Je suis sur terre y serais-je
si tu n'y étais aussi?

Un anno imprecisato del secolo scorso, un signore giapponese viaggia alla volta di una fumosa destinazione. Nel suo inglese impacciato, chiede lumi agli altri passeggeri, mentre il bus che li trasporta caracolla sulla linea costiera sinuosamente frastagliata del distretto di North Norfolk, contea di Norfolk, Inghilterra orientale.
«Scusate, sapreste indicarmi cortesemente la fermata di Little Overton?»
«Little Overton? Mai sentito nominare... Qualcuno ha idea di dove sia?»
Un signore giapponese si avventura verso un luogo mai visto, con un nome fuorviante come indizio. Dov'era nato tutto? Chi aveva ribattezzato 'Little Overton' quell'altrove sperduto, quel posto non trovato e perduto.
 
Schermata 2015-02-13 alle 15.05.16.png

Una signora, nel secondo dopoguerra, veniva a farci i bagni di mare, nel freddo remoto dell'acqua che lecca la spiaggia e insidia le colline, la marea che assilla la costa col tormento dell'onda, che insinua senza sosta nella terra l'idea anfibia di palude — come un desiderio di annullare il confine, o svanire.
Ma quelle estati di castelli di sabbia e barchette da pesca, di ammofila e lavanda di mare, non sarebbero, semplicemente, sparite.
Non prima di riapparire.
I ricordi di Mrs. Joan G. Robinson ripresero vita sotto forma nuova. Così il paesino di Burnham Overy divenne Little Overton, e la visione di una bambina, al di là della finestra azzurra di una casa dai mattoni rossi, dei suoi lunghi capelli biondi tormentati da una spazzola, si rappresero nella densità di una storia. Così, una volta ancora, “il mondo vero divenne favola”.
Il ricordo si fece racconto, trasfigurando la vita: Marnie, che era stata lì, c'era ancora.
Nel 1967, con l'aggiunta al titolo di una determinazione temporale, per distinguerlo da un omonimo film di Hitchcock, uscito casualmente nelle sale poche settimane prima, venne pubblicato il volume. Marnie c'era. C'è tuttora.

Quando cera Marnie.jpgWhen Marnie was there (Quando c'era Marnie, edito in Italia da Kappalab) è il romanzo più celebre della Robinson. Tra i tanti lettori che lo hanno amato, il libro non è sfuggito alla voracità letteraria di una nostra vecchia conoscenza. Avrete inteso di chi si tratta. Ad alcuni piace addirittura pensare che il lettore vorace (nonché arcinoto regista di animazione) e l'ignoto viaggiatore smarrito di cui sopra siano la stessa persona (ma la figlia della Robinson non ci offre invero lumi sull'identità del giapponese misterioso nella sua postfazione al libro). Chiunque fosse, quell'uomo si catapultò da un'isola all'altra, dal Giappone all'Inghilterra, al solo scopo di scoprire che aspetto avesse in realtà la sua immaginazione, nutrita dalle pagine di Marnie e ansiosa di ammirare l'originale, di occupare lo spazio sottile tra due righe, di esitare tra un sogno e il momento di avverarlo.
Il viaggiatore, a ritroso, sta andando: dalla favola al mondo, dall'al-di-là all'al-di-qua, oltrepassando. Dal riflesso allo sguardo, attraverso lo specchio.

Per questo Marnie è una storia finta e reale, come può esserlo solo la verità — come dev'essere sempre la verità.
Sempre doppia, l'una e l'altra, vedersi riflessi o il riflesso che ci guarda. Marnie è un libro sullo specchio.
Come la fiaba di Carroll. È un libro sul nostro essere due da sempre. Sul fatto che ci stiamo inseguendo, siamo davanti e dietro lo specchio: rincorriamo il nostro doppio.

La bambina alla finestra intravista dalla baia. La bambina che ci scruta attraverso la pagina. L'immaginazione del viaggiatore. Le immagini che danzano sullo schermo di un cinema. Una bambina e la sua immagine: due bambine allora. Una immagina di vedersi allo specchio. L'altra ricambia lo sguardo. Noi tutti siamo entrambe.
La Robinson, chi legge, chi viaggia, chi sogna ad occhi aperti al cinema. Siamo tutti perennemente allo specchio. Siamo sempre in due, senza saperlo. Poi, forse, un giorno, per caso, c'imbattiamo nel volto dell'Altro.
La storia di Marnie ci svela come fare a riconoscerlo. Ad Anna è successo.
 
