Fourth Place

A sedici anni di distanza dal suo sogno olimpico Gwang-soo, ex-promessa del nuoto coreano ormai ritiratosi e dimenticato da tutti, viene contattato da una donna che vuole assumerlo come allenatore per il figlioletto undicenne Joon-ho, nonostante la sua fama di essere un preparatore eccessivamente severo. Il ragazzino dimostra un discreto talento nel nuoto, ma – privo di stimoli competitivi e praticante solo per passione – in gara finora si è sempre piazzato al quarto posto. L’uomo inizia così un programma d’allenamento estremamente duro e serrato, non esitando a usare la violenza pur di motivare il bambino.

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Con occhio estremamente critico ma mai provocatorio, Jung Ji-woo mette a fuoco un aspetto profondamente radicato quanto atrocemente ordinario della società coreana, nel documentare in modo quasi iperrealistico lo smontaggio fisico e psicologico cui i giovani coreani sono soggetti fin dalla più tenera età. Agli occhi di un occidentale Fourth Place potrebbe forse risultare un tantino esagerato per l’atmosfera soffocante (a tratti quasi annichilente) che si respira, ma come lo stesso regista ha tenuto a specificare alla proiezione la situazione descritta nell’opera si presenta assai più vicina alla realtà di quanto si possa immaginare: le pressioni a cui ogni individuo è sottoposto in una delle società più rigide e competitive al mondo deflagrano dunque in un vortice d’oppressione che sembra non avere fine. Tutti i personaggi sono convinti di essere nel giusto, agiscono spinti da un meccanismo educativo assimilato passivamente, che essi stessi hanno sperimentato sulla propria pelle ormai da anni; Park Hae-jun regala un’interpretazione straordinaria, dando vita alle innumerevoli ombre di un uomo a sua volta tradito e calpestato dalla società, che quasi per ripicca sfoga le proprie delusioni passate in un allenamento cinico e disumanizzante. E sebbene l’intento di far riflettere lo spettatore sia sempre ben definito, il film mantiene volutamente un approccio “esterno”, rinunciando coraggiosamente a qualsiasi forma di percorso catartico o redentivo ed evitando in questo modo di (s)cadere in quella che avrebbe potuto essere una furba retorica. Traxer-kun

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Mentre il piccolo Joon-ho brancola nelle cupe profondità della sua esistenza cercando di seguire una luce sempre più fioca e distante, Gwang-soo non si sforzerà nemmeno di comprendere il punto di vista del bambino, il cui unico desiderio è quello di nuotare privo di vincoli e oppressioni; allo stesso modo la madre (interpretata da una convincente Lee Hang-na) continuerà fino all’ultimo istante a scaricare sugli inermi figli le frustrazioni che a sua volta riceve dal gradino soprastante, in un circolo vizioso destinato a non estinguersi mai. Questa lucida indifferenza, propria di una realtà spietata e selvaggia a livelli disumani, verrà (in parte) sovvertita solo nello straordinaria e metaforica sequenza finale, girata simbolicamente in una lunga soggettiva del protagonista – e di rimando anche dell’autore –, che sarà a sorpresa l’unico segmento in cui Ji-woo abbandona radicalmente il suo approccio documentaristico in favore di una posizione definita all’interno del racconto; regalandoci una toccante sequenza dalle atmosfere oniriche e dilatate, il regista dipinge una rivincita idealistica ma prima di tutto interiore, dove la più pura e genuina soddisfazione personale prende simbolicamente il posto dell’effimero e sofferto appagamento competitivo. 

