La vita è imparziale.
Ogni persona è importante per qualcuno;
a chiunque può capitare di cadere nel buio ed aver bisogno di ritrovare la luce.
Per quanto sia flebile, si tendono le mani verso quella luce,
ma non tutte le mani tese possono raggiungerla.
Si deve fare una scelta.
Coloro che decidono quali mani possono essere afferrate e tratte in salvo
non sono gli Dei.
Si chiamano DMAT.

Tokyo, anno 2004.
Sono trascorsi nove anni dai disastrosi eventi di Kobe del 1995, ma la ferita del grande terremoto Hanshin-Awaji è ancora aperta: l'impossibilità di dare assistenza immediata e concreta ai bisognosi di cure è un’onta indelebile, in un paese che fa dell'efficienza e dell'efficacia in ogni settore uno dei propri cavalli di battaglia.
Ed è proprio nella capitale che viene fondato il primo gruppo di DMAT - Disaster Medical Assistance Team, poi esteso ad altre grandi città nipponiche e prefetture, così come raccontato nell'omonimo seinen manga di Akio Kikuchi disegnato da Hiroshi Takano, quindi trasposto in telefilm dal vivo.
 

Si tratta di un team di specialisti in grado di fornire una risposta di pronto intervento sicuro ogniqualvolta si verifichino disastri di portata troppo grande per poter essere gestiti al meglio nei soli ospedali: terremoti, schianti di aeroplani, scontri tra treni, intossicazioni in luoghi pubblici.
Questi sono medici che accettano l'incarico su base volontaria, perché fare parte dei DMAT significa lavorare in luoghi dalla sicurezza precaria, in condizioni non asettiche, senza l'equipaggiamento adeguato a far fronte a tutte le emergenze del caso. Il triage, ovvero la determinazione della scala di priorità d’intervento sui feriti, è fondamentale,  ma l'improvvisazione lo è altrettanto.
 
"Se non possiamo contare sull'opzione migliore,
si deve agire con il meglio che si ha a disposizione"

Arisugawa General Hospital, Tokyo, anno 2014.
Per l'internista Yakumo Hibiki l'arruolamento nei DMAT è invece a dir poco forzato: il primario dell’ospedale, Katsuichi Isesaki, lo fa diventare parte del gruppo dietro l'assai poco velata minaccia di licenziamento. E Yakumo non può davvero permettersi di rischiare: in una piccola stanza privata di terapia intensiva, sua sorella Haruko dorme un sonno ininterrotto da circa un anno, una condizione di coma che lui stesso le ha inferto e che perdura dall'inaspettato aggravarsi delle condizioni con cui la ragazza era giunta tempo prima al pronto soccorso.
 
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Da allora, Hibiki non ha più messo piede nell'ala del Pronto Soccorso e ne ignora tutte le richieste di assistenza, diventando così bersaglio facile del biasimo dei colleghi. Nello stesso tempo, è un medico che lavora in maniera irreprensibile in reparti più tranquilli, là dove non rischia di commettere pesanti errori. Non fa pause, non torna mai a casa, non si prende ferie: la sua vita è tutta in ospedale, fatta di giorni tutti uguali a sé stessi e di notti trascorse su un divano nella stanza di Haruko, in attesa di un miglioramento, o anche solo di un impalpabile cambiamento del suo sonno, che però non giunge mai. Forse non si può chiamare vita, questa, ma per lui non ne esiste altra, all'infuori di un'eterna veglia accanto a colei che rappresenta la sua intera famiglia.

Yakumo non si lascia influenzare da nessuno dei casi che cura, ma non c’è da stupirsene. Per quanto non facilmente giustificabile, non è tanto arroganza la sua: nella vita non gli è rimasto molto per cui sorridere e questo lo fa sentire in diritto di rannicchiarsi nel proprio dolore e non farsi coinvolgere dai problemi degli altri, convinto che non lo riguardino affatto, che la cosa non rientri nei suoi compiti, che la sua sia una sofferenza inarrivabile.
Perché mai spingersi a fare di più?
Proprio l’atteggiamento indifferente e svogliato di Yakumo è alla base del suo ingresso nei DMAT, perché non si può chiamare “scelta”, quella di voltare le spalle a ciò che non si può arrivare a piegare del tutto al proprio volere.
Un DMAT non può perdere tempo a pensare: valuta razionalmente la situazione e il come agire, su chi intervenire e con quali priorità. Scegliere chi far sopravvivere è nient’altro che un calcolo di probabilità. Le vite da salvare si decidono nel giro di pochi istanti, come ricorda l’aforisma di Ippocrate, medico greco invocato durante la serie:
 
"La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione è fugace,
l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile."