È successo a una bambina rimasta senza genitori, privata in tenerissima età anche dell'affetto della nonna, e poi affidata a una famiglia dalla goffa benevolenza, incapace di prestare ascolto al silenzioso vuoto di Anna. E dunque ai Preston non viene altra idea se non spedirla lontano, nel Norfolk che dicevamo, presso un'anonima coppia di anziani sprofondati davanti alla televisione, ai suoi primi vagiti nelle case del Regno Unito.
Un 'soggiorno obbligato', una specie di confino. Perché davanti alla solitudine il mondo non sa fare di meglio che isolare. Anna ha imparato a sigillare le emozioni. Le dissimula, evitando accuratamente che assomiglino a una promessa.
Simula di essere 'ordinaria', prova a 'non provarci nemmeno' a entrare nel cerchio magico di quelli che si divertono (o almeno sembra che lo facciano). «Anna era fuori». E cosa poteva fare, per non sentirsi risucchiata dalla voragine esteriore? Per non cadere nell'abisso che ogni notte si spalancava ai bordi del suo letto.

Poteva prendersene cura. Del suo piccolo vuoto. Dopo il lungo viaggio fino a Norfolk, atteso con apprensione e finalmente andato, cosa vuole fare Anna, sola nella solinga Little Overton? — i due anziani Pegg, inquieti, se lo domandano.
«Disse che non c'era nessun problema, che le andava bene anche non fare niente. - Dico davvero, mi piace non fare niente più di ogni altra cosa». Sembra una semplice, infinita preghiera. Fatemi prendere cura del mio piccolo vuoto. Fatemi andare dove possa farlo. Un piccolo vuoto al centro del cuore, in cui celare ciò che a nessun altro si può dire. Perché è un segreto riservato al mare, al «grande vuoto silenzioso di palude e acqua e cielo, che [..] sembravano rispecchiare il suo piccolo vuoto interiore».
E poi a un tratto ci se ne avvede. Anche ad Anna capitò così. «Ebbe la strana senszione di essere osservata». Da dove veniva, quello sguardo? Dov'è nascosto lo specchio, il nostro altro volto? Forse basta alzare gli occhi. E vederla. La Casa. Quella «casa grande e vecchia e quadrata», la casa affacciata sulla baia, con tante finestrelle dalle cornici azzurro chiaro, che Hiromasa Yonebayashi trasforma in un panoramico bovindo. Per guardarti meglio. Quella casa sembrava «sprofondata in un sogno tranquillo», fatto di vacanze e secchielli e scarpe di tela, inghiottita dalla sonnacchiosa palustre atmosfera, dimentica della terraferma alle sue spalle e intenta, come Anna, a fare niente.
 
Marnie1.jpeg

E mentre la marea raggiunge l'orlo del vestito, Anna si sente come se tutto fosse già accaduto. Come se vedere fosse rivedere. Come se guardare fosse guardarsi. L'estimità è l'intimità proiettata sul mondo.

Anna era all'esterno di se stessa, a osservarsi in mezzo all'acqua, «una figurina nel suo miglior vestito blu, con le scarpe e le calze in mano, che attraverso il porto guardava la vecchia casa dalle molte finestre». Qualcosa che non poteva capire la stava attraversando. Un ricordo sepolto nel suo inconscio di bambina che stringeva in mano una cartolina, così forte e così a lungo da ridurla in briciole. Raffigurata c'era una casa sull'acqua. Ma Anna non poteva ricordarlo. Lo intuiva, da qualche parte, al confine tra quel momento e tutto il tempo trascorso, da prima che venisse al mondo. Era una sensazione liminale, la certezza di potersi trovare, di essere a un passo dall'afferrarsi.

E poi si alza ancora la marea, fino al ginocchio, ed è tempo di tornare al casotto dei Pegg, prima che venga giù il tramonto.

La quotidianità di Anna trascorre al ritmo delle maree, in quello spazio che confonde terra e mare dando vita a tre mondi: il piccolo e accogliente cottage dei Pegg, la baia del porto, con le barche all'ancora cullate dalle onde, e il mondo della spiaggia, animato dallo stridore dei gabbiani e attraversato da dune che, occasionalmente, ospitano tane per conigli, magari diretti in tutta fretta al Paese delle Meraviglie. Anna è incoraggiata dai Pegg a meravigliarsi. «Devi fare quello che ti piace. Fa' come ti pare e segui la fantasia».

