Etna Comics and Games 2013, kermesse tenutasi a Catania dal 7 al 9 giugno scorsi, è stata l'occasione per un interessante seminario — articolato sui tre giorni di fiera — su di un tema dagli ampi risvolti antropologici e sociologici: “L'interculturalità nell'intrattenimento giapponese”. Relatore principale, nonché moderatore degli interventi, Gualtiero 'Shito' Cannarsi; traduttore, dialoghista, supervisore e direttore del doppiaggio, Cannarsi collabora con Lucky Red per l'adattamento delle opere di animazione dello Studio Ghibli, oltre ad essere attento conoscitore di manga ed anime ed estimatore della cultura giapponese nella sua globalità.
Siamo stai presenti al terzo ed ultimo degli incontri previsti, “Attraverso lo specchio: la comprensione dell'intrattenimento alieno. Indietro al futuro: l'arricchimento della diversità, contro un consumismo animalizzante”.

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La relazione è stata preceduta dalla proiezione di Mimi wo sumaseba, lungometraggio dello Studio Ghibli diretto da Yoshifumi Kondō e scritto da Hayao Miyazaki, adattamento animato datato 1995 di uno shōjo manga di Aoi Hiiragi del 1989 (pubblicato in Italia da Star Comics col titolo di Sussurri del Cuore). La versione italiana del Mimi wo sumaseba della Ghibli, per la quale il pubblico italiano ha dovuto attendere tre lustri, è sempre a cura di Lucky Red; vi ricodiamo che una presentazione in anteprima dell'adattamento curato da Cannarsi ebbe luogo nel corso di Lucca Comics and Games 2011, alla presenza dello stesso Cannarsi, di Luca Raffaelli (Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi) e Luca Della Casa — per un resoconto del dibattito post-proiezione tenutosi nell'occasione vi rimandiamo all'articolo di Ansonii390.
Basti in questa sede ricordare l'immagine di pellicola contrassegnata da una sorta di realismo magico venuta fuori dal contraddittorio lucchese sul lungometraggio di Kondō; quest'ultimo infatti sembra attingere esteticamente da un lato alle atmosfere visionarie di Hayao Miyazaki (si pensi al pointillisme à la Naohisa Inoue nella rappresentazione di Iblard), dall'altro alla narrativa del quotidiano di Takahata, intrecciando i livelli quasi senza soluzione di continuità.

Tornando al seminario catanese, Cannarsi, chiamando in causa anche l'ivi presente John Kaminari (attore, doppiatore e reporter per il cinema e la TV giapponesi — il suo debutto nello showbiz nipponico, datato 2008, risale a Ginmaku ban Sushi Ouji, in cui interpretò la parte di un esilarante boss mafioso), si è intrattenuto a lungo col pubblico discettando di interculturalità e forme postmoderne dell'intrattenimento nipponico, partendo proprio dagli spunti interpretativi offerti dal film di Kondō. Secondo il realtore, il fattore interculturale si sostanzia nell'appello lanciato alla nostra capacità di comprensione da forme narrative prodotte in contesti “totalmente altri” rispetto alla nostra tradizione. I prodotti culturali di un altrove, nel nostro caso chiamato Giappone, richiedono dunque — questa la tesi di fondo di Cannarsi — uno sforzo interpretativo che vada oltre la fruizione immediata e irriflessa, spingendoci ad avventurarci nella giungla di significati di un'opera, in un esaltante doppio movimento, dal nostro universo di senso a quello d'origine dell'opera e viceversa. La passione può dunque diventare il carburante della crescita culturale e personale, se è vero, agostinianamente, che “si conosce solo ciò che si ama”.

