Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Per quanto Takahata abbia deciso di sfruttare la "favola del tagliatore di bambù" il più possibile, adeguandosi non solo a quanto le varie versioni più accreditate narrano, ma anche a come visivamente la storia è stata percepita dagli uomini più prossimi ad essa - più vicini non solo temporalmente, ma anche filosoficamente -, per quanto il regista si sia ben attenuto a tutto ciò, ha deciso comunque di imprimere la propria orma e suggellare il film con qualche dettaglio che rende bene la sua idea, diciamo, anti-urbana o tendenzialmente anti-moderna, mista a una specie di pessimismo nei confronti dell'umana natura.

La forte attrazione che Kaguya, la protagonista, prova per la natura circostante, per la vita semplice e agreste, sorge vieppiù forte nel momento in cui il padre, preso da avidità, decide di abbandonare il mondo georgico per dirigersi in città. Questo particolare non è presente nella novella antica, che narra meramente del conseguente arricchimento dei due contadini con il conseguente miglioramento delle loro condizioni di vita in loco. Usando il topos del viaggio verso l'urbs, Takahata ci permette di osservare il cambiamento nel carattere della protagonista, continuamente vessata dal mondo cortese che la circonda, dalle regole, dai taboo, dalle tradizioni estetiche e comportamentali. La necessità dell'ohaguro, dell'hikimayu e dell'oshiroi (rispettivamente l'annerimento dei denti con colorante, la rimozione delle sopracciglia e l'imbiancamento della faccia) vengono recepiti dalla giovanetta come una imposizione inconcepibile, anche a causa di una 'governante' stereotipata. L'interesse principale di tutto ciò è, comunque, che il regista aggiunge questi particolari storico-culturali ovviamente non presenti (perché sottintesi) nella storia originale per sottolineare un enorme divario fra la pura vita non-urbana e la fittizia vita urbana. Tutto diviene fittizio, persino le relazioni sociali, persino il giardino, ultimo miraggio del mondo naturale. L'urbs riesce a creare il bello dove non c'è, ma sempre con inganno. Nella narrazione primeva i cinque nobiluomini che si avvicinano a Kaguya per rendere palese il loro interesse, recandosi loro in campagna da lei, subiscono loro stessi da lei l'affronto di dover andare a cercare cinque artefatti mitici impossibili da scoprire. Il regista, invece, trasforma ciò in una comica scenetta di lotta retorica tra gli spasimanti, che giocano a chi la spara più grossa. Ognuno di essi assicura a Kaguya di amarla tanto quanto si può amare questo o quel magnifico e mitologico oggetto, mostrando come non si tratti altro che di pura sofistica, di finzione di un amore per qualcheduno che oltretutto mai si è visto in faccia. Persino l'Imperatore, che dovrebbe rappresentare il miglior essere umano in Giappone, addirittura di discendenza divina, non fa altro che bramarla per mera passione fisica, non rispettando i suoi spazi, i suoi tempi e le sue volontà. L'amore urbano e cortese, così mascherato rispetto all'amore puro e fanciullesco che Kaguya provava per Sutemaru, un povero ragazzo del villaggio, costretto a muoversi qui e lì per raccogliere legna e altri vegetali. Persino il giardino costruito e curato da Kaguya nella nuova corte cittadina, con lo scopo di renderlo simile, in 'miniatura', al suo mondo rurale precedente, è solo apparenza, è un miraggio estivo nella calura e nel torpore della città. Questi importanti particolari e l'aggiunta del giardinetto sono importanti indizi per comprendere quale sia l'umore di Takahata nel pensare il dualismo città-campagna, un umore che tendenzialmente riprende un atavico amore dell'essere umano per la natura, evidenziato dal similare "Il topo di città e il topo di campagna" di Esopo.