E il centro delle sue fantasie — anche quando la osservava dalla barca di Unditropp, il taciturno 'tardo del villaggio' — era la Casa dai vecchi mattoni, rossi, e dalle finestre di legno, azzurro chiaro. Quella visione la riscuoteva, le metteva in testa qualcosa, sia pure indistinta e vaga. Poteva osservarla da lontano, o spiarla da vicino senza un preciso pensiero. «Nei luoghi come Little Overton puoi startene tutto il giorno a non pensare a niente, senza che nessuno se ne accorga». A volte, in certi posti, il niente genera sogni.
 
when-marnie-was-there-nuovo-trailer-studio-ghibli.jpg

E il sogno giunge come un presentimento. Anna intravede un giorno, di sfuggita, cinque bambini, in jeans e maglie blu scuro, e immagina siano i nuovi acquirenti della Casa della Palude. Inizia ad avvicinarsi a loro, giusto un poco, con la fantasia, piano piano. Inizia a domandare di loro, ai Pegg, a Unditropp... Ma poi ci ripensa. «Se davvero li avesse conosciuti, e viceversa, si sarebbe rovinato tutto. Allora sarebbero diventati come gli altri, amichevoli solo in parte. [...] E quando avessero scoperto che a lei non piaceva, lei non aveva, lei non faceva (o qualunque cosa fosse che la tagliava sempre fuori dagli altri), avrebbero perso interesse. Se l'avessero odiata sarebbe stato meglio. Ma non l'aveva mai fatto nessuno. [...] Quindi allora sarebbe stata lei a dover detestare loro. Non furiosamente, ma con distacco». Così quel gruppo di bambini diventa per Anna una famiglia dei sogni, «tanto era decisa che non dovessero essere reali». Perché la realtà avrebbe finito per rovinarli. Anna non osa domandare al mondo di amarla. Il suo riserbo è una forma di tenerezza. Rimane chiusa fuori, rimane chiusa dentro la fantasia, per tema di importunare il mondo.
Non ha il coraggio di addormentarsi e svegliarsi nel sogno dell'Altro, che è quello che chiamano un incontro. Allora fa entrare gli altri nel proprio sogno.


Finché non trova qualcuno con cui spartirlo.
Una bambina affacciata sul mare. Vive nella Casa della Palude. Una bambina dai lunghi capelli biondi, dalle ciocche lunghe e chiare, pressappoco della sua età, per quel che Anna può giudicare. All'inizio, Anna teme (o desidera) che la bambina bionda, abbigliata in quella che sembra una camicia da notte bianca ma che potrebbe essere un abito da sera per una splendida festa, non sia reale. Una notte raggiunge di soppiatto la casa nella baia, dove era convinta di trovare musica e luci per la festa splendida di cui aveva sognato, ma non ci trova che il silenzio, il buio, il vuoto. «Poiché si era sentita profondamente triste per come stavano realmente le cose, aveva provato a far diventare vero qualcosa di immaginario. Ma non funzionava mai».

Per questo Anna ogni tanto avrebbe voluto piangere. Di fronte alle ingiurie di Sandra e delle altre bambine del villaggio. Bisogna che qualcuno ci permetta di piangere, bisogna che chi non vorrebbe mai vederci piangere ci permetta, per amore, di farlo.
Poi, un'altra volta, al crepuscolo, con l'alta marea, Anna vede una barchetta color noce che galleggia nella baia. Come ispirata da una Lorelei del Reno, rema fino alla Casa, fino all'angolo in cui il muro si tuffa nell'acqua, e prima di finirci a sbattere, viene salvata da una bambina, «la stessa che aveva visto prima», col suo vestito da sera o pigiama, poco importava, in cima a una serie di gradini ricavati nel muro.
Anna pensa sia un sogno, una visione, un fantasma. Ma la bambina la guarda, come se pensasse la stessa cosa. Poco dopo finiscono strette l'una all'altra, accucciate per non farsi vedere dagli abitanti della casa, e Anna ha la sensazione di non essere mai stata così vicina a qualcuno. Così iniziano a esistere Anna e Marnie, l'una per l'altra. Marnie, un po' fantastica e un po' reale, un segreto da custodire. Perché da soli si è un mistero, in due si è un segreto. E se i bambini del paese pensano che Anna sia svitata, vedendola parlare da sola, è perché non sanno il suo segreto, e giudicano misterioso il suo sorriso. O il modo in cui Anna e Marnie giocano a nascondino tra le dune. Anna impara che per per trovarla o per trovarsi bisogna cercare.
È un gioco surreale, cioè più e meno che reale; Marnie è un po' fuori e un po' dentro, è il cuore di Anna ed è il mondo intorno.
Per questo può comparire ovunque e può sbucare dal nulla, come se fosse sempre stata lì accanto. “Sempre più lontano dice l'occhio / sempre più vicino dice l'amore”.

