Dopo aver parlato della vita in Giappone per un italiano con Asuka Ozumi di Dynit e il traduttore Loris Usai, abbiamo avuto il piacere di intervistare Peppe, l’autore di Mingo - Non pensare che tutti gli italiani siano popolari con le ragazze. L’opera parla proprio degli stereotipi che i Giapponesi hanno verso noi Italiani e dell’esperienza di Peppe, sotto le vesti di Mingo, nel primo periodo nella terra del Sol Levante. Vi riportiamo le domande che abbiamo fatto al giovane autore ma trovate il video della live in fondo all'articolo.
 
Mingo Vol.1
 
Il suo amore per la cultura otaku ha portato l'italiano Mingo in Giappone, nel tentativo di trovare una ragazza giapponese. Tuttavia, per mantenere il suo stile di vita, deve diventare un modello. In un posto dove gli italiani dovrebbero essere popolari, come può adattarsi un otaku dalla bassa autostima?

Peppe, vuoi raccontare come tutto è iniziato? Sei un Abruzzese, grande appassionato di anime e manga, che ha deciso di studiare Giapponese.

Peppe: “Si sono di Fossacesia, una piccola città sul mare in provincia di Chieti. Sono sempre stato interessato alla cultura giapponese, alle elementari guardando gli anime in tv e alle superiori leggendo i manga. All’improvviso, con un po’ di arroganza, è nato in me il desiderio di andare in Giappone a disegnare manga. Ho dovuto capire i passaggi per realizzare il mio sogno, ho studiato tre anni Giapponese per prepararmi al viaggio e appena mi sono laureato sono partito per il Sol Levante”.

Nei primi periodi però sei stato in Giappone per continuare a studiare, giusto?

Peppe: “Si, è vero, anche se ne avevo le scatole piene di studiare, ma per avere il visto sono stato sei mesi in una scuola a Tokyo. Era molto costosa e non mi piaceva pesare sulle spalle della mia famiglia, ma per fortuna un’agenzia di moda, dopo svariate ricerche di lavoro, mi ha assunto e mi ha permesso di ottenere il visto lavorativo. Senza il lavoro da modello e il tempo libero che ne derivava non sarei mai riuscito a realizzare il mio obbiettivo principale”.

Diventare modelli in Giappone è davvero facile come viene mostrato negli anime?

Peppe: “Ci sono, come negli anime, agenti che fanno scouting e prendono uno studente straniero per fargli fare un servizio fotografico a 10.000 yen (75,56 euro). Difficile non accettare, solo che poi ti ritrovi la tua faccia sui mega schermi delle città per qualche brand famoso e capisci di aver potuto ricevere una paga maggiore. Con il tempo devi capire come va l’industria della moda in Giappone e farti furbo. Fare qualche esperienza da modello è fattibile, ma farlo diventare il lavoro principale è molto difficile. Devi entrare nelle agenzie Giapponesi, non conta solo il tuo aspetto, io in primis sono un ragazzo normale, ma conta molto il tuo approccio e l’impressione che dai.
 
Peppe

Quanto ha influito essere Italiano nella ricerca di modelli? Noi che siamo visti come massimi esponenti della moda.

Peppe: “Come ben sapete noi siamo ben visti dai Giapponesi, adorano la nostra cultura, cucina e moda. Vengono attratti dagli stereotipi. Il cliché dell’italiano latin lover ed estroverso è molto forte in Giappone. Da un lato è facile fingere di essere così per avere successo, magari nel lavoro, eppure la chiave del mio successo è stato mostrare un carattere totalmente diverso dalla loro visione”.

Mingo è un fumetto scritto per i Giapponesi e fa vedere anche le nostre abitudini, come le controversie tra nord e sud. Siamo così anche in Giappone?

Peppe: “Allontanarsi in Italia fa scatenare in alcune persone una scintilla, si trasformano e diventano macchiette di quello che dovrebbe essere un Italiano. Lo fanno senza rendersene conto, perché è ciò che li porta al successo. Poi tra noi rimaniamo veramente Italiani, infatti a scuola non facevamo altro che discutere delle differenze regionali, sembrava di essere in Italia. Ho spiegato nel fumetto come si approcciano gli Italiani tra loro ed ho approfondito degli stereotipi che i Giapponesi adorano, ponendo sempre in contrasto Mingo”.

Che difficoltà hai avuto tu che non eri l’Italiano stereotipato in questo paese che, ricordiamo, non è solo anime e manga (il nostro stereotipo verso di loro)?

Peppe: “Io non ci pensavo, facevo addirittura audizioni con la felpa di Lupin, non venendo preso sul serio. Per non parlare che i Giapponesi che lavorano nel mondo della moda e dell’intrattenimento sono diversi da quelli che lavorano in ufficio, sono più aperti agli stranieri. Io volevo parlare di anime e manga ma loro non erano interessati”.

Hai partecipato al reality Terrace House, cosa ti ha lasciato questa esperienza? È un programma molto visto in Giappone.

Peppe: “Esattamente, è tra i primi tre programmi più visti su Netflix Japan. Non ero cosciente della celebrità che mi avrebbe dato parteciparvi, venivo fermato ovunque andassi, all’inizio era piacevole ma a lungo andare è diventato stancante. La popolarità è bella, ti da molte possibilità, anche dal punto di vista lavorativo, come per il manga, che ha avuto buone vendite. Nel privato però la popolarità pesa. Io avevo partecipato al reality per dare un’immagine diversa degli italiani, lo stesso obiettivo che avevo con il manga. Le riprese erano iniziate proprio quando era cominciata la pubblicazione di Mingo, quindi lavorare sul manga con il pubblico che mi guardava mi ha dato una grande carica. È stata un’esperienza unica per un fumettista”.
 
