Il dibattito che contesta la costituzionalità dell'articolo 733 del Codice Civile nipponico, che proibisce alle donne giapponesi di risposarsi nei sei mesi successivi a un divorzio, esisteva già da un po'; è ri-emerso però da qualche tempo con la causa portata avanti da una giovane coppia sulla ventina, e un figlio nato da cinque mesi.
 
mamma figlia giappone.jpg

Alla coppia originaria della prefettura di Shizuoka è stata segnalata la mancanza di autorizzazione a registrare il matrimonio lo scorso luglio, dal momento che erano trascorsi soltanto un paio di mesi dal divorzio di lei. Ma cosa ancora più grave è stato il rifiuto da parte delle istituzioni di riconoscerne il figlio.

I due si erano conosciuti nel 2013, quando la donna già viveva separata dall'ex-marito. Il loro bimbo è nato in maggio, appena poco prima che venisse ufficialmente dichiarato il divorzio: ebbene, il diritto civile considera che in questo caso il padre del bambino sia proprio il marito frattanto divenuto ex.
La coppia ha così avviato una causa richiedendo una cifra pari a 3 milioni di Yen (circa 24'300 euro) per danni morali e interessi legati all'impossibilità di sposarsi secondo la legge.
 

Non è la prima volta che una controversia del genere emerge in merito, ecco perché la Corte Suprema è chiamata a verificare l'effettiva costituzionalità del contestato articolo 733, oltre che del 750 che obbliga le coppie sposate a scegliere un "cognome per la famiglia".
Si intende con questo che una coppia sposata debba utilizzare un solo cognome, indifferentemente quello della moglie o del marito. Nel 1996, un parere proveniente dal Ministero della Giustizia aveva proposto la creazione di un sistema nel quale ambo i coniugi potessero conservare i rispettivi cognomi da sposai, ma l'idea non ha più avuto corso.
 
divorzio_giappone.jpg

Quanto alla legge "preistorica" sul divorzio, invece, già due anni fa un'altra ventenne aveva depositato una causa alla Corte del distretto di Okayama e alla Corte suprema contestando i due succitati punti del Codice Civile: entrambi i tribunali avevano all'epoca rifiutato di accogliere la supposta violazione della costituzione, affermando che la legislazione si poneva un intento sensato e contribuiva ad evitare che nascessero annose questioni di riconoscimento della paternità. Per la medesima ragione, l'esame della costituzionalità non si era reso necessario.
Se ripercorriamo tuttavia le vicende della giovane, appare chiaro che non si è tutto risolto come la magistratura ha inteso far credere.

La sola eccezione di matrimonio alla regola vigente si avrebbe infatti nel caso in cui la donna sia già incinta prima del divorzio, in qual caso potrebbe risposarsi dopo la nascita del piccolo. Eppure la legge con l'obiettivo di ridurre la frequenza delle liti di paternità è stata fortemente criticata per i vincoli che impone in pratica solo alle donne, risolvendo un problema ma creandone di converso molti altri nel coinvolgere l'intero nucleo familiare di lei.
 
madre figlio giappone.jpg

Con un divorzio avvenuto a marzo 2008, questa seconda donna era stata costretta ad attendere sino ad ottobre dello stesso anno per risposarsi; in più, essa aveva avuto una figlia dal marito attuale, ma la sua città di Soja non ha riconosciuto la bimba come erede del nuovo compagno, poiché la donna aveva partorito durante il "famigerato" periodo dei sei mesi post-divorzio.
In conformità all'articolo 772 del Codice Civile, la bimba era stata anche in quel caso considerata figlia legittima dell'ex marito e la coppia non ha potuto dichiararne l'effettivo riconoscimento.

Pur avendo sporto denuncia, il mancato accoglimento della richiesta della donna di un indennizzo pari a 1.65 milioni di Yen (13'300 euro circa) per la discriminazione subita non fa quindi stupire, ma forse un po' indignare sì.
Come si accennava in precedenza, i suddetti articoli del Codice Civile non sono applicabili agli uomini, benché i figli siano di norma generati da una coppia e non riconducibili, come qui sembra, ad una soltanto delle due parti. E le conseguenze della legge finiscono per ricadere, com'è facile intuire, sia sui compagni che sulla prole delle donne coinvolte.

Fonte consultata:
Nippon Connection