Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo ai film Venus Wars, Summer in Andalusia e Fuse: Teppou Musume no Torimonochou.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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4.0/10
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Nel 2003 il pianeta Venere, colpito da un asteroide, subisce grandi sconvolgimenti naturali che cambiano profondamente la sua geografia e la sua composizione, tanto che ottant'anni dopo la razza umana l'ha già colonizzato e reso abitabile. La guerra, virus dell'umanità, non risparmia però neanche lui: presto scoppia un conflitto tra le due super potenze del pianeta, Ishtar e Aphrodite, coinvolgendo tutta la popolazione venusiana, tra cui il motociclista Hiro e i suoi amici.

"Record of the Venus Wars" rappresenta a tutt'oggi una delle più rappresentative opere cartacee del maestro Yoshikazu Yasuhiko. Serializzato a fine anni '80 sulla rivista Comic Nora, è un manga fantascientifico che trova grande forza nel suo affascinante background politico/geografico, in questa crudele guerra venusiana vissuta dagli occhi del giovane ribelle Hiro, successivamente integrato nei ranghi militari e spedito in prima linea dove diventa uomo. Un conflitto vissuto senza il consueto apparato epico/eroico, ma presentato in tutto il suo malvagio realismo, con eroi che non devono vincere le battaglie ma solo sopravviverle, non devono essere risolutivi ma solo fare il loro onesto dovere, e vedono coi propri occhi gli effetti sociali più eclatanti. Una grande epopea fantascientifica, influenzata nei suoi tratti dalla Guerra Fredda, il cui secondo arco narrativo si trasforma addirittura in un thriller urbano, con uno dei soldati dello stato vincitore che scatena una guerra privata contro il suo comandante supremo. Tutto disegnato da un Yas allo stato dell'arte per quel che riguarda il suo evocativo tratto pittorico. Disponibile in Italia in una splendida edizione Magic Press, "Record of the Venus Wars" è una lettura a cui nessun appassionato di fantascienza e fumetto può sottrarsi. Evitabilissimo invece, ai limiti del dovere morale, il lungometraggio scritto, diretto e disegnato dallo stesso Yas nel 1989 e basato malamente sui primi due volumi. La ragione è che l'autore, tentando di celebrare la storia, non solo realizza un film mal riuscito, ma fornisce anche un poco raccomandabile biglietto da visita per il successivo recupero della fonte originale.

Dai primi due tankobon Yas pesca alcuni personaggi, ne elimina altri, ne inventa di nuovi e infine ci ricama sopra un intreccio inedito con pochissimi punti in contatto con l'originale. Visto dopo aver letto il manga il film è orribile, ma anche preso a sé come opera indipendente è men che mediocre. La nuova vicenda inventata è senza logica, con quasi tre quarti di durata complessiva retti sull'accavallarsi di situazioni e dialoghi futili, che cercano di umanizzare il conflitto approfondendo la vita privata di Hiro e altri personaggi a contatto con la guerra dalle retrovie, come semplici spettatori passivi, che discutono di essa con amici e fidanzate. Peccato, però, che tutto abbia zero ripercussione sulla trama portante, che ha luogo giusto quando il lungometraggio si riallaccia fedelmente al fumetto, in quegli ultimi venti minuti dopo che Hiro entra nella formazione Hound dell'esercito di Aphrodite, partecipando a una singola battaglia. Basta.

I difetti di "Venus Wars" film sono tanti, riassumibili, oltre che nell'inconsistenza di buona parte della sua durata, priva di reale senso visto tutti gli spunti sociali evocati e lasciati a sé stessi, anche nella mole di personaggi pessimi, per la maggiore quelli creati appositamente nel lungometraggio. Mi riferisco al generale di Ishtar Gerhard Donner, ridicolo villain/macchietta che sostituisce il Dungbarth Rado del manga (completamente eliminato per chissà quale ragione), ma sopratutto all'insopportabile Susan Sommers, svampita giornalista che fin dalle primissime fasi fa decadere l'impianto realistico della vicenda coi suoi tremendi lamenti in situazioni improponibili (perché non mantenere il bel personaggio della diplomatica Helen McLucie su cui è basata?). E, accanto ai tremendi personaggi inediti, persino quelli originali sono snaturati. I più eclatanti sono gli amici di Hiro, nel manga teppistelli come lui e il cui scopo è di far risaltare la sua maturazione a contatto con la guerra - stentano a riconoscerlo quando lo vedono cambiato dopo un periodo di battaglie in prima linea, i loro mondi ormai sono ben distanti e ormai impossibili da riconnettere -, nella controparte animata pure loro diventano militari perdendo ogni minimo senso d'esistere.

