Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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Guardando "Laputa", ho avuto l'impressione che Miyazaki sia più abile nel raccontare fiabe che nel fare l'educatore. Senza nulla togliere a titoli come "Nausicaä della Valle del Vento" e "La Principessa Mononoke", i quali sono film emozionanti e di tutto rispetto, ho idea che il famoso regista giapponese scopra molto di più il fianco creando lungometraggi di pura denuncia sociale come quelli.
Del resto, creare un racconto divertente e disimpegnato come questo è più facile. "Laputa" non ci lascia nessun messaggio particolarmente profondo, e non pretende di farlo. Due ore di film per dire che, quando l'essere umano ha imparato a dominare l'aria è diventato molto più distruttivo di prima, e che perdere il legame con la Terra è la nostra rovina? Non proprio. Quello è solo il dessert, prima c'è tutta una serie di acrobazie rocambolesche per raggiungere l'isola che fluttua nel cielo.

Rispetto al suo predecessore "Nausicaä", questo film intrattiene molto di più, astenendosi dal creare molte aspettative. Qui allo Studio Ghibli fanno molto più i simpaticoni. Dopo averlo visto, ho immaginato Miyazaki come il Babbo Natale dell'animazione giapponese. Una specie di Walt Disney un po' più smaliziato e ingegnoso.
E come zio Walt usava prendere spunto da romanzi per creare molti dei suoi film, così ha fatto anche il nostro Hayao: "Laputa" richiama ai famosi viaggi di Gulliver, però il film del pluripremiato regista giapponese non ha nulla a che vedere con la satira di Jonathan Swift. Dal romanzo attinge solo l'idea esteriore di una città sospesa in aria, modus operandi tipico di molti autori giapponesi quando si ispirano alla letteratura occidentale.
La trama è piena zeppa di deus ex machina, ovviamente, e in questo genere di prodotto cinematografico i deus ex machina funzionano alla grande.
Interessante l'ambientazione, t'immerge in un'epoca di piena Rivoluzione Industriale. Il film inquadra uno stadio specifico del progresso tecnologico e, sul piano figurativo, gli eventi sono contestualizzati davvero bene. Sembra quasi creare delle atmosfere fantascientifiche alla Jules Verne.

Però, come in tutti i film di questo tipo, è più affascinante il viaggio stesso dell'arrivo. Nella sua fase finale, il film perde lievemente di attrattiva e s'incarta un po' su sé stesso.
Quindi è tutt'altro che un capolavoro, però è stato un piacere guardarlo. È come un buon piatto di pastasciutta con il sale, il pomodoro, il basilico e una spolverata di parmigiano. Saporito e facile da preparare: un sano momento di goduria che è lì solo per edonismo, senza toccare corde particolarmente profonde.

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"Il principe dei draghi" è una storia per ragazzi, senza troppe pretese, ma realizzata così bene che l'ho trovata estremamente piacevole e appassionante da seguire, nonostante le ingenuità presenti. Tra gli autori troviamo Aaron Ehasz ("Avatar", la serie animata, non il film in 3D) e Justin Richmond ("Uncharted 3").

La trama in breve: nel fantastico mondo di Xandia una volta tutte le razze vivevano in pace e armonia, fino a quando gli umani scoprirono e iniziarono a utilizzare la magia nera. Questo portò a una guerra e alla netta divisione della Terra: ad Oriente si stanziarono gli elfi e i draghi, ad Occidente gli umani, suddivisi in cinque regni. Il confine era vigilato dal re dei draghi in persona, che venne però ucciso dagli umani, che assieme a lui distrussero anche il suo unico uovo, condannandone la razza all'estinzione.
La storia del cartone animato ha inizio poco dopo quest'ultimo avvenimento. Desiderosi di vendetta verso il sovrano del regno umano di Katolis, un gruppo di elfi si infiltra nel Paese con lo scopo di assassinarlo assieme al figlio. Tra di essi troviamo la giovane Rayla, alla sua prima missione, che al momento decisivo non ha il coraggio di uccidere il giovane principe Ezran. Mentre i suoi compagni la ripudiano, Rayla stringe amicizia con Ezran e il suo fratellastro Callum, grazie ai quali scopre che l'uovo del re dei draghi non è stato distrutto, ma viene conservato nelle segrete del castello di Katolis. I tre ragazzi decidono di impossessarsene e far nascere il nuovo re dei draghi, nella speranza di porre fine all'odio e alla guerra che divide i loro popoli.