Dicevamo di Mimi wo sumaseba, shōjo d'ambientazione scolastica amato da Miyazaki padre. Cannarsi parte nella sua disamina evocando scene come quella del passaggio in bicicletta dato da Seiji a Shizuku, ravvisandovi similarità con sequenze di un altro film Ghibli, il recentissimo Kokurikozaka kara di Gorō Miyazaki (in italiano La collina dei papaveri), guarda caso anch'esso tratto da uno shōjo manga, opera di Tetsuro Sayama e Chizuru Takahashi. Si tratterebbe dunque di titoli rientranti nei canoni nella narrativa di genere, da comprendere all'interno degli stilemi ad essa propri, ma non solo: va fatta attenzione al carattere squisitamente giapponese dei temi trattati. Shizuku e Seiji frequentano la terza media, ultimo anno della scuola dell'obbligo in Giappone, ovvero il momento in cui si chiede alle ragazze e ai ragazzi di compiere una scelta di vita. Il primo fattore atipico dal punto d'osservazione di un individuo cresciuto nella società italiana è la precoce responsabilizzazione dei giovani in merito al proprio percorso di vita. Seiji desidera fare il liutaio in Italia, nella città di Cremona, ed è pronto a trasferirsi, appena adolescente, in un paese di cui ignora praticamente tutto. Immaginate se uno studente italiano di quattordici anni dicesse ad un'amica: “Andrò a vivere a Tottori, perché voglio imparare a fabbricare spade giapponesi”. La passione giovanile e la presenza di spirito di Seiji, il suo coraggio di compiere scelte non scontate, ricordano a Cannarsi quelli di Godai, protagonista di Maison Ikkoku, che intraprende un mestiere poco remunerativo, divenendo maestro di scuola materna, e chiede la mano di una donna più grande di lui, per giunta già vedova. Mutatis mutandis, si tratta del coraggio di sviare dai percorsi prestabiliti e di incamminarsi, alla Robert Frost, sulla “strada meno battuta”. Allo stesso modo inusuale è l'acerba vocazione letteraria di Shizuku, modesta, se non proprio marginale, la sua condizione familiare. Casa Tsukishima, prosegue Cannarsi, è “stipata di roba”. È quella che si potrebbe definire un'abitazione parva sed apta mihi: piccola ma adatta a tenere vicini i frammenti di sogni del simpatico nucleo familiare. Il padre è bibliotecario, non certo un colletto bianco, ma, probabilmente, un uomo appassionato del proprio lavoro; la madre ha deciso di frequentare l'università dopo aver avuto due figlie; la sorella maggiore cerca di costruire la propria identità andando a vivere da sola; e infine Shizuku, amante dei libri, arriva a divorarne venti durante le vacanze estive.
Non si tratta certo dell'ambiente familiare di estrazione borghese di Yuuko Harada, amica del cuore della protagonista. Nell'accogliente villetta degli Harada, Yuuko ha una stanza tutta per sé, dotata di impianto stereo; è nella sua camera che la ragazza accoglie Shizuku, quando questa viene a fargli visita; in quell'occasione Yuuko, seduta alla giapponese secondo i dettami della buona educazione, intrattiene con l'amica una conversazione canonicamente interrotta dalla signora Harada, sopraggiunta a servire ospitalmente il tè. Quanto al signor Harada, impegnato a guardare una partita di baseball la sera della visita di Shizuku, veniamo a sapere che la figlia può permettersi di non rivolgerli il saluto, di essere in lite con lui. È evidentemente, lascia intendere il relatore, una famiglia in cui c'è spazio per l'individualismo della porta chiusa, per l'altezzoso distacco. Nella “casa stipata” degli Tsukishima, senza barriere artificiali, in cui le sorelle condividono un'unica stanzetta e un letto a castello, la vicinanza è una condizione inevitabile, e persino il silenzio fa un rumore diverso: è un silenzio condiviso. I problemi di Yuuko durano lo spazio di una notte; Shizuku non fa altro che mettersi in discussione. Tsukishima è consapevole della propria intelligenza, ma, quando scopre di non essersi accorta dei sentimenti di Sugimura verso di lei, finisce per sentirsi immatura; stessa frustrazione prova nel sentirsi indietro rispetto a Seiji nel cammino verso i propri sogni. Ritroviamo, in fin dei conti, il topos del periodo di apprendistato alla vita, di ricerca della propria vocazione. Nella narrativa di genere la ripetizione sta nella trama, la differenza nelle variazioni sul tema.

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Vedere un film di produzione giapponese, immaginato inizialmente per il mercato interno, significa sforzarsi di comprendere qualcosa di differente, con tutto il portato di arricchimento esperienziale e conoscitivo che ciò comporta per lo spettatore. Stesso dicasi per altre forme di intrattenimento narrativo. Simili esperienze, dice Cannarsi, sono dei lussi: i manga e gli anime sono un lusso che ci si può permettere all'interno di un'economia avanzata che contempli il “consumo culturale”. Privilegi del genere sono chance di conoscenza, giocabili a partire dal riconoscimento di aspetti delle opere d'intrattenimento nipponiche non immediatamente visibili all'occhio occidentale. 