Davvero discutibile, infine, la conclusione, velocissima, banale, per certi versi addirittura criminale per gli assurdi, contradditori cambiamenti operati all'originale, tra cui la vincita della fazione "opposta" a quella del fumetto. Improponibile per i fan del manga, il film di "Venus Wars" potrebbe stregare giusto i maniaci della tecnica, quelli che dietro il nome del regista, le fantastiche animazioni, i magnifici disegni, a opera dello stesso Yas, e alcuni innovativi connubi visivi (la fusione tra disegni a mano e veri inserti live, usati un paio di volte per filmare alcune perlustrazioni in moto) rimangono facilmente incantati. Peccato che, a prescindere da questo, "Venus Wars" è esageratamente lungo, privo di senso per buona parte della sua durata, troppo inutile con quelle sottotrame risibili, scritto in maniera ridicola e con un Hiro appena abbozzato che tradisce l'originale. Giusto un capolavoro di tecnica, ma che nasconde una delle peggiori sceneggiature che si ricordino nei film d'animazione di quegli anni. Tanto che, giustamente, "Venus Wars" si risolverà in un ennesimo risultato modesto al botteghino, il terzo dopo "Crusher Joe" e "Arion", tanto da convincere Yas ad abbandonare la carriera di regista cinematografico. A posteriori, non una cattiva idea.

Come chiodi sulla bara per il pubblico italiota c'è da citare il doppiaggio nostrano: sembra quasi si siano messi d'impegno nello scegliere le voci più svogliate, irritanti e fuori personaggio di sempre, uno stupro sonoro senza eguali nel mondo dell'adattamento italiano (pari solo, forse, a quello di "Ken il guerriero: Il Film") che rende indispensabile, pena travaso di bile, usare audio originale e sottotitoli.




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Ci sono sport in cui il confine tra competere per sé e competere per il raggiungimento di un obiettivo condiviso è più labile che in altri. Il ciclismo è uno di questi: fai parte di una squadra, ma al tempo stesso non sei la squadra. Quale che sia il tuo ruolo, quali che siano le direttive a cui devi sottostare rimani pur sempre un atleta, e un atleta si sente realizzato solo quando vince. Nessuno vuole vivere una vita da gregario, nessuno vuole vedere vanificati i propri sforzi; avere successo equivale a costringere il mondo a riconoscere la tua esistenza, e se il mondo crede in te, tu stesso ci crederai un po' di più. La semplicità con cui "Melanzane - Estate in Andalusia" affronta questa tematica, peraltro calandola in un contesto non meno complesso, non potrà non conquistare anche chi, come me, non segue questa particolare disciplina sportiva, che pure un tempo faceva sognare l'Italia intera.

Un atleta incapace di gestire lo stress è un atleta finito, un po' come un attore che si lasci sopraffare dalla paura del palcoscenico. Tuttavia è praticamente impossibile non provare alcuna emozione nei riguardi della cosiddetta gara di casa, perché fallire proprio dove tutto ha avuto inizio sarebbe troppo doloroso.
L'idea di dover attraversare il suo odiato paese natale non sorride a Pepe, ruota di scorta obtorto collo di una squadra che difficilmente gli rinnoverà il contratto, anche perché quello stesso giorno suo fratello Ángel convolerà a nozze con quella che, in origine, era la sua ragazza. Gli ordini di scuderia prevedono che si limiti a spianare la strada al proprio compagno per permettergli di vincere, ma quando per uno scherzo del destino si ritroverà ad essere lui l'uomo da battere dovrà dar fondo a tutte le sue riserve - fisiche e non - per dimostrare agli sponsor e a se stesso di non essere ancora arrivato al capolinea.

