Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo a film anime, con i lungometraggi Kanashimi no Belladonna, Ashura e Utena - Apocalisse adolescenziale.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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"Kanashimi no belladonna", alias "Belladonna della tristezza", è una rilettura dell'emancipazione femminile in chiave psichedelica e post-moderna. Concepito originariamente da Osamu Tezuka e diretto da Eiichi Yamamoto, questo film è l'ultimo della trilogia Animerama, comprendente "Cleopatra" e "A Thousand & one Nights", entrambi diretti da Tezuka stesso prima del suo abbandono della Mushi Productions per dedicarsi completamente ai manga. Misconosciuto e intellettualoide capolavoro visivo anni '70, "Kanashimi no belladonna" è un concentrato di arte visuale decisamente d'avanguardia.

In un medioevo atavico ed archetipale, la bellissima Junnu vuole sposare un pover'uomo, Jun, che non è in grado di pagarsi la dote. Il feudatario locale, evidente simbolo dell'opprimente potere patriarcale, dopo aver rifiutato la cerimonia con una perversa forma di "jus primae noctis" violenta e fa violentare dai suoi accoliti la promessa sposa. Nella sua disperazione Junnu entra in contatto con un demone di forma fallica simboleggiante la volontà di potenza ed il progresso socio-culturale, fattori che permettono alla donna di acquisire l'indipendenza e la libertà sessuale. La vicenda si evolve attraverso un viaggio lisergico pieno di citazioni alla pittura di Klimt, all'elegante tratto di Guido Crepax e ai vari stili di pittura moderni (graffiti, acquarello, pastello...) Il finale è sconcertante e denso di simbolismi e molteplici livelli di lettura.

Composto prevalentemente da veri e propri quadri, "Kanashimi no belladonna" gioca di contrappunto con la staticità dei frame immobili di sovente "squarciati" delle poche scene effettivamente animate, metafore del moto assoluto indotto dalla volontà che s'incarna in falli, fuochi ardenti e richiami orgiastici. E' comunque errato catalogare questo film come hentai, in quanto il nudo viene presentato in modo puramente artistico e simbolico. Si assiste infatti al trionfo della bellezza delle forme femminili, all'eleganza e alla meraviglia del rapporto sessuale inteso come estasi dello spirito e dei sensi.

Punto di forza del lungometraggio sono indubbiamente le musiche, in pieno stile rock progressivo anni '70 e reminescenti di Miles Davis, Gong (in particolare la triologia di vinili di "Radio Gnome") e primi Pink Floyd. "Kanashimi no belladonna" è infatti uscito nel 1973, in pieno climax da beat generation, contestazioni studentesche e indipendenza femminile.

Quando "Kanashimi no belladonna" sfocia nell'horror, lo fa con una moltitudine di colori e uno stile pittorico molto particolare, che penso abbia in parte ispirato le trovate grafiche della più recente serie animata "Mononoke", altro prodotto originalissimo che guardacaso è anch'esso un'analisi psicologica a tinte macabre e inquietanti sulla condizione della donna nella modernità.

In conclusione, "Kanashimi no belladonna" è un film d'animazione per tutti e per nessuno, pertanto è molto difficile assegnare una valutazione oggettiva. Sicuramente non è adatto al pubblico medio, essendo troppo erotico per l'audience infantile e troppo cerebrale per i cultori dell'eros. Questo fatto è testimoniato dal suo completo flop commerciale, che contribuì tra l'atro a mandare la Mushi Productions in bancarotta. Mi sento comunque di consigliarlo a chi ama il cinema sperimentale, a chi pensa di avere un po' di "estro artistico" e a chi apprezza il trionfante rock progressivo anni '70. Infatti vedrete scorrere nel film immagini simili alle copertine dei vostri LP preferiti: "Nuda" dei Garybaldi, "Climbing!" dei Mountain, "Felona e Sorona" delle Orme...



5.0/10
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Non solo periodo di battaglie leggendarie ed eroici condottieri, i torbidi dell'Epoca Sengoku nascondono, nei loro più oscuri meandri, una disturbante realtà: in un Paese martoriato da guerre intestine e catastrofi naturali, a fare da fosco retroscena alle gloriose gesta dei samurai sono infatti carestie, devastazioni e miseria. Un quadro dalla tinte fosche, che incornicia una greve disperazione, fatta di uomini senza prospettive, straziati e resi spietati da fame e privazioni, insensibili a qualsiasi solidarietà e dimentichi di ogni freno inibitore. Tra le lande desolate della Kyoto di fine '500, in un sordido tugurio, viene alla luce Asura, bambino-bestia che porta sul corpo le cicatrici di un'umanità ormai alla deriva: sopravvissuto a un prematuro destino di morte, ignaro di qualsiasi convenzione sociale, dovrà farsi strada attraverso gli orrori di un mondo sull'orlo dell'abisso, un mondo in cui una madre può pensare addirittura di cibarsi del proprio figlio.
Per un demone che parla solo il linguaggio della violenza - traslato fin troppo esplicito della natura umana - esiste possibilità di redenzione?