Dunque, una storia dove i protagonisti sono bambini e ragazzi, unici in grado di superare l'odio e la miopia che divide gli adulti. "Il principe dei draghi" è una bella serie, caratterizzata dalla molta attenzione dedicata alla personalità dei protagonisti e da un tocco leggero e divertente che accompagna quasi tutte le situazioni, anche quelle più drammatiche. Pur nella sua linearità ha il merito di dare vita a un mondo interessante, popolato da coprotagonisti davvero ben caratterizzati, a partire dai fratelli Soren e Claudia, soldato spaccone lui, maga fuori di testa lei: ho apprezzato l'estrema cura dedicata alla trama, succede spesso che avvenimenti apparentemente insignificanti capitati in un episodio siano ripresi e sviluppati in uno successivo. Peccato che da un lato venga narrata una storia a tratti molto drammatica, dall'altro venga totalmente bandita la violenza a livello visivo: nonostante i molti combattimenti non si vede mai una goccia di sangue, una ferita, un'uccisione. Viene fatto intuire cosa succede ma mai mostrato chiaramente, evidentemente puntando a un target il più ampio possibile tra i più piccoli.

La prima stagione termina a vicenda ancora in corso, con due episodi finali davvero fin troppo infantili, ma questo non rovina la buona impressione fatta all'inizio e rimango ancora curioso di scoprire cosa accadrà dopo, dato che gli autori hanno rimescolato per bene le carte e lasciato in sospeso diverse situazioni interessanti, comprese le ragioni degli antagonisti, che per una volta mi lasciano il dubbio di non essere solo dei "cattivoni" monodimensionali, ma di nascondere precise ragioni per il loro agire, non racchiuse esclusivamente nel male fine a sé stesso.

Tecnicamente il cartone animato si avvale di un buon character design e di moderne tecniche di cel-shading per l'animazione, che ho trovato belle e convincenti in quasi tutti i frangenti, non fosse per il fatto che durante le scene più movimentate vanno a scatti. Non scherzo, in tali frangenti le animazioni diventano incerte e scattose (problema che non ho rilevato nella seconda stagione): impossibile che gli autori non se ne siano accorti, mi domando se possa essere una scelta artistica voluta... ma non credo abbia senso. Più probabile che sia un limite del software utilizzato e che non ci fosse modo di venirne a capo in tempo per la data di consegna.

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Liberamente tratto dal romanzo fantastico di Diana Wynne Jones, "Il castello errante di Howl" riesce letteralmente a far rifiorire in un’epoca cinematografica dominata dalla computer grafica e da lungometraggi occidentali di successo prevalentemente made-in-pixar il tangibile e magico fascino del disegno classico, chiaramente supportato dai mezzi tecnici contemporanei, ma che si discosta letteralmente dalla tendenza del momento. Così come il miglior Walt Disney dei tempi d’oro, Hayao Miyazaki sale di nuovo in cattedra e forte dell’inseparabile Studio Ghibli ci regala la rivisitazione di un libro fantastico che fino a diverso tempo fa, almeno in Italia, non era certo così noto.
Gustare un’opera di Miyazaki è tutt’oggi un’esperienza indimenticabile, sia per impatto grafico-visivo, sia per atmosfere create, sia colonna sonora che per animazioni, intelaiatura inossidabile e adamantina di uno dei prodotti d’animazione migliori mai creati negli ultimi anni. È altresì vero che tale rivisitazione è stata plasmata secondo i desideri e i capricci del Maestro, ed in alcuni punti si discosta notevolmente dalla traccia originale cartacea, tuttavia ciò non inficia né il valore estetico né intacca la filosofia del nucleo che l’anime vuole comunicare a chi osserva.