Volendo analizzare un altro tema caro alla tradizione della japanese pop culture, Cannarsi fa riferimento a una locuzione composta da due termini antitetici, che definiscono un modello di vita pervasivo nella società nipponica del secondo dopoguerra. Si tratta del tensai to doryoku (traducibile come genio e impegno). È quasi un ossimoro. Da un lato lo sforzo teso verso un obiettivo, dall'altro la genialità. Il sistema di valori della società italiana enfatizza, almeno in linea di principio, il principio di uguaglianza; l'esistenza di un'élite è vista come retaggio di epoche passate, percepite come sostanzialmente inique. Una società altamente selettiva come quella giapponese tiene invece tuttora in gran conto la distinzione, l'essere parte dell'erīto. Alcuni idol, rammenta Cannarsi, sono quasi predestinati alla celebrità, essendo figli d'arte o eredi di famiglie importanti.
Il tensai, sia esso aristocrazia di nascita, intellettuale, artistica o sportiva, è l'irraggiungibile, il dono di natura. Il doryoku è di converso l'impegno profuso nel compito fino al limite delle proprie possibilità, lo sforzo nobilmente umile del Giappone che si è saputo risollevare dalla guerra. Cannarsi cita diversi esempi di queste due componenti essenziali dello spirito giapponese, molti dei quali tratti da storie di genere spokon (ambientate dunque nel mondo sportivo).
In Ace wo nerae Hiromi è doryoku (impegno e sacrificio), Madame Butterfly è tensai. In Attack No.1 le catene che segnano i polsi, le pallonate in faccia date dall'allenatore per temprare la resistenza delle pallavoliste, sono decisamente doryoku. In Kyojin no hoshi gli allenamenti massacranti cui è sottoposto Hyuuma dal padre Ittetsu — vecchia stella del baseball dalla carriera stroncata — sono assolutamente doryoku. Nel Giappone del dopoguerra viene celebrato il trionfo dell'impegno sul dono di natura, la possibilità addirittura di diventare tensai, di sbozzare la pietra grezza e rivelare la gemma nascosta dalle umili origini. 
Nella dialettica doryoku/tensai esistono casi ancora più interessanti, percorsi ancora più entusiasmanti. È il caso di Glass no Kamen: Maya, figlia di una umile cameriera (una vicenda dagli echi dickensiani), è una ragazza senza doti particolari, ma con una grande passione per la recitazione; Ayumi è invece una ragazza benestante ed avvenente, una figlia d'arte per giunta formatasi presso una scuola di recitazione, l'enfant prodige cui sembra precocemente arridere un successo scritto negli astri. A prima vista gli sforzi di Maya, portati avanti al limite del tragico (per prepararsi ad interpretare una bambola, la ragazza si lega attorno alle giunture delle canne di bambù!), sembrano tali da farla ascrivere alla categoria del doryoku. A metà della narrazione si capisce però che la passione assoluta di Maya è genio totale, laddove la genialità supposta di Ayumi è espressione del disperato tentativo di dimostrare di non essere solo una figlia d'arte.

In Touch di Adachi, Kazuya è lo yuutousei (lo studente modello), mentre il suo gemello appare pigro e svogliato. Anche qui però la vicenda riserva un (tragico) scambio di ruoli, rivelando dove si nasconda davvero il tensai. Emblematica, secondo Cannarsi, la scena in cui Kazuya, in perfetto spirito doryoku, viene “sorpreso” dal lettore a lanciare per tutta la notte una palla da baseball contro un muro, inseguendo disperatamente un desiderio…
Finite le grandi narrazioni, il senso si può ritrovare nelle piccole storie; storie che narrano di come attraverso il doryoku si possa giungere al tensai, portando alla luce lo splendore della gemma. È questo che sembra invitare a fare l'anziano Shirou Nishi, commentando il libro impetuoso e pieno di ardore giovanile scritto da Shizuku: i tentativi, anche quelli meno riusciti, sono la via per la completa maturazione. L'anziano sembra voler parlare di speranza ai giovani del Giappone post-moderno. “L'importante è imparare a sperare”, rammentava Ernst Bloch. Più che mai questo monito vale per le generazioni cresciute a cavallo tra il secolo scorso e l'attuale: la via del doryoku, il cammino della buona volontà, sembra infatti spesso incepparsi, portando ad esiti fallimentari e distruttivi (ci viene in mente l'analisi spietata della società giapponese operata da Natsuo Kirino in Grotesque, opera tutta al femminile dove sia i personaggi doryoku che i rampolli della erīto finiscono per condividere un destino di tragica sconfitta).  

