Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo ai live action, con 2046, Avalon e Gyakuten Saiban - Ace Attorney.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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8.0/10
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Cyborg in love

Hong Kong, anni '60. Chow Mo-wan è uno scrittore tormentato dai ricordi che trascorre le sue pigre giornate scrivendo romanzi e le sue torride serate seducendo donne. Egli le frequenta senza impegnarsi troppo, perché in fondo al suo cuore rimane una sola donna da ricordare, Su Li-zhen. Qualche tempo dopo, in una Singapore buia e disperata, dove il gioco d'azzardo (e del destino) lo ha portato a nascondersi, Chow conosce un'altra Su Li-zhen; quest'ultima è un'ambigua giocatrice di poker che lo aiuta a ritornare a Hong Kong. Prima di lei però c'erano la sofisticata Lulu, dal fato tragico, la splendida Bai Ling, vicina di camera e di sentimenti, e l'inquieta Wang Jing Wen, figlia dell'albergatore, innamorata invano di un giapponese che solo nel futuro potrà confidarle il proprio amore.

2046 non è un remake e non è un sequel. E' lo sviluppo ideale del lavoro incessante di un regista, Wong Kar-wai, ormai dichiaratamente votato al genere del mélo passionale e appassionato. I rimandi, le coincidenze, le somiglianze con i precedenti lavori del regista sono lampanti ed espressamente riconoscibili, in particolare con Days of being wild e In the mood for love, ma di quest'ultimo non costituisce un seguito, come si potrebbe pensare, bensì una negazione, carnale e complementare, l'altra faccia di una medaglia imbevuta nella stessa vena di malinconico struggimento. Strettamente identici rimangono soltanto i nomi, mentre i personaggi in sostanza sono l'esatto opposto, fisici e viscerali rispetto ai loro archetipi: il protagonista è radicalmente mutato nel carattere (qui si atteggia a playboy mondano laddove nel precedente film era timido e riservato), e il tema dell'erotismo, prima sottilmente velato, è ora esaltato su vari livelli.

L'inizio shock, con una spiazzante scenografia cyberpunk in computer grafica e le esagerazioni cromatiche di un Christopher Doyle al cubo, fa subito presagire un cambiamento nel registro, nella forma, nella misura, nel modus operandi del cineasta e nella stilizzazione delle sue situazioni ricorrenti, portate all'eccesso, sensuale (prima) e romantico (poi).
Nostalgico e visionario, 2046 è un dramma erotico, pomposo, ieratico, ma al contempo aggraziato e trascinante nel suo languido alternarsi di memorie passate e fantasie future. La voce off culla lo spettatore in un "non luogo" di fragorosa risonanza, in un domani impossibile che, come nel caso del primo handover, non porta a chissà quali grandi cambiamenti, ma lascia che la storia si ripeta e l'immanenza delle cose continui a imperare. E' l'ego interiore dell'uomo a divenire prototipo, volutamente stereotipato e di maniera: Tony Leung (attore feticcio di Wong) è un Clark Gable cinese, sornione e sicuro di sé, un latin lover sui generis dal fascino malinconico che riflette sui suoi errori ed è squassato da lampi di vitalità e di ossessione amorosa.

La frammentazione del racconto e l'istintiva sensazione di fuggevolezza sono un modo per narrare le mille e una storia che si intrecciano, si richiamano, fra ricordi e fantasie, fra passato e avvenire, in un continuum spazio-temporale privo di contorni definiti. Di conseguenza l'imprecisione e l'irrazionalità in questo caso sono un pregio e non un difetto, anche se in netto contrasto con la lucida, compassata linearità di In the mood for love, in cui lo slancio estetizzante e la ricerca di perfezione stilistica non erano così estremi ed esasperati da rischiare di sfociare nell'auto-manierismo.
Come nei suoi film precedenti Wong continua a ripercorrere strade musicali perdute, riscoprendo arie d'opera (Casta Diva dalla Norma di Bellini) e alcuni standard radiofonici degli anni '60. Ma la colonna sonora prende letteralmente il sopravvento con il bellissimo e struggente tema principale di Shigeru Umebayashi e Peer Raben, che ribadisce l'intento di ibridare il film con suggestioni sonore internazionali (Cina, Francia, Italia, Spagna, Giappone, Hong Kong). Contemporaneamente macina chilometri di pellicola grazie alla direzione artistica di Alfred Yau e al montaggio discontinuo e atemporale del solito William Chang.
Wong si conferma un maestro nel dirigere le attrici (e non solo), a partire dal fugace cameo della sua musa Maggie Cheung e dalla partecipazione amichevole di Gong Li (che aveva già collaborato con lui ne "La mano", terzo episodio di Eros), fino ai vertici di recitazione di una strepitosa Zhang Ziyi, mai così brava finora, e di Carina Lau, diva poco casta dal corpo peccaminoso di un reato morale ripetuto all'infinito.