La storia scorre su due binari complementari: il primo segue Pepe ad una ravvicinata ma rispettosa distanza, mentre il secondo ci racconta di lui dal punto di vista di familiari e compaesani, che gli augurano con tutto il cuore di riuscire a diventare un grande ciclista. Per far sì che queste due prospettive si incastrino ad arte è necessario ricorrere di tanto in tanto ad un pizzico di esposizione (altrimenti detta "info-rigurgito" nel caso di un suo sconsiderato utilizzo), sia di carattere tecnico che di carattere puramente narrativo, ma nulla di così invasivo da minare in maniera significativa la godibilità dell'intreccio, perfetto nella sua studiata ma tutt'altro che legnosa essenzialità.

Un altro punto forte dell'opera è senza dubbio l'introspezione psicologica dei personaggi. La perenne insoddisfazione di Pepe è perfettamente comprensibile per lo spettatore, che tuttavia spera che prima o poi si accorga di quanto Ángel, Carmen e tutto il suo paese nutrano per lui un affetto sincero - affetto che il ragazzo, troppo preso dalle sue vicissitudini professionali, certamente subodora ma non riesce ad apprezzare né ad ammettere di ricambiare. E poi c'è l'Andalusia stessa, terra bellissima e capricciosa che forse gli ha fatto il regalo più bello di tutti: no, non le melanzane del titolo, bensì il sacro fuoco dell'ambizione, della voglia di spingersi laddove nessuno - perlomeno di sua conoscenza - ha mai osato anche solo sognare di arrivare.

Anche il comparto tecnico non delude: sono convinta che ogni paese abbia una sua aura cromatica, e quella di "Melanzane" corrisponde esattamente a quella che associo e assocerò sempre alla Spagna. È stato il primo aspetto che mi è saltato all'occhio e di cui, probabilmente, conserverò il ricordo più accurato. Il character design sa forse di già visto, ma al tempo stesso riesce a trasmettere un'idea di simpatica familiarità che va meravigliosamente a braccetto con la "straordinaria ordinarietà" dei personaggi: oserei dire di essere rimasta intenerita da particolari come gli occhiali da vista di Pepe, così come ho apprezzato molto la bellezza per nulla aggressiva di Carmen e del suo semplicissimo vestito da sposa.
Animazioni e regia sono piacevolmente discrete, non nel senso di mediocri, bensì che lasciano respirare la storia proprio come ci si aspetta che facciano. Buono anche il sonoro, con delle musiche decisamente d'atmosfera (del resto non approfittare in tal senso della ricchezza folkloristica del setting sarebbe stato da sciocchi) e un doppiaggio italiano che, oltre a conferire la giusta espressività ai personaggi, si sforza persino di non martoriare la fonetica spagnola, complice forse il fatto che il cosiddetto seseo, ovvero la tendenza a pronunciare le c e le zeta dolci come se fossero delle esse, è proprio originario dell'Andalusia. Ma attenzione: questa deformazione linguistica, così comune nei paesi dell'America Latina, in patria è considerata sinonimo di ignoranza, un po' come succede nello stesso Giappone in cui, a causa del loro particolarissimo dialetto, gli abitanti della città di Osaka hanno la nomea non essere granché intelligenti.

Quale che sia sia la vostra posizione nei confronti del ciclismo, quindi, se vi avanzano quarantacinque minuti di tempo provate a dare un'occhiata a questo mediometraggio. Non lo considererei un vero spokon, perciò escludo che possa convertire chicchessia a questo sport, ma è certamente in grado di intrattenere.



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"Si dice che un cacciatore e la sua preda siano uniti da un legame invisibile. Nel momento in cui quel legame si stringe, i loro cuori si connettono, unendoli l'uno all'altra per sempre".

Inizia con queste parole la storia di Hamaji, una giovane cacciatrice cresciuta sulle montagne assieme al nonno. Dopo la dipartita di questi, il fratello Dousetsu la invita a raggiungerlo in città, per vivere assieme a lui come una vera famiglia. Hamaji raggiunge quindi Edo, scoprendo un mondo nuovo, vivace e colorato, diverso dalle montagne in cui aveva vissuto fino a quel momento. Appena arrivata, si scontra con Shino, un misterioso ragazzo dai capelli scintillanti che scompare subito dopo averla accompagnata a casa del fratello. Dousetsu però, non ha chiesto ad Hamaji di andare a vivere con lui solo e soltanto per puro affetto fraterno, ma anche per usufruire delle sue doti di cacciatrice; in città si aggirano delle creature, mezzi uomini e mezzi cani, dette "Fuse" che depredano, uccidono gli uomini e ne mangiano l'anima. Eliminare questo flagello significa ottenere una lauta ricompensa nonché fama e notorietà.