Il finale, così amaro, riprende anche visivamente disegni cinque-seicenteschi rappresentanti questa grossa nube semovente accompagnante una Divinità lunare (assieme a una banda musicale di nuova invenzione), ma è reso ulteriormente più triste non solo dalla mancata corrispondenza epistolare che nella favola originale Kaguya intrattenne con l'Imperatore fino agli ultimi istanti di coscienza sulla nube (evidente elogio al capo dell'Impero), ma da quel sogno-illusione di Sutemaru che, ritornando dopo diversi anni nelle terre natie, immagina, sogna, si illude o spera di avere lì, dinnanzi a sé una Kaguya pronta a scappare con lui da qualsiasi tentazione maligna urbana, vivendo nella miseria, ma nella purezza e nella felicità.

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Film cinese del 2016, "Big Fish and Begonia" arriva anche in Italia nel giugno 2018, ma soltanto per un giorno e per giunta con una distribuzione scarsissima e passando, anche a causa di una pubblicizzazione quasi nulla, praticamente in sordina. Eppure, dopo una lavorazione durata ben 12 anni, "Big Fish and Begonia" è stato in patria un vero e proprio campione d'incassi, divenendo uno dei film d'animazione più visti di sempre.
Prodotto dai registi Xuan Liang e Chung Zhang, cofondatori del B&T Studio, il film si ispira ad un classico della letteratura cinese taoista, lo Zhuang-zi.

"La leggenda narra che l'umanità nasce dall'oceano. Ecco perché le lacrime e il sangue delle persone sono salati come il mare": questa è la frase di apertura con cui la voce narrante apre il film, che è dunque un lungo flashback. Facciamo quindi conoscenza con la protagonista, Chun, una creatura del fondo marino dalle sembianze di una ragazzina alle soglie dei 16 anni. È questa un'età critica, dato che prevede il cosiddetto "rito di passaggio": trascorrere 7 giorni nel mondo degli umani per poter comprendere meglio le leggi della natura che il loro popolo, gli "altri", ha l'incarico di tutelare, controllare e far rispettare. Così anche Chun (in italiano: Begonia) viene trasformata in un delfino rosso ed attraversa il portale, con l'impegno di non interagire mai con gli esseri umani, limitandosi ad osservare e tornare entro il termine previsto. Tuttavia proprio il giorno del rientro Chun rimane incastrata in una rete, e soltanto la generosità e l'estremo coraggio di un giovane pescatore le restituiscono la libertà, impedendo che rimanga intrappolata nel mondo umano per sempre. Nel fare questo però il giovane muore, e Chun è disposta a tutto per salvarlo e consentirgli di tornare dalla sorellina...
"A cosa sei disposto a rinunciare per la persona che ami? Quali sacrifici sei pronto a fare?"
Queste domande vengono poste dalla voce narrante al pubblico, non riferendosi però esclusivamente a Chun.
La natura, l'amore, lo spirito di sacrificio sono i temi dominanti in questa storia, che fino alla fine mantiene alta l'attenzione del pubblico. Ho colto qualche piccolo vuoto narrativo, ma è anche vero che ho visto il film una sola volta, perciò non sono certa di non essere stata io a non cogliere qualche minimo passaggio che potrebbe risultare più chiaro ad una seconda visione. E qualche piccola esagerazione sul tema "sacrificio" non mi ha sorpresa più di tanto, avendo ormai letto tanti romanzi cinesi e giapponesi da cui si evince che è tipico di una cultura alquanto diversa dalla nostra.
Chun potrebbe talvolta sembrare irritante, addirittura egoista nel perseguire i propri propositi, ma è anche facile immedesimarsi in lei, soprattutto considerando la sua giovane età. Del resto anche la madre non reagisce sempre come ci si potrebbe aspettare dalla situazione e dal contesto, ma in maniera più realistica, più coerente. Molto ben caratterizzato è anche Qiu, che inizialmente pare una comparsa e che invece avrà un ruolo sempre più importante. In realtà tutti i personaggi mi sono parsi affascinanti, tanto che non mi sarebbe dispiaciuto un film più lungo che consentisse anche un loro approfondimento: le due signore delle anime, per esempio, avrebbero a mio avviso meritato maggior rilievo, anche se mi rendo conto che i registi si sono posti un limite per non rischiare di appesantire troppo il tutto.