9.0/10
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2001, Mamoru Oshii torna sul palcoscenico internazionale con una nuova opera: "Avalon". Questa volta il "maestro" si destreggia nel girare un film in "carne e ossa", anziché animato, e la sua mano è chiaramente visibile anche solo per quanto riguarda le inquadrature, il ritmo lento e lo stile minimale (senza dimenticare l'immortale "Bassethound").
Tuttavia è il lato tematico quello che rispecchia maggiormente l'influsso artistico da parte dell'autore. Oshii sfodera le sue lame più affilate e le fa danzare assieme, nuovamente, per colpire in modo incisivo e tagliente il cuore dello spettatore. Non penso che corrisponda a empietà l'affermare che questo film riunisca la maggior parte dei suoi topoi più caratteristici, dalla critica sociale all'indagine dei sensi attraverso la realtà virtuale. Nondimeno, ciò che è vecchio e ciò che è nuovo qui si mescolano, dando vita a un film estremamente brillante e piacevole da seguire.

Il lungometraggio esordisce presentandoci un mondo dalle tonalità opprimenti, il seppia adempie egregiamente a questo ruolo, così come gli ambienti spogli e scarni e la presenza di comparse fredde e immobili. Si tratta di un mondo morto, afflitto da un costante e attonito silenzio.
In questo contesto si muove la protagonista, Ash, algida bellezza sullo stile del Maggiore Kusanagi, eroina in un "gioco" che prevede l'immersione totale del player nella realtà virtuale: Avalon. L'intera vicenda gira attorno al mito della famigerata Classe "A special", un ulteriore livello di gioco solo per i veterani più incalliti, la terra promessa di ogni giocatore. Questa è la base di partenza per un viaggio che, impensabilmente, approda molto più vicino a "noi" di quanto possiamo inizialmente sospettare.

Per i "veri" giocatori Avalon non è un mezzo, è un fine. Si può dire che molti ne siano dipendenti, tanto che cercano di sopravvivere solo con quello che guadagnano dalle missioni. La classe "A special" è, simbolicamente, la sublimazione massima di questo processo di progressiva alienazione, il cui motore è la necessità di una fuga dal livore della realtà "vera". La finzione prende il posto della realtà e, viceversa, sulla realtà viene calata la "corona dell'oblio". Così si attua l'inversione, ed è il mondo della classe "A special" a risplendere di colori, a traboccare di vita, di risate e di persone. Qui acquisisce di senso la contrapposizione del seppia del mondo iniziale e i colori della classe "A special". L'ultimo stadio del gioco è effettivamente il gioco che diventa la "realtà", mentre il luogo che ci si è lasciati alle spalle appare come una squallida discarica senza vita. Rimarchevole a tale proposito la differenza tra le metropolitane dei due mondi, l'una piena di vita e di colore, ma virtuale, l'altra triste e immota, ma reale. Cosa trattiene tutti quegli uomini nel loro stato vegetativo mentre permangono in Avalon? Alla fine la verità è che la realtà virtuale finisce con l'essere percepita come più vivida di quella vera, il problema dello stabilire se essa sia reale o meno è solo una nostra ossessione. "La realtà non è forse il luogo dove credi di esistere?" L'alienazione è totale, non per nulla Murphy cammina in bilico sull'orlo della follia, incapace di verificare se si trova all'interno del gioco o meno, di distinguere virtuale e reale. Poiché nel gioco ha trovato una realtà "migliore" di quella cupa e senza scopo da cui proviene. Per lui non è più solo virtuale, ma è la vera realtà, poiché la considera tale. Questo è il culmine dell'esistenzialistico viaggio della nostra eroina, il cui destino non ci è dato sapere: il finale infatti è totalmente aperto e lascia allo spettatore la chiave per completare lui stesso la vicenda.

Si fa strada dunque una possibile e ulteriore linea interpretativa del tutto attuale rispetto alla nostra società, gradualmente sempre più dipendente e integrata alla rete e al mondo virtuale. Si pensi, ad esempio, alle comunità virtuali, ai forum, ai fenomeni di social network, che costituiscono a tutti gli effetti delle realtà dove le persone si conoscono, interagiscono, si può dire: vivono. Questi surrogati di realtà sempre più spesso diventano un rifugio dalle preoccupazioni della vita di tutti i giorni per un grande numero di persone, offrono un luogo dove sfogarsi, dove dire tutto quello che si pensa dietro l'anonima faccia senza volto di un avatar. Quante persone vivono una vita completamente diversa nella rete? Senza le inibizioni sociali possono esprimersi senza dover temere il giudizio degli altri, coltivare amicizie virtuali e non solo. Il virtuale diventa ben più di un luogo che simula la realtà, diventa per molti fuga ed evasione, diventa la loro verità, diventa il loro Avalon. Visione che rende quasi preconizzante quest'opera.

Si sbaglia di grosso chi afferma che questo sia il "Matrix" dell'oriente, i due film non potrebbero essere più diversi: "Avalon" è l'anti-Matrix par excellance. Difficilmente potrei immaginare un film più distante dai canoni hollywoodiani, non ci sono combattimenti inutili, effetti spettacolari o teatrali. "Avalon" è un film intellettuale, lento e molto complesso, e tratta le tematiche in modo opposto al film dei fratelli Wachowski.

