Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo ai live action Ferro 3 La casa vuota, Lettere da Iwo Jima e Tada, Kimi o Aishiteru.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Tae-suk è un ragazzo che vive alla giornata e alloggia in case temporaneamente disabitate, dove si stabilisce in assenza dei proprietari. Un giorno, cercando una nuova sistemazione, incontra Sun-hwa, una giovane moglie reclusa e vittima di un marito arrogante e violento. I due si innamorano e decidono di continuare insieme la vita errabonda spostandosi di casa in casa fino al giorno in cui non verranno scoperti e dovranno fare i conti con le autorità.

Dopo averci incantati con il tempio galleggiante e la natura lussureggiante della favola zen "Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera", Kim Ki-Duk torna su un set metropolitano con un viaggio intimista sul tema della solitudine e dell'amore.
Il regista lavora per sottrazione, elimina quasi completamente i dialoghi, rendendoli del tutto marginali e limitati ai soli personaggi di contorno, e lascia parlare i lunghi silenzi, le movenze sinuose e gli sguardi intensi dei due protagonisti. Anche la colonna sonora è ridotta ai minimi termini, limitata all'uso di un'unica, struggente canzone dalla melodia vagamente arabeggiante, ripetuta come un ciclico leit motiv durante la visione. Scelte che contribuiscono a creare un'atmosfera minimale, sospesa e impalpabile, e fanno emergere con prepotenza le emozioni.
Lo scorrere del tempo, scandito dalle stagioni (della vita) in "Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera", qui è colto nella poesia dei rituali quotidiani. La tacita intesa dei due protagonisti, fatta di piccoli gesti, di corpi che si sfiorano, ci racconta di un amore assoluto, puro, quasi angelicato, e la solitudine scompare come d'incanto nel momento in cui i due destini si incrociano.

Kim Ki-Duk è un regista atipico e un po' fuori dagli schemi. Approdato al cinema relativamente tardi e senza alcuna formazione o esperienza pregressa (prima aveva svolto lavori di ogni genere), la sua carriera artistica è cominciata non già come film maker, ma come pittore. Forse è per questo che ogni sua opera sortisce sempre l'effetto di un'esperienza magica e sensoriale. Con "Ferro 3: la casa vuota" il suo tocco delicato si rivela quanto mai ispirato e ci dona un altro pezzo unico che parla di passione e sentimento con la leggerezza e la spontaneità delle emozioni.



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Ispirato al libro "Pictures letters from commander in chief", Letters from Hiwo Jima è il secondo capitolo del progetto di Clint Eastwood dedicato all'epica battaglia combattuta su uno scoglio arido e inospitale del Pacifico da soldati americani e giapponesi: una lotta cruenta che avrebbe segnato le sorti della II Guerra Mondiale.
Il film si contrappone al precedente Flags of our fathers con il quale forma un dittico asimmetrico ma speculare. In entrambe le pellicole i toni sono dominati dalla pietas e dalla compassione per le innumerevoli vittime sacrificate sull'altare della ragion di stato e dell'ottusa logica militare. Del resto le affinità finiscono qui perché siamo di fronte a due opere per altri versi molto differenti. Il regista applica un coraggioso ribaltamento di prospettiva, abbandona la messa in scena spettacolare e un po' eccessiva del primo film, in cui si analizzava criticamente il meccanismo distorto e fagocitante della propaganda (la leggendaria foto scattata ai marines che innalzano lo stars and stripes sul monte Surubachi), per immergersi nell'atmosfera composta, intensa e drammatica del secondo film, che chiude il cerchio e racconta lo stesso episodio storico dal punto di vista nipponico. In Flags il coraggio e l'onore diventano strumento mediatico su scala macroscopica; in Letters, attraverso il filo rosso delle lettere dei soldati imperiali ai loro cari, si osserva il rapporto intimo ed esistenziale con la morte onorevole, in un ottica di rigido patriottismo ed etica kamikaze a sancire il carattere premeditatamente sacrificale di quella battaglia. Inoltre, alle ardite panoramiche di grande respiro di Flags fanno da contraltare gli spazi chiusi e claustrofobici di Letters.
Eastwood delinea le figure del suo teatro bellico con assoluto rigore, sottraendo alla guerra le sue ragioni per lasciar emerger, in contro luce, le ragioni degli uomini, che da ambo le parti finiscono per confondersi risultando molto simili, quando non identiche: le lettere dei nipponici differiscono poco da quelle degli americani, così come non bisogna pensare che il Male sia schierato solo da una delle due parti.
La vicenda ci narra dello scontro impari in cui gli statunitensi (equipaggiati molto meglio) sovrastano in numero gli orientali in proporzione di 5 a 1, e, nonostante l'evidente superiorità, le forze dello zio Sam impiegarono ben più dei cinque giorni stimati per impadronirsi dell'isola: l'irriducibile coraggio e abnegazione dei 20.000 soldati giapponesi (se ne salvarono poco più di mille) contribuì in parte alla decisione definitiva sull'uso dell'atomica.
La follia e l'insensatezza della guerra è tratteggiata in tutte le sue gamme di grigio, grazie ad una fotografia desaturata e monocromatica, salvo sporadici lampi di giallo/arancio (per il fuoco) e squarci di rosso (per il sangue). La toccante sceneggiatura, scritta a quattro mani da Iris Yamashita e dal premio oscar Paul Haggis (Crash), ci restituisce dei ritratti intensissimi e grondanti umanità, che Eastwood dipinge efficacemente ricorrendo a un massiccio uso del flashback. Nel cast spicca l'interpretazione del protagonista Ken Wtanabe nei panni del comandante assegnato alla difesa dell'isola con l'immane compito di resistere il più a lungo possibile. La sua è una figura sfumata nei dettagli e complessa, divisa tra l'appartenenza al credo imperiale e una cultura di più ampio respiro. E' a questo personaggio, con la sua dignità e il suo spessore morale, che il regista affida il compito di lanciare un messaggio che non scade mai in atteggiamenti predicatori.
Senza ipocrisie Eastwood lascia i dialoghi originali in giapponese ma non rinuncia del tutto al suo punto di vista di yankee, non a caso i portatori di vera pietas, e che hanno cognizione di ciò che sta intorno a loro accadendo, sono proprio il comandante e il barone, ovvero gli unici che parlano inglese, essendo stati negli USA, e che conoscono lo stile di vita americano.
A otto anni di distanza dal capolavoro panteistico e metafisico La sottile linea rossa di Terence Malick, Clint Eastwood torna a rivisitare l'inferno delle battaglie nel Pacifico con un film denso e toccante, un poema lucido e dolente che si fa al contempo fiction, documentario storico e profonda coscienza morale, in altre parole Cinema con la "C" maiuscola.