E’ proprio su questo campo che la dura realtà scuote Yakumo come uno schiaffo: nemmeno un DMAT può sostituirsi al volere divino, e a volte non è comunque possibile salvare tutti.
Yakumo non è uno di quei medici ‘ingessati’ che ognuno di noi segretamente si augura di non dover incontrare mai: al contrario, egli lo fa per scelta e per passione, retto da motivazioni profonde e radicate che gli derivano direttamente dal suo passato. E' dotato di buon intuito, sa apprendere in fretta. Eppure tutto ciò sul “campo di battaglia”, come viene definito il luogo di un disastro, non basta a fare di lui un bravo medico.
Non solo egli mette in dubbio la fiducia nei confronti delle capacità dei colleghi del team, ma in più di un’occasione si fa prendere dal panico, è lento, incapace di valutare e operare. Le sue mani tremano, inutili anche solo per inserire correttamente un ago sottopelle. Ma non c’è mai abbastanza tempo, non ce n’è, e così Yakumo si scopre anche inaspettatamente talentuoso quando si tratta di improvvisare; quando a disposizione, per le emergenze, non si hanno che strumenti medici di base, anziché quelli che servirebbero per praticare interventi chirurgici o diagnostici sul campo.
 
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"Il dovere di un medico è duplice: salvare delle vite umane,
o consentire loro quantomeno di morire in pace.
Tu, oggi, hai salvato la sua anima."

Proprio quando inizia a saggiare le proprie potenzialità attraverso l’aiuto fornito ai DMAT, Hibiki viene messo di fronte alla prova più dura, quella di una morte indesiderata. Vorrebbe rifugiarsi in una realtà in cui il decidere della vita altrui non sia compito suo. Vorrebbe arrendersi, piuttosto di avere a che fare ancora con la sofferenza atroce che egli stesso può procurare, pur senza desiderarlo. Una mezza vittoria, per lui, non è che una sconfitta come le altre.  
Ma ormai Hibiki ha scelto di incamminarsi verso una nuova strada: stavolta egli rifiuta quel sé stesso che non è abbastanza abile per essere  un valido aiuto. Allora sceglie, con altrettanta tenacia, di non voler più assistere apatico e di frapporsi alla morte ogni volta che è possibile, anche quando non è più davvero possibile. “Bambi”, come lo definisce ironicamente Kozone-sensei, accetta finalmente di mettersi in gioco, di studiare senza sosta, di chinare umilmente il capo e diventare allievo di medici più in gamba di lui. Per poter fare di più, per non perdere altro tempo prezioso, per sostenere la vita nel modo più umano e sentito che esista.
 
"Io però lo voglio salvare."
"Il tuo, è egoismo."

E tuttavia, Yakumo Hibiki non rappresenta di certo la figura positiva dell’eroe.
Dapprima medico capace ma spaventato dalla morte, poi coinvolto nei DMAT al punto di andare contro le indicazioni dei propri responsabili e infrangere le regole più importanti per la sicurezza di medici e pazienti. Lui rimane ribelle e testardo; rifiuta di lasciare che le cose debbano andare come devono andare e continua a fare di testa propria, nel voler salvare vite mettendo a repentaglio sé stesso, la volontà del paziente, oppure battendosi contro le disposizioni morali di una società per la quale le vite da salvare non sono ‘politicamente importanti’ allo stesso modo. Una verità amara, da inghiottire lasciando da parte ogni sentimento di rabbia.
Ma nel suo ingenuo ergersi a baluardo di principi morali inattaccabili, Hibiki è un personaggio incredibilmente umano, e risulta così sin troppo facile immedesimarsi nelle sue paure, e condividere il suo rifiuto di deliberare a mente fredda l'azione sulla vita e sulla morte.
 
Tra visi sorridenti o arrabbiati,
troviamo il senso dello scorrere di queste lacrime.