Ciò che a prima vista colpisce della pellicola diretta da Keichi Sato, già salito agli onori delle cronache per la regia di "Tiger & Bunny", è la scelta alquanto discutibile di animarla interamente in computer grafica. Se da un lato il non volersi affidare ai disegni tradizionali permette la realizzazione di notevoli effetti speciali e di fondali caratterizzati da un'estrema cura per il dettaglio, dall'altro presenta, soprattutto in relazione alle figure umane, animazioni legnose e innaturali, nonché una totale inespressività dei volti. Un autentico delitto, perché il sapiente utilizzo di una paletta di colori lividi e sanguigni ben si fonde con la follia delle vicende raccontate: tra lune immense, foreste spettrali, campi riarsi e tramonti fiammeggianti, le sensazioni trasmesse, soffocanti come la crudeltà dei temi trattati, si amplificano in iperboliche rappresentazioni. Pure gli accompagnamenti musicali, caratterizzati da una vena orchestrale assai ispirata, sanno esaltare l'atmosfera opprimente del film, ma, così come il setting, non trovano adeguata intensità nei personaggi, burattini senz'anima privi di forza comunicativa.

Nonostante le perplessità sulle scelte stilistiche, tuttavia, i maggiori difetti dell'opera si riscontrano nella sceneggiatura, incapace, a causa di una narrazione a tratti ridicola, di coniugare ambizioni speculative a una trama solida e verosimile. Se negli intenti programmatici c'era - e mi sembra piuttosto evidente - il desiderio di comporre un affresco storico refrattario a idealizzazioni, mi domando come sia stato possibile caratterizzare il protagonista in maniera così palesemente grottesca e 'fantasiosa': corpo ignifugo, resistente a rovinose cadute tra precipizi di roccia, capace di compiere balzi scimmieschi e dotato di una forza erculea, nonostante dimensioni fisiche lillipuziane. Tutte qualità incongrue con un realismo spesso cercato con morbosa insistenza, e inutili sul piano narrativo.
Ancora più incomprensibili appaiono però le forzature operate sulla crescita interiore del ferino Asura: da bestia assetata di sangue incapace persino di proferir parola, si scopre improvvisamente, ma senza giustificazione, fine disquisitore di concetti filosofici vertenti sulla natura umana e sul senso della vita. Riflessioni focalizzate sulla dualità dell'anima che si rivelano però piuttosto superficiali, e che raggiungono l'apice della banalità nella metaforica dicotomia tra paesaggi bucolici e scene colme di orrore.
Non danno un contributo apprezzabile nemmeno gli altri personaggi 'positivi', i quali, lungi dall'essere il sospirato appiglio di questo mondo disumanizzato, sembrano piuttosto mossi o da una patinata moralità (Wakasa) o da un desiderio di stupire totalmente fuori contesto (il monaco).

Potenzialmente interessante, "Asura" si rivela a mio avviso un'operazione mal riuscita, un'opera pretenziosa minata da un ingiustificato sensazionalismo e da trovate degne dello shōnen più ingenuo, difetti evidenti che ne offuscano la 'credibilità' storica ed etica. Si salvano alcuni arditi espedienti visivi, nulla più che un apprezzabile, ma impersonale esercizio di stile.



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Anno 1999: Kunihiro Ikuhara, regista di due stagioni di "Sailor Moon", sale sull'altare dei grandi registi con il capolavoro televisivo "La Rivoluzione di Utena", portando in animazione un nuovo modo autoriale di raccontare storie, in cui l'intreccio si dipana attraverso frequenti simbolismi e metafore che rivoluzioneranno completamente i canoni dello shoujo, rovesciando al contempo gli archetipi della fiaba classica. Il progetto del gruppo Be-Papas, di cui Ikuhara fa parte, consiste nel preparare un soggetto la cui storia verrà sviluppata differentemente in ogni media (serie TV, manga, film, videogiochi, etc.). Con "Utena la filettè revolutionnaire The Movie: Apocalisse Adolescenziale", il regista firma un remake cinematografico dall'esigua durata di ottanta minuti e che ha tutt'altro svolgimento rispetto alla serie televisiva, donando al mondo del cinema uno dei più grandi, eccentrici, anti-commerciali, anti-conformisti e visionari film d'animazione.

La storia prende spunto dall'incipit originale, mostrando l'arrivo di Utena Tenjo all'accademia Othori, dove incontra una ragazza di nome Anthy Himemiya, chiamata dai duellanti La Sposa della Rosa, e venendo da essi contesa come trofeo a seguito di un duello. Utena in modo rocambolesco riesce a battere lo sbruffone Sayonji e fa sua Himemiya: dovrà perciò proteggerla dalle mire degli altri duellanti e gestire quello che si annuncia subito un complicato rapporto.
Sebbene abbia fatto uno sforzo per redigere una breve sinossi, è estremamente riduttivo ridurre un'opera di tale portata a un breve riassunto.
La forza del film non risiede assolutamente nella sua trama, che è praticamente labile, per non dire inesistente, poiché l'architettura della pellicola si basa su una serie continua e suggestiva di flussi di immagini dalla forte carica visionaria. Non tutto ha un senso e delle volte il regista ci marcia benissimo sopra (vedere i siparietti delle ombre): se volete ricondurre tutto alla razionalità fallirete miseramente, il puzzle costruito non ha una forma univoca, ognuno può vedervi quello che vuole nella miriade di simbolismi e oggetti. Nonostante questo, la bravura del regista rende l'intera serie ben lungi dall'essere un vuoto contenitore, visto che in alcune scene chiave emerge chiaramente la sua visione. Infatti, l'accademia rappresenta chiaramente il luogo dell'ordine e del conformismo voluto dalla società, nel cui involucro tutti sono "morti pur restando in vita".