«Come ci si sente ad arrivare primi?»
Traxer-kun

 
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Lowlife Love

Con il suo ultimo film presentato al Far East Festival, dal titolo emblematico Lowlife Love, il cineasta nipponico Uchida Eiji indaga, con sguardo ironico e dissacrante, il ventre molle della scena cinematografica indie giapponese, qui descritta come uno squallido underground di produzioni a basso budget (o piuttosto senza budget) che può essere spietato per chi lotta per emergere, un microcosmo popolato per lo più da farabutti opportunisti, che spesso mirano solo a incassare favori sessuali in cambio di vane promesse di ingaggio. E’ il caso di Tetsuo (Shibukawa Kiyohiko), regista no-budget senza alcun talento, che stenta a trovare una sua identità artistica e una sua strada nella vita. A trentanove anni, vive ancora con i suoi genitori, è del tutto inconcludente e quel briciolo di fama lo deve a un film semi sconosciuto che aveva girato svariati anni prima. Ama presentarsi come autore “impegnato” anche se per lui fare cinema significa più che altro circondandosi di studenti e attrici dilettanti, abusare di loro mentalmente, finanziariamente e, se abbastanza carine, anche sessualmente. Quando due nuove promesse del cinema si iscrivono alla sua scuola di recitazione - lo sceneggiatore esordiente Ken (Shugo Oshinari) e l’aspirante attrice Minami (Maya Okano) - Tetsuo, in uno dei suoi rari momenti di grazia, intuisce che un doppio miracolo gli è capitato in grembo: Ken ha una sceneggiatura dannatamente efficace e Minami ha il carisma necessario per interpretare il ruolo principale, così decide di puntare tutto su loro due, annusando la possibilità di dirigere finalmente qualcosa di buono. Il regista da un lato si dimostra una spregevole canaglia cercando di molestare Minami, dall’altro si rivela un inguaribile idealista (ma solo da un punto di vista cinematografico!) e, almeno nel suo lavoro, cerca la “qualità” senza compromessi, anche se ciò significa far incazzare tutti gli altri attori del suo gruppo, ai quali erano stati promessi ruoli in cambio di ingenti dosi di denaro e sesso. Intanto un altro pericolo è in agguato dietro l'angolo, infatti la vena creativa e l’entusiasmo ritrovato di Tetsuo attirano l'attenzione sul suo nuovo progetto da parte di altri registi e addetti ai lavori, altrettanto subdoli e striscianti, che tenteranno di soffiarglielo.

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Pare che per questo film il regista e sceneggiatore Uchida si sia ispirato a episodi realmente accaduti e di cui è venuto a conoscenza nel corso della sua carriera. Avendo vissuto una parte della sua vita fuori dal Giappone egli ha osservato che, mentre gli abusi avvengono nelle industrie cinematografiche di tutto il mondo, la scena no-budget nipponica è misogina a un livello estremo. Uno degli slogan del film è che “tutti i registi e i produttori sono dei miserabili farabutti”, tuttavia il film tenta di dimostrare quanto in realtà sia loro che le loro vittime amano a tal punto il cinema da non poterne fare a meno. Lo stesso film è a basso budget e il produttore Adam Torel (Third Window) ha messo in piedi una campagna di crowdfunding su Kickstarter per poterlo realizzare, avendo cura di sottolineare che non si è ricorso ad alcuna azione deprecabile per poter scritturare il cast di ottimo livello.

Il brillante e versatile Shibukawa Kiyohiko è un grande Tetsuo, impeccabile nel ruolo di larva umana e molestatore seriale, un uomo la cui spina dorsale viene fuori solo in alcuni sfortunati momenti. Si può ridere delle sue buffonate o essere disgustati dal suo comportamento poco dignitoso (probabilmente le spettatrici odieranno i suoi modi da erotomane almeno quanto la sua collezione di film porno!), ma c’è sempre in lui una vena tragica attraverso la quale si può intravedere in contro luce un uomo migliore. I comprimari non sono da meno, a cominciare da Kida (Denden), il produttore con arie da pezzo grosso, ma che vive del mercato clandestino dei porno amatoriali. Shinjio (Tsuda Kanji), viscido regista e nemesi del protagonista Tetsuo, che si è “venduto” alle produzioni televisive commerciali e per questo gode di uno status più glorioso. In questa giungla si muovono personaggi a prima vista innocenti come Minami (Maya Okano), trasformatasi in corso d’opera da timida e sprovveduta attricetta da recita scolastica in astuta e fredda calcolatrice, capace di servirsi a sua volta del sesso pur di perseguire i suoi sogni di fama, ma nella variegata gamma di personaggi, nessuno esce completamente pulito, ed ognuno mostra il suo lato più sincero solo quando è completamente ubriaco!

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Anche se basato su racconti e aneddoti di vita reale la sceneggiatura evita abilmente la cadenza episodica e conserva una solida struttura narrativa ravvivata da studiati colpi di scena. Con arguzia il regista si serve della vis comica dei suoi attori per rivelare verità più o meno amare. Evitando accuratamente l’happy ending e per quanto possa apparire cinico e disilluso, il messaggio di fondo sembra comunque offrire un barlume di salvezza per i nostri simpatici antieroi e un messaggio di speranza per chiunque voglia intraprendere la via che porta al successo, a patto che ci si guardi sempre le spalle!

"Fare cinema è come innamorarsi di una puttana da strapazzo... Però non possiamo mica lasciarla sola, quella puttana, giusto?"

Bob71