Marnie ed Anna. Vivono in due di una stessa anima. Diventa anche il mio essere, io ad esserci non basto.
Ma il perché da qualcun altro è stato detto:

because she's more myself than I am

Ben detto. “È più me di quanto non lo sia io stessa”. Anna lo pensa di Marnie. E Marnie lo pensa di Anna. Si invidiano a vicenda. L'una sogna di essere l'altra.
Marnie assomiglia al personaggio di una fiaba. Col suo lungo vestito bianco «che quasi le arrivava ai piedi». Quando Anna mostra la sua invidia, Marnie ride: «Sciocchina! È la mia camicia da notte». Sembra dire: è il vestito che mi permette di sognare. È un abito per la notte, non serale. Non per la realtà, ma per fantasticare. Perciò, non mi invidiare.
 
when-marnie-was-there-theater.jpg

«Anna, guardandola, [...] pensò che fosse la ragazza più carina che avesse mai visto e odiò i suoi capelli scuri e la sua pelle abbronzata. Sembro una strega in confronto a lei, pensò, detestandosi». Anna si detesta e ama Marnie. Amando l'altra, finisce per odiarsi, perché vorrebbe essere lei.
L'odio è questa ferita, il non poter essere che se stessi. L'amore dell'altro ci consola di questo fatto. Ci fa essere più che noi stessi.
«- È strano - disse Marnie un giorno - ma a volte mi sento come se avessi aspettato il tuo arrivo qui per anni e anni». Ed è così. Anna era quella che Marnie attendeva da sempre per tornare ad essere. Perciò Anna non la doveva invidiare. Marnie ringraziava il cielo, per aver avuto il mare, e un retro dalla casa da cui affacciarsi per vedere Anna arrivare.
«Lei e Marnie condividevano il lato della casa che le piaceva di più: il lato silenzioso e segreto». I segreti possono aspettare un'eternità prima di lasciarsi dire. Sussurrare, accoccolate su una barca che non fa che dondolare. Quando non va perduto nessun istante, nessuna parola, niente.

Piano piano le bambine si lasciano scoprire. Si fanno tre domande per notte, immerse nel buio della palude, «quasi avvolte dalle correnti e dalle alghe ingarbugliate». Tre domande, come i desideri delle fiabe. Ma “dare una presenza per scontata è il modo migliore di perderla”. Più che mai una presenza incantata. Così Marnie scompare, da un momento all'altro. E sostiene che sia Anna ad averlo fatto.

«Ho continuato ad aspettare la tua risposta e poi quando ho sollevato gli occhi semplicemente non eri più lì!»
«No, sei stata tu!»
«Tu pensi che sia stata io, e io penso che sia stata tu. Non litighiamo per questo. Forse siamo state tutte e due».

Forse erano state tutte e due.
Si può scomparire per un momento. Per qualche giorno. Per tanto tempo.
Quando non riesci a leggere nell'anima di qualcuno, cerca di andare via e poi ritorna”. Bisogna guardarsi negli occhi e inventarsi a vicenda, finché non basti una delle due a riassumere l'altra nel proprio cuore. Allora a turno non si è nessuno, a turno si può scomparire. Si è una sola persona, in due.

Per ritrovarsi, basta non smettere di cercare. «Continua a cercarmi... ti prego... Continua a cercarmi. E ricordati, prometti di non dirlo a nessuno...»
Trovarsi, l'uno dentro l'altro, è come scambiarsi di posto. L'uno è al posto dell'altro. «Marnie mormorò [...] - Sei fortunata. Vorrei essere te. Anna si girò verso di lei, d'un tratto ammutolita. - È quello che ti ho detto io... l'ultima volta che eravamo qui. [...] Oh, povera Marnie! Ti voglio tanto bene. - E questo è quello che tu hai detto a me. - Che buffo, sembra quasi che» guardandoci in volto, ci stessimo rispecchiando.