In conclusione, "Avalon" è un film che mi sento di consigliare solo agli appassionati del cinema di Oshii, si tratta di un'opera che contiene, in più di un senso, l'essenza di questo autore, e per essere apprezzato al meglio si dovrebbe avere già esperienza di qualche altra sua opera e film. Propedeutici alla visione di "Avalo"n potrebbero essere "Ghost in the Shell" e "Jin Roh", l'uno dal quale si attinge la questione della realtà virtuale, l'altro che si affilia alla tematica di feroce critica sociale, in cui si mostra la disumanizzazione dell'uomo attanagliato dalle spietate e meccanicistiche dinamiche sociali.



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Se c'è un genere cinematografico con cui è meglio non avere a che fare è proprio quello delle trasposizioni videoludiche: nel migliore dei casi si può tirare fuori un "Silent Hill" (2006), ma di norma il trend si assesta su livelli infimi/imbarazzanti (chi ha detto "Street Fighter"?). Il nostro Takashi sarà riuscito a non cadere nella trappola? Andiamo a vedere.

Ci troviamo in Giappone, in un futuro prossimo, dove la criminalità è aumentata esponenzialmente: per far sì che la giustizia rimanga al passo, viene istituito un nuovo sistema giuridico, il processo breve della durata di tre giorni. Dopo aver difeso il suo vecchio amico Masashi Yahari/Larry Butz da un'accusa di omicidio, Ryuichi Naruhodo/Phoenix Wright (giovane avvocato dall'improbabile pettinatura e dal grande senso di giustizia) dovrà far luce sull'assassinio del suo capo Chihiro Ayasato/Mia Fey, del cui omicidio viene accusata la sorella Mayoi Ayasato/Maya Fey. Nonostante l'accusa sia incarnata dall'esperto e brillante procuratore Reiji Mitsurugi/Miles Edgeworth, il giovane avvocato riesce a ottenere un verdetto di non colpevolezza per la sua assistita, ma da quel momento avrà modo di far luce su vecchi misteri finora rimasti sepolti.

Se avete giocato al titolo in questione, noterete come la trama sia piuttosto aderente al gioco di casa Capcom: si tratta infatti di un adattamento pedissequo, senza quel colpo di genio, quella sferzata, che ti aspetteresti da Miike. Ma nella smisurata filmografia del regista giapponese ci sta che vengano realizzati titoli meno personali e più deboli dal punto di vista dell'intensità. No, in realtà il grosso del problema è un altro: ciò che effettivamente getta "Gyakuten Saiban" nel limbo del fallimento è la struttura narrativa che manca di coesione, rendendo il film poco compatto e più simile a un grosso riassunto di una serie televisiva. Non per niente, il gioco possiede un'impostazione a episodi, caso per caso, ed era forse la TV il veicolo più adatto per trasporre in live action questo titolo. Non solo, ci sarebbe stato molto più tempo per approfondire degnamente i personaggi, che, in questa pellicola, rimangono cristallizzati nella loro caratterizzazione videoludica, privi di un qualsiasi guizzo, se non magari nel confronto finale tra Naruhodo e Karuma/Von Karma, un pelo più intrigante rispetto al resto dei noiosi dialoghi.

Si diceva di come si segua passivamente la trama originale, dal che ne deriva un annullamento dell'immedesimazione dello spettatore nella vicenda. In "Gyakuten Saiban" risulta tutto terribilmente vuoto: non leghiamo con i personaggi e non si sente la minima tensione (e per un film che dovrebbe invece trasmettere della drammaticità non è cosa buona). E' dunque solo estetica e nient'altro? Diciamo di sì, tra l'altro nemmeno troppo convincente: per quanto la messa in scena sia estremamente curata, infatti, risulta eccessivamente patinato e fittizio. La mano di Miike si sente poco, giusto nell'abilità di mantenere a livelli accettabili la soglia di interesse, senza cadere nella tentazione di premere STOP e fare qualcosa di più costruttivo.

Capitolo attori: come cosplayer sono veramente fantastici. Ma, ehi, non stiamo parlando di una fottuta gara di cosplay, quindi facciamola breve e diciamo che nel loro piccolo si impegnano un po' tutti (chiaramente non vi dirò che non troverete interpretazioni da Oscar, perché, beh, non sono interpretazioni da Oscar), pur con risultanti altalenanti. Tanto per dire: Narimiya si adatta bene al ruolo del protagonista, ingenuo e simpatico quanto basta, mentre Saito (Mitsurugi), pur essendo un miscasting clamoroso, fa il suo mestiere, dando al personaggio quell'aria altezzosa e orgogliosa che tanto lo contraddistingue nel gioco; adorabile la Kiritani (Mayoi Ayasato), per quanto la sua prova attoriale sia più giusto definirla "ingessata", mentre poco convincente e poco spietato il Karuma di Ishibashi, troppo anziano e 'pacioccoso' per esprimere una reale minaccia ai danni dei protagonisti.

Per il giocatore si tratta insomma di un prodotto poco interessante, la cui visione non lo lascerà di certo esaltato. Per lo spettatore che non conosce il gioco, si tratta di una pellicola discreta dal punto di vista estetico, ma dalla sostanza praticamente nulla.