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Ci sono tanti modi in cui una persona si insinua nella vita di un'altra. A volte si tratta di un semplice sguardo, una curiosità spontanea e immediata che si rivela fatale. Altre volte, si tratta di un conoscersi lento e costante, fatto di piccoli momenti vissuti assieme. Nel primo caso, abbiamo un'esplosione di emozioni che travolge e annebbia la vista, come è stato tra Miyuki e Makoto, un'attrazione naturale che non ha niente a che vedere con l'incontro casuale di Makoto e Shizuru. Lui, un ragazzo riservato che trova conforto nella natura da fotografare; lei, Shizuru, è una ragazza dall'aspetto infantile, con dei modi particolarmente buffi che non hanno bisogno d'esser nascosti. Da uno sciocco pretesto, i due si scambiano qualche parola sul ciglio della strada di fronte alla loro università, nel primo giorno di lezione. Per Shizuru sembra un'occasione sufficiente per coltivare un'amicizia, e si fa avanti - quasi a spintoni - nella vita di lui, anche se Makoto non sembra propriamente entusiasta di questa intrusione aliena, ricca di stramberie. Shizuru ignora i timidi segnali di lui e lo segue. Si siede al suo stesso tavolo in mensa e rompe il ghiaccio con il suo vivace chiacchiericcio; gli sta alle calcagna durante le incursioni solitarie che Makoto suole fare nella foresta vicino all'edificio studentesco. Insomma, è una vera palla al piede, un peperino che non la smette di strofinarsi il naso e mangiare biscotti. Addirittura si munirà anche lei di una macchina fotografica!

Nel frattempo, il fascino di Miyuki ha senz'altro più successo. La ragazza mette gli occhi su Makoto, e gli farà da compagna durante la sua vita universitaria e non. Eppure, nel momento in cui la competizione tra le due ragazze sembra risolversi con la vittoria di Miyuki, quest'ultima viene eclissata. Con lei, Makoto si trova a vivere una vita che non è sua, anche se forse la desidererebbe e quindi si adegua. Si diverte in vacanza al mare e passa il tempo a ridere con i suoi nuovi compagni... Ma il sapore della novità ha vita breve.
Quando la magia finisce e si ritorna alla vita reale, ci mancano i nostri luoghi sicuri, le persone con cui ci sentiamo a nostro agio e che distruggono le nostre barriere - persone che vanno oltre la nostra apparenza, persone con cui non ci sentiamo mai sulle spine. E si torna a parlare di Shizuru. I sentimenti verso di lei sembrano esser stati covati senza alcuna consapevolezza di ciò. Si insinuano così subdolamente da non fare percepire a Makoto quel qualcosa in più nel loro legame. La situazione ha bisogno di sbloccarsi, e così avviene.

Un bacio, un bacio regalato a Shizuru per il suo compleanno, un bacio funzionale a uno scatto fotografico, nel bel mezzo della foresta dei loro ricordi: lì, avviene una magia più potente e coinvolgente dell'avvenenza di Miyuki. L'incantesimo d'amore che sprigiona qualcosa dall'intreccio di due persone che vivono assieme, che condividono uno stesso hobby, che conoscono le qualità e i difetti l'uno dell'altra, e che parlano con franchezza.
Quando i protagonisti suggellano il loro amore, il tempo sembra fermarsi per tutta la durata della scena... e poi la natura continua a vivere. Le acque delle sorgenti scorrono, gli uccellini volano, l'erba ondeggia sotto le sferzate di vento e Makoto è stordito! Si fanno più chiari in lui i sentimenti che da lei erano stati dichiarati sin da subito. Ma dov'è Shizuru? E' scomparsa assieme a quel momento.

La peculiarità di questa storia - che nasce in maniera spensierata - sta nel ruolo centrale svolto dalla fotografia. Oltre all'essenza di questo hobby che caratterizzerà il finale del film, ci sono dei veri e propri sfondi suggestivi e funzionali alla storia per tutta la sua durata. Al di là della New York vista dagli occhi di Makoto e della foresta degli incontri con Shizuru, c'è una ricostruzione ad arte della quotidianità di lui vista dagli occhi e dall'obbiettivo fotografico di lei. Quegli scatti di Shizuru e la reazione che lui avrà verso di essi riusciranno a esprimere l'anima di quest'amore che non ha avuto modo di sbocciare appieno. E' la prova che spesso le immagini riescono a comunicare più delle parole, creano il senso dei legami e inviano scariche emotive che, se esplicate a parole, potrebbero sfumare d'intensità. Ed è proprio con una serie di immagini che si concluderà l'incantevole storia di "Heavenly Forest", con un finale commovente che si carica di improvvisa emotività.