51ugjxfeocl._1.jpgPoi venne il mulino a vento. Quello di cui Marnie aveva paura. Anna vi si avventurò, da sola, una sera. E vi trovò incredibilmente Marnie, tutta spaventata, incapace di ridiscendere la scala. Anna provò a incoraggiarla. «Questo sì che mi piace! L'hai detto tu stessa che è facile essere coraggiosi al posto degli altri. Ora lo stai facendo tu». Bisogna trovare qualcuno che provi i sentimenti più difficili al nostro posto, e ce li renda sotto una forma più gentile. È quello che Anna provò a fare. Ma Marnie non ne voleva sapere. Poi venne suo cugino, Edward. Portò via Marnie, e Anna fu lasciata dietro — Marnie se n'era dimenticata. Quando venne ritrovata, passato lo shock, Anna sentì che la odiava. Poi la rivide, alla finestra. Marnie doveva andare via. Per sempre, forse. Le chiese perdono. E «Anna la sentì e la capì. Sembrava quasi che quelle parole provenissero dal suo interno». La voce dell'altro risuona da dentro. «Certo che ti perdono!». Sì.

E d'un tratto la casa si svuota, la presenza di un attimo prima diventa stregata, sembra che dietro le finestre non ci sia anima viva. «Aveva l'aria di essere una casa rimasta disabitata per molto tempo». Ma Marnie, allora, chi era? Per scoprirlo, ci fu bisogno d'altro. Anna continuò a frequentare la spiaggia. Finché realtà e fantasia non si scambiarono di posto. Adesso aveva nel cuore una presenza, dunque poteva affrontare il mondo. Quando arrivarono i Lindsay, giocarono con lei ad acchiapparello, pensando che fosse un fantasma, uno spettro bambino che giocava a nascondersi tra le dune, prima di farsi finalmente abbrancare. Anna pensava che i cinque fratelli, gli stessi di quel tempo lontano, prima di Marnie, fossero a loro volta dei fantasmi. Invece erano i nuovi occupanti della Casa.

«Marnie era stata reale e loro no. Ora loro erano reali e Marnie no. O era lei che era cambiata?»

La risposta non era semplice. Bisognava trovarla in due, come sempre. Per fortuna c'era Scilla, Priscilla Lindsay, la più introversa e misteriosa dei fratelli, quella che ad Anna, da subito, era tanto piaciuta. Chi era Marnie? Il sogno di Anna che l'aveva incontrata, il sogno di Scilla che aveva letto di lei tra le pagine di un diario trovato nella propria stanza, la vecchia stanza della bambina alla finestra. Il sogno di Anna dentro quella di Scilla. Questo segreto condiviso è la verità su Marnie. Adesso non la sveliamo, per non diradare il mistero. Che indizi vi diamo? Se Marnie fosse stata finta, Anna non sarebbe vera. Sarebbe il fantasma con cui parla Scilla.

Al di là della semplice risposta, ce n'è un'altra. Più profonda, più vera.
Ma allora, Marnie, chi era?
Marnie è chi c'era ed è tornata, Marnie è chi è andata e ritornerà.

Anche se dovessi morire, tornerò/
Anche se dovessi rinascere, tornerò

 
cdn.indiewire.com.jpg

Anna è un'altra bambina, da quando l'ha conosciuta. Non si sente più fuori. Si sente più dentro che mai. Non perché ci sia qualcun altro. Ma perché finalmente «dentro di lei si sentiva al caldo». Si era sentita sola perché era una. Ed unica. E anche Marnie si era sentita sola perché era una. Ci si sente sempre uno di troppo, finché non si è amati. L'amore ci conferma che abbiamo diritto ad esserci, qui ed ora. Ci protegge da un'infinità di dubbi, che fanno a gara nell'instillare sospetti sul fatto che esistiamo davvero, che non siamo il frutto dell'accesa fantasia di una bambina, del suo sguardo languido affacciato sulla baia. Noi esistiamo, almeno per qualcuno, uno solo.
 
KappaLab propone al pubblico italiano, sulla scia della recente versione animata Ghibli, una storia che fa il paio con l'Alice di Carroll: l'avventura di una bambina che ritrova la propria identità smarrendola. Veniamo al mondo a sua immagine — a immagine dell'altro che ci rimette al mondo, ricambiando il nostro sguardo. Il volto dell'altro è lo specchio che ci dice: andiamo bene, possiamo vivere, possiamo andare. When Marnie was there è un romanzo sulla vergogna: sarò mai abbastanza? Anna sarà mai bella come Marnie? Marnie sarà mai vera come Anna?
La principessa è troppo bella per essere vera? “Solo chi è troppo povero d'immaginazione, si rifugia nel reale”. Lo sapeva bene un'altra Anna, una bambina dai capelli rossi, cui bastava una credenza per rispecchiarsi e non essere più sola.
C'era Katie Maurice! È bellissimo che ci sia ancora.
È troppo bello che Marnie sia vera... e che sia lì per Anna — anche ora.