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Ad accennare alla condizione giovanile dei figli del nuovo secolo è, inaspettatamente, il trailer di Mimi wo sumaseba, come fa notare il relatore. In sottofondo passano le note di Country Road, tema portante del film, brano che Shizuku ha il compito di riscrivere. La protagonista de I sospiri del mio cuore è infatti una scrittrice, una poetessa (la ragazza atipica), mentre l'amica Harada, la ragazza di buona famiglia, dirige il coro della scuola (quest'ultimo affida appunto a Tsukishima il compito di tradurre Country Road). Si tratta però di una canzone che Shizuku non sente propria… e come potrebbe mai? Si tratta di un brano che parla del ritorno ai campi, alla terria natìa, mentre la protagonista vive a Tama New Town, l'esplosione di cemento che negli anni del baby boom post-bellico ha sventrato una collina di Tokyo per permettere l'espansione della metropoli giapponese. Un simile luogo artificiale rende difficile qualsiasi identificazione, fa perdere il senso della parola origine. Shizuku può al massimo parlare di “concrete roads” (strade di cemento), nella sua resa parodistica del brano. Nella versione definitiva la protagonista parla invece di un mondo che non riesce a capire, di un ritorno alla campagna che, ancora possibile ai tempi di Tonari no Totoro — quelli della gioventù di Miyazaki, è ormai divenuto impraticabile. Shizuku è consapevole di ciò che è andato irrimediabilmente perduto (“andrò a tradire il mio animo, se saprò tradire il mio passato”), e non è un caso che la lirica sembri rispecchiare le ansie della coeva Zankoku na tenshi no theze, opening di Neon Genesis Evangelion e cantico ai problemi della nuova umanità (la shinjinrui). Eppure nel testo la ragazza si fa coraggio da sola e, battendo le mani al suono di un'improvvisata orchestrina, canta, deliziosamente stonata, quella canzone smarrita in cerca di una strada — un cammino da fare magari assieme a qualcuno, non portati per mano, ma piuttosto mano nella mano.
Si domandano gli autori Ghibli nei titoli del trailer: “A cinque anni dal caotico XXI secolo, perché uno shōjo manga?”. È solo una commedia scolastica, “una semplice storia d'amore, tada no romance”, ma può dire moltissimo. I giovani alle soglie del XXI secolo non hanno strade segnate, vanno a tentoni, come fa Shizuku. Non a caso i genitori della ragazza la mettono in guadia: se scegli percorsi non comuni, sarà difficile; se non ti uniformi alle aspettative della società, sarà dura. Eppure, mamma e papà devono aver provato più o meno la stessa ebbrezza della figlia negli anni della contestazione (“forse erano dei figli dei fiori”, dice scherzosamente Cannarsi). Ad ogni modo, ripongono fiducia in Shizuku. Il mettersi alla prova è compito di ciascuno, nessuno può farlo al posto di un altro. Ma qualcuno può sostenerci, può percorrere assieme a noi il cammino dei sogni. È questo il senso della speranza che Seiji prospetta a Shizuku nella scena finale: la città di cemento che sembra diventata un mare.

C'è speranza, anche nella cultura postmoderna. La mentalità otaku, conclude Cannarsi, riprendendo tematiche trattate nel secondo incontro, si basa sul senso della perdita e sul tentativo di scongiurarla. Nulla di ciò che è amato deve andare perduto. La pietra azzurra di Nadia in Fushigi no Umi no Nadia è il ricettacolo delle cose perdute, il sogno di ogni otaku. Conservare, custodire, è un compito che può essere attuato in diversi modi. Nell'accezione più deteriore ciò avviene secondo i canoni del consumismo lassista e privo di significato. Secondo il filosofo A. Kojève, l'animalizzazione consumistica sarebbe in questo caso il destino dell'uomo postmoderno dopo l'hegeliana fine della storia. Tuttavia, proprio su questa falsa riga, Hiroki Azuma (Generazione otaku), saggista nipponico, vede nell'otaku la figura più adatta ad incarnare i rischi e le opportunità della postmodernità, forse proprio perché erede di una tradizione giapponese che ha “saltato” la modernità e conservato il culto della forma estetica, alternativo all'appropriazione consumistica (per chi volesse approfondire il tema, rimando a questa breve nota).
Nell'accezione più nobile, custodire significa salvare dalla morte e dall'oblio. Proprio in questo senso, le piccole narrazioni, la loro condivisione, la loro conoscenza profonda, possono diventare la nostra pietra azzurra.