Come e soprattutto chi può uscire da questo mondo chiuso e soffocante? Il titolo del film "Apocalisse Adolescenziale" viene in soccorso allo spettatore. Solo l'adolescente e non l'adulto può cambiare lo stato delle cose, perché quest'ultimo è una persona già formata e insita nei grigi meccanismi di questo mondo. L'adolescente è una persona in cammino, che può sperimentare, valutare e quindi cambiare, plasmando continuamente la sua identità sessuale (nel film è questo lo scopo principale), politica, culturale e così via. Questa ribellione al soffocante conformismo sociale è ben rappresentata con la metafora della fuga in macchina da parte di Anthy e Utena, che si ribellano allo stato delle cose. Certo, la realtà può essere grigia, dura, inospitale e desolante, ma è il prezzo da pagare per poter finalmente vivere e abbandonare l'opprimente accademia. Spogliati da tutto ciò che si era in precedenza si è nudi in questo mondo senza alcuna strada tracciata, ma Utena e Anthy grazie al loro reciproco legame potranno affrontare questa desolante realtà e creare insieme una strada nuova.

Il film, a differenza dell'omonima serie TV, è un modo anche per scavare a fondo nel rapporto tra Utena e Anthy, il quale risulta sessualmente molto più esplicito. Seppur si presenti con capelli corti e abiti maschili, lontano da tutti e solo in presenza di Anthy, Utena si mostra tremendamente fragile e femminile. Anthy rispetto alla controparte televisiva è molto più disinibita e libera, ma allo stesso tempo schiava del suo ruolo di Sposa della Rosa. L'intero film può infatti anche essere letto in chiave fiabesca, in cui il principe (Utena) tenta di salvare la principessa (Anthy) dal castello in cui è rinchiusa (accademia).

Per quel che riguarda il comparto tecnico, si nota chiaramente il netto miglioramento rispetto alla povertà della serie televisiva. Se in quest'ultima Ikuhara poteva dare di certo sfogo alla sua visionarietà, certo era limitato dal basso budget concessogli, non di rado costretto a riciclare le medesime sequenze e a sopperire con la regia e giochi di luce agli sfondi carenti. Nel lungometraggio fortunatamente non è più così: grazie all'alto budget si resta ammaliati dall'alto sfarzo grafico e l'artista può dar sfogo a sequenze visionarie e oniriche molto suggestive, dando pieno sfogo al suo divino estro registico, avvalendosi di una messa in scena teatrale che brilla in scene di grande impatto come la sequenza del duello tra Juri e Utena, la fuga in autostrada di Anthy e soprattutto la scena clou del film, Akio che avanza a passo lento ma deciso e sotto di lui la strada scorre in senso opposto (una scena assurda e irreale, ma poco importa, perché il risultato di ciò è sicuramente riuscito).
Anche l'accademia, nonostante rappresenti il luogo dell'ordine, è rappresentata in modo scomposto, con le sue strutture che si muovono senza alcuna logica, forse simbolo dello stato d'animo degli studenti, ognuno dei quali cerca la propria identità in questo mondo.

Insomma, Kunihiko Ikuhara non si lascia piegare dalle logiche di mercato che negli ultimi anni hanno ridotto i registi a mere marionette nelle mani delle case di produzione, e crea uno dei film più anti-commerciali di sempre. Le sue opere sono anti-convenzionali e colme di una forte componente autoriale che costringe lo spettatore a sottostare alle sue regole, invitandolo ad andare oltre la propria convenzionale idea di cinema, pena restare chiuso e limitato nelle regole filmiche e seriali imposte dalle case di produzione. Ikuhara crea, dopo l'Utena televisiva, il suo secondo capolavoro, molto probabilmente il miglior film d'animazione degli anni '90, tanto da ergersi a emblema del cinema post-moderno.
Se vogliamo trovarvi un difetto, ma giusto uno, si può dire che, pur essendo un remake dell'omonima serie TV, il film non ne è indipendente: in esso ne sono ripresi termini e situazioni, rendendo di fatti un obbligo la visione del predecessore. Ma a parte questo trascurabile neo, chi ama Ikuhara e i film ermetici proverà immensa gioia nel decifrare i vari simbolismi (anche se a volte sin troppo estremi e non-sense); chi deciderà di non fare neanche un tentativo resterà chiuso per sempre nelle sue convenzioni, continuando a non andare oltre il proprio naso.