"Il castello errante di Howl" è a tutti gli effetti una fiaba moderna dai toni retrò, un foglio di carta appena tagliato e subito anticato da mani sapienti che l’hanno reso un piccolo capolavoro senza tempo, capace di comunicare la “saggia morale” che non ha niente da invidiare alle sempiterne leggende vergate dalla mano dei Fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, per annoverare illustri esempi. L’unica accusa che gli si può muovere è un ritmo dapprima lento, compassato, poi altalenante ed infine concitato, tanto da lasciare incompiute alla stregua di tele mezze dipinte alcuni elementi della vicenda su cui non si tornerà ovviamente più; determinati comprimari appaiono appena accennati, decisamente piatti e mai approfonditi, nei in un’opera che si regge su una solida, profonda, tridimensionale poliedricità dei personaggi principali.
Protagonista di questo incantesimo animato è Sophie, una ragazza carina, leggermente introversa e poco sicura di sé, che dalla morte del padre gestisce il negozio preso in eredità non coi risultati che si aspettava, capace di sognare ad occhi aperti un romantico cavaliere azzurro che la rapisca da un futuro scontato e per nulla frizzante per come sembra prospettarsi. Sarà l’incontro con una strega dispettosa e davvero crudele a cambiare radicalmente la vita della giovane ragazza, frantumando l’apatica routine in cui era prigioniera, infliggendole una tremenda maledizione e gettandola in un turbine d’eventi che mai avrebbe immaginato di vivere (-subire), cominciando proprio dal palpitante incontro con un mago misterioso e dal fascino irresistibile, che vive su di un pazzesco castello semovente: Howl!

Miyazaki sensei stavolta mischia dosi d’introspezione, azione e fantasia in egual misura, soffocando ad ogni modo la possibilità da parte dei comprimari d’emergere così come è permesso ai protagonisti. Il sapore puramente steampunk di alcuni elementi come lo stesso castello ambulante o altri sistemi meccanici a vapore, la fiabesca dolcezza di alcune creature come Kalcifer o le frizzanti e dinamiche scene d’azione lampeggiano come reminiscenze frammentate raccolte da opere già esistenti, ideate proprio dallo stesso Myazaki, quasi autocitazioni che arricchiscono e regalano un tocco di tradizionale magia al già solido racconto.
Fondali simili a quadri di matrice ottocentesca fanno da memorabile cornice ad una trama che parla per metafore, trasponendo l’essenza stessa della vita come fosse la più grande magia che nessuno può eguagliare e che a conti fatti è il dono più prezioso che ci è stato concesso, e quale follia sarebbe trascorrerla senza tentare di realizzare i nostri sogni, nonostante paure, difficoltà e imprevisti pronti a bloccarci la strada.
Non meno importante è l’inequivocabile condanna nei confronti della guerra, dipinta come demone ultimo e acerrimo nemico della Vita stessa, errore fatale e insana tendenza a cui ogni essere umano, anche se in piccola parte è tristemente incline, tema molto caro a tanti artisti nipponici (sublimato al massimo nel tragico ed apocalittico “L’attacco dei giganti” da Hajime Isayama).
Si giunge forse un po’ troppo frettolosamente ad un finale dolce ed appassionato tramite animazioni meravigliosamente curate, una colonna sonora fra le migliori ascoltate nei lungometraggi firmati Studio Ghibli ed uno sfavillio di colori, ricercato, polivalente, chiave di lettura per alcuni personaggi che oltre ad esprimersi tramite voce e gestualità, comunicano il loro essere anche con cambiamenti cromatici e d’aspetto esteriore.

Il raggiungimento della felicità è il traguardo al termine di un lungo percorso interiore che porta a quella chimera chiamata “maturità interiore”, un luogo da dove è possibile osservare con sereno distacco i veri valori che imperano nell'esistenza di ognuno di noi, ben lungi da beni materiali o desideri vanagloriosi ed egoistici.
Proprio come recita un famoso proverbio, “chi si accontenta gode”, ma gode ancor più chi ha compreso che è nella semplicità delle piccole cose e nel saper accettare ciò che ci viene dato che risiede la più serena, profonda felicità.