, lo leviga in funzione di una narrazione sempre rapsodica ma meno euforica, più elegante, più (de)costruita. Il montaggio antilineare saltella con leggerezza sui fili di un’intricatissima rete di elisioni, depistaggi, cenni e analessi. Abolito ogni didascalismo, l’uso massiccio dello straniamento costringe a ragionare, stimolo a uno sforzo logico che rimetta insieme i pezzi, rimonti le informazioni quantizzate, parcellizzate, sparpagliate nel labirinto dell’intreccio. Kaiba struttura una visione attiva per sguardi svezzati, scalza vecchi modi, vecchie soluzioni ormai apprese, somatizzate, stantie.

Se Yuasa lo faccia per il suo piacere o per quello altrui, non è semplice capirlo. Certo è che di godimento per l’occhio, di chi non importa, Kaiba ne offre a treni. E proprio dentro la forma di Kaiba si trova il più nascosto, forse il più grande dei contrappunti gestiti dal suo creatore. Quello tra la semplicità degli strumenti che utilizza e la complessità estrema con cui li manipola. La sintassi visiva di Yuasa piega il mezzo a ogni suo volere, ne adopera gli elementi con una proprietà assoluta, con la naturalezza, la consapevolezza che sono sole dei geni, lui sì, Yuasa, genio in mezzo a masnade di millantatori, millantati e falsi illuminati.

Poi in fondo a tutto ciò Yuasa racconta anche una storia, semplice, triste se si vuole, bella, brutta, di (ri)formazione o devastazione. Le lascia comunque un lumicino di speranza alla fine. Magari una piccola metafora, forse è lo stesso Kaiba quel lumicino, opera meravigliosa che da sola dà un senso ai duecento e passa titoli d’impalpabile inanità evacuati ogni anno dall’industria degli anime.