Se il drama riesce con abilità a concentrarsi sulla figura di Yakumo senza appesantire la storia nel suo complesso né togliere spazio ai focus sui pazienti di ogni episodio, ciò è stato possibile solo in parte dalla discreta caratterizzazione fornita al protagonista da Tadayoshi Ohkura (Ohoku, Mikeneko Holmes no suiri, 100kai naku koto, Clover), qui al suo primo banco di prova in tal senso: la recitazione è apprezzabile e continuativa, mostra cenni di miglioramento costante ed è in grado di far affiorare lentamente alla superficie la figura di Hibiki, filo conduttore dell'intera storia.
Ma ben più che a Ohkura, il merito va all'ottimo lavoro svolto dal cast di attori a supporto: è attraverso il febbrile operato dei colleghi, e ai loro solerti  occhi, che assistiamo per davvero all'evoluzione di Yakumo. Nulla avrebbe potuto fare senza il sostegno e la rivalità degli elementi del team di cui entra a far parte non senza attriti, ed è davvero impossibile non affezionarsi alla silenziosa capo sala che ne intuisce il lucido potenziale, all'istancabile energia di Kozone-sensei, alla talentuosa figlia chirurgo del burbero e carismatico Isesaki; sino alla costante, dolce e mai prevaricante presenza dell'infermiera Rin, amica d’infanzia di Hibiki e suo continuo sprone e sostegno. Un cast, questo, che poco ha di presa popolare, e che semmai fornisce evidenza dell'abilità degli attori di lungo corso Jun Kunimura (Attack on Titan), Jiro Sato (Death Note, Beck, Densha Otoko, Gokusen) e Yumi Aso (JIN, Tonbi).
 
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Grazie anche a una buona sceneggiatura di base, la regia fa di un ospedale un teatro in cui l'azione sperimenta riprese che partono dall’epilogo di un disastro per ripercorrerne all’indietro l'accaduto, oppure scelgono di tirare le fila dei punti di vista di diversi personaggi, a ricongiungersi insieme proprio al momento del climax di un incidente.
I tempi morti sono ridotti all’osso e legati in un'interessante e talora frenetica contrapposizione a quelli d’azione, peraltro sempre ben accompagnati da una solida, stupefacente colonna sonora; i diversi brani d’orchestra forniscono un contributo non indifferente nel raccontare di un'atmosfera costantemente drammatica, ma che in nessun momento volge al cupo o all'abbandono pessimistico di ogni possibilità. Pregno di significato è, in parallelo, anche l'immane silenzio che regna nelle stanze di terapia intensiva. L'attesa di un risveglio, un ritorno alla vita.
 
Ogni episodio, in Dr. DMAT, è una stilettata dritta al cuore; è un drama umano nel senso più pieno del termine, con il suo carico di umana fragilità, di dolore, di rabbia e di senso di impotenza, ma anche di paziente e tenace speranza.

La serie acquista fin dall’inizio una piega ben più drammatica rispetto alla controparte originale cartacea, cancellando ogni traccia dello humour che nel manga si rintraccia invece qua e là, con ogni probabilità volto a spezzare la fitta tensione che costantemente permea gli episodi. Si ravvisa anche nella resa del team medico un’altra grande differenza tra le due opere, perché là dove con sapiente ironia il manga gioca sulla natura ingenua e maldestra di Hibiki, nel drama non se ne avverte traccia alcuna, per una parzialmente diversa caratterizzazione del personaggio coerente con una sceneggiatura più severa.
 
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Ad una prima occhiata la storia del manga e del drama parrebbe vertere sulla “spettacolarità” dei disastri, ed è notevole osservare quanto invece tenga banco l'aspetto più umano degli stessi, nondimeno il più controverso. Durante la visione è inevitabile porsi numerosi interrogativi su valori e scelte di vita, anche senza essere medici; il drama peraltro non fornisce risposte di comodo. Lambisce i sentimenti della pietà e preferisce scavare dentro l’animo, lasciando a ciascun spettatore di rinvenire personalmente i propri.
Tiene sospesa, questa serie, fino al triduo di episodi in crescendo, fino al finale al tempo stesso devastante e mozzafiato, straordinariamente commovente e denso di speranza.

Per un pubblico cresciuto con la cinematografia e la fiction di tipo occidentale, la riuscita dell'adattamento televisivo giapponese di un manga o anime dal vivo  può far storcere il naso. Una considerazione, questa, tanto più valida in un drama medico ove da un lato la diversa resa delle scene d'“azione” e dall'altro l’utilizzo di un linguaggio tecnico specifico lo rendono un tipo di telefilm poco appetibile a prescindere.
Ci sono però esempi di opere che sono state in grado di brillare meritatamente di luce propria, da Iryu - Team medical Dragon, giunto ormai alla quarta stagione, sino a Last Hope andato in onda nel 2013. Dr DMAT è a mio avviso un'altra valida scoperta su questo fronte, senz'altro una delle sorprese più interessanti dell’intera stagione 2014.