Un altro punto di forza di "Big Fish and Begonia" sono il character design e l'animazione, una combinazione di animazione tradizionale e 3D: una vera e propria gioia per gli occhi per me che ho potuto vederlo solo ieri su DVD, non riesco ad immaginare l'effetto nella grande sala di un cinema!
Ed ancora, che dire delle bellissime musiche, composte dal giapponese Kiyoshi Yoshida? In particolare il tema musicale principale, interpretato da Zhou Shen, è molto suggestivo.
Il pubblico cinese è rimasto incantato da questo lungometraggio, anche grazie ai bellissimi fondali e panorami, oltre che per i personaggi variegati e fantasiosi ed al richiamo alle tradizioni. Per tale motivo è stato paragonato ai capolavori dello studio Ghibli e qualcuno ha sollevato critiche per il riutilizzo di alcuni temi in essi dominanti (divinità pittoresche, le leggi della natura che è pericoloso stravolgere). In effetti qualche somiglianza c'è (in realtà a me il film è piaciuto anche per questo), ma credo che ciò che davvero conta è che poi sia diverso lo sviluppo... Non stiamo certamente parlando di storie identiche!
Insomma, è un film che merita di essere visto, ed i registi meritano certamente maggiore attenzione: un'ulteriore conferma che nel cinema d'animazione orientale giapponese non esistono solo Hayao Miyazaki ed Isao Takahata e, soprattutto, che il cinema d'animazione orientale che merita non è solo giapponese!

Il mio voto complessivo è 9,5 e non 10 soltanto per quei pochi interrogativi che mi sono rimasti, ma potrebbe in realtà diventare 10 dopo una seconda visione.
Concludo la mia recensione con un piccolissimo (ma a mio avviso importante) consiglio: non interrompete la visione alla comparsa dei titoli di coda, non soltanto per godervi la musica, ma soprattutto perché il film non è ancora terminato e ci viene regalata una grossa sorpresa finale!

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Ho appena finito di rileggere questo manga per la quarta o forse quinta volta, e credo che già questo possa farvi capire quanto l'ho amato. Non vi racconterò la trama, potete trovarla in molte altre recensioni, quindi mi limiterò semplicemente a spiegarvi i motivi che me l'hanno fatto adorare. Iniziamo dai personaggi: impossibile non affezionarsi ai protagonisti. Aki non è una principessa viziata, al contrario. Si impegna duramente per raggiungere i suoi obiettivi (la vendetta) e soddisfare le aspettative di coloro che si sono sacrificati per lei. E sarà capace di metterci questo impegno nonostante si renda bene conto, dal principio, che la porterà a dover seguire una strada che non è ciò che vuole, e a dover rinunciare a qualcosa di estremamente importante per lei. Hakusei, il suo servo, la sua ombra, è da sempre innamorato della principessa, ma a causa della sua posizione sociale e dei pregiudizi dell'epoca (lui non è orientale, bensì biondo e con gli occhi azzurri) non avrà vita facile, incapace di liberarsi da un sentimento che sembra impossibile da soddisfare. Questi sono i due protagonisti, punti cardine della storia, ma anche i personaggi secondari hanno i loro momenti di gloria. In particolare ho adorato Seitetsu, maestro di Aki e Hakusei.
La storia è ben fatta, incalzante, scorrevole nonostante parecchie nozioni sulle strategie di guerra (cosa strana in uno shoujo, ma che personalmente ho apprezzato). Io non amo particolarmente le serie brevi, anzi, cerco sempre manga abbastanza sostanziosi, perciò anche la lunghezza della storia (quindici volumi) per me è stata motivo di acquisto, all'inizio, ma sono stata attratta anche dallo stile grafico, che a me è piaciuto parecchio a parte qualche piccolo dettaglio (ad esempio quando vengono rappresentate le espressioni dei personaggi in chiave un po' più comica). Per concludere, la trama è ben fatta e appassionante, la storia d'amore è spettacolare, i personaggi sono intelligenti e ben caratterizzati, e alla fine... Beh, difficile che non scenda la lacrimuccia. Al quindicesimo volume io ero praticamente una fontana! E a proposito del finale, è a causa di quello che non ho messo 10, anche se un po' a malincuore. Leggetelo, ne vale la pena!