"Fuse: Teppou Musume no Torimonochou" (ossia "Fuse: le memorie della cacciatrice") rielabora alcuni elementi di "Nansou satomi hakkenden", famoso romanzo ottocentesco scritto da Kyokutei Bakin, riproponendoli in chiave favolistica e romantica. Il film, uscito nell'Ottobre del 2012 nella sale Giapponesi, è tratto dal romanzo di Kazuki Sakuraba, già autrice delle novel di "Gosick", e si avvale della regia di Masayuki Miyaji. In poco meno di due ore, "Fuse: Teppou Musume no Torimonochou" racconta l'incontro e lo scontro tra due mondi differenti, quello degli uomini e quello dei Fuse, due mondi che sembrano non poter convivere data l'incompatibilità della loro stessa natura. Hamaji è una cacciatrice, sa benissimo cosa significhi uccidere, ma nel momento in cui si ritrova davanti ad una preda che non esita a manifestare i propri sentimenti, i sogni, l'amore e le speranze ormai perdute, il suo cuore vacilla e tutto ciò che la vita sulle montagne le ha insegnato, sembra perdere di significato. E' nel momento in cui si appresta a uccidere un Fuse che Hamaji inizia a capire davvero cosa significhi quel legame che unisce preda e cacciatore. In un mondo dominato da tanti vizi quante virtù, Hamaji e Shino lottano e amano, vivono e tolgono la vita e quando arriva il momento di schierarsi dall'una o dall'altra parte, la scelta più sensata, quella guidata dall'amore, è di perdonare se stessi e tutto il resto del mondo, creando un vero, eterno legame tra preda e cacciatore, tra due vite che si uniscono fondendosi in un profondo abbraccio.
Il film è zeppo di riferimenti non solo all'opera di Bakin (che viene citata nella storia stessa), ma anche alla vita e alla cultura del periodo Edo. A tal proposito, ho apprezzato parecchio la scena della rappresentazione di Hakkenden ad opera del teatro kabuki.

"Fuse: Teppou Musume no Torimonochou" vanta un delizioso e delicato design dal gusto fortemente orientale. Sebbene i personaggi abbiano un chara molto semplice e per certi versi un po' grezzo, la cura degli sfondi e delle ambientazioni è maniacale, e ci permette di godere della vista di bellissimi ciliegi in fiore, di città illuminate da mille luci, di paesaggi notturni toccati dalla luna e di tramonti che sembrano riscaldare tutto ciò su cui posano lo sguardo. I colori sono forti e vibranti. La cura dei particolari ci permette quasi di assaporare il gusto dolceamaro di quell'epoca lontana, sembra di ritrovarsi a camminare assieme a Shino e Hamaji per le viuzze di Edo, con la voglia di esplorare un mondo tanto vasto e meraviglioso, così vivo e accattivante. Bellissima anche la colonna sonora che assieme alla sopraccitata grafica, permette di immergersi in questo mondo bello e crudele, che riesce a coinvolgere emotivamente lo spettatore. Molto buono anche il doppiaggio, che vede al lavoro diversi nomi noti.

"Fuse: Teppou Musume no Torimonochou" è un bel film che potrei definire "tranquillo nella sua intensità", che non emoziona in modo sconcertante e non lascia né angoscia né lacrime, non annoia ma non esalta in modo esagerato, è fatto di emozioni forti ma composte e mai eccessive. La storia non racconta nulla di particolarmente nuovo, propone in salsa fantasy il classico scontro tra "razze", accompagnando il tutto con una storia d'amore semplice ma tenera, insegnandoci che due mondi apparentemente incompatibili possono coesistere, fosse anche solo nel cuore di chi ci crede davvero.
In un'epoca in cui sembrano scontrarsi continuamente il sentimentalismo becero e il cinismo di facciata, "Fuse: Teppou Musume no Torimonochou" propone una visione della vita romantica e idealista, ora forte ora gentile, ma comunque attenta alla realtà, che non ha paura di mostrare a fianco della tenerezza, scene cruente e sangue che sgorga. Strappare via una vita comporta sempre un'assunzione di responsabilità, perché quando un cacciatore insegue la sua preda, i loro cuori sono connessi e quel legame dura per sempre.