Peppe - Terrace House


Come sei arrivato a realizzare il sogno di diventare mangaka nella terra dei manga?

Peppe: “Ho inviato un mio manoscritto di 30-40 pagine a Big Comic Spirits, per uno dei vari concorsi per esordienti che le riviste in Giappone pongono ogni mese. Ho scelto quella rivista perché tratta il genere seinen e perché la ritenevo più adatta al mio lavoro. Al primo tentativo ho ricevuto il premio di partecipazione, 10.000 yen, che mi ha dato conferma che con l’impegno sarei riuscito ad ottenere risultati. Ho partecipato così nuovamente al concorso, vincendo 50.000 yen (circa 378 euro) più il commento dell’editore. Mi è stato affidato un editore fantastico, lo stesso che poi mi ha aiutato con Mingo. Io volevo scrivere un'opera fantascientifica ma lui mi ha consigliato di parlare di me, della mia storia e della mia provenienza. Così è nato Mingo, che ha vinto il concorso successivo entrando nelle pubblicazioni settimanali della rivista. È stato un percorso classico, quello che volevo seguire, senza puntare a pubblicazioni online ed altre vie possibili”.

Hai avuto un tuo percorso artistico prima di diventare mangaka, lavorando con qualcuno?

Peppe: “Prima che il mio lavoro fosse pubblicato non ho lavorato con nessuno e non ho studiato in nessuna scuola. Ho imparato leggendo fumetti. Per rassicurare il capo editore, però, ho fatto l’assistente a Keiko Nishi ("Shiro, una vita insieme a un gatto" e "Caro, Chibi è scomparsa") dopo che Mingo fosse già stato scelto. Mi auguro che le interviste che faccio e il percorso che ho seguito possano incoraggiare tutti i ragazzi che vogliono diventare fumettisti”.

C’è stato qualcosa che ti è parso pesante da raccontare su Mingo, magari perché era una bugia sugli Italiani? Poi perché hai scelto di vivere a Tokyo? Cosa ti piace e cosa non apprezzi della capitale?

Peppe: “Non mi è pesato niente, ho avuto la possibilità di lavorare con un editore con cui ho avuto un buon rapporto e soprattutto rispetto reciproco. Ci sono stati momenti di tensione per alcune decisioni ma a posteriori ho compreso le scelte dell’editore ed ho appreso molto. Ho scelto Tokyo innanzitutto perché ci sono le migliori case editrici del Giappone. È una città frenetica e difficile stringere amicizie ma Tokyo è il posto migliore per lavorare. Succede tutto così velocemente che la vita ti scappa via. Non ci vivrei per trent’anni. Spero di poter tornare a lavorare in Italia, perché se da giovane volevo scappare dal nostro paese, ora con la distanza lo apprezzo di più”.

Ora che Mingo è finito, dopo che ti hanno detto di parlare della tua cultura, tratterai altri argomenti?

Peppe: “Ora l’editore mi ha dato il via libera sulla tematica ma il continuo confronto tra la cultura Giapponese e quella Italiana è così al centro della mia vita che non posso non parlarne. Quindi anche il prossimo manga metterà a confronto i due Paesi ma questa volta senza parlare della mia esperienza”.

Vediamo spesso i mangaka carichi di lavoro fino all’eccesso, è successo anche a te?

Peppe. “Essendo il primo manga è stata l’esperienza più difficile della mia vita, al livello mentale, di stress. Avevo tanta pressione addosso, anche mediatica per il programma. Pubblicare settimanalmente è una fatica immonda, ma adesso che l’ho sperimentata forse troverei una maniera per gestirmi meglio le schedule ed evitare crolli mentali. La paura della scadenza di consegna è terrificante e ne risente il lavoro”.
 
Peppe con Mingo


Mingo è appena uscito in Italia, Dynit porterà i quattro volumi della tua opera scritta per i Giapponesi davanti ad un pubblico di Italiani. Questo cosa ti fa provare?

Peppe: “È stato strano leggerlo in italiano non tradotto da me. Le traduzioni sono ottime e mi hanno fatto vivere Mingo da lettore. Io stesso mentre disegnavo il manga gran parte delle battute non le pensavo in Italiano, bensì in Giapponese, quindi si, è bello leggerlo nella nostra lingua”.

Ok, l’opera è stata fatta per pubblico Giapponese, ma come la presenteresti agli Italiani?

Peppe: “In realtà sin dall’inizio, mentre scrivevo Mingo, pensavo che avrebbe avuto più pubblico estero che Giapponese, poiché lo straniero che è venuto in Giappone può immedesimarsi in Mingo e nella maniera in cui si approccia ad un Paese così lontano dal suo per usi e costumi”.

Per te i manga intaccano la percezione che abbiamo del Giappone o aiutano a diffondere l’amore per questo Paese?

Peppe. “Nei manga shonen e shojo troviamo spesso situazioni idealizzate, che non ci permettono di capire la vera essenza del Giappone. Questo perché gli autori dedicano tutta la loro vita al fumetto, sono rinchiusi in casa e non vivono quelle esperienze, vivono solo nel manga. Questa è una strada che non riuscirei a prendere al cento per cento, vivere 10 anni chiuso a lavorare sulla mia opera non lo accetterei. Ci sono però autori che ti fanno vivere il vero Giappone, come Taiyō Matsumoto, di cui consiglio il manga Sunny”.