E' disponibile in libreria per Tunué il saggio Anime e Sport - Grandi atleti nella realtà e nell'animazione giapponese a cura di Fabio Bartoli, un corposo volume che racconta il rapporto tra lo sport reale e quello di anime e manga, con particolare attenzione verso i giochi olimpici di Tokyo (1964 e 2020) e ciò che hanno comportato, sia a livello sociale sia per quanto riguarda le influenze che essi hanno avuto su anime e manga sportivi. Il libro presenta, inoltre, numerose interviste ad atleti famosi di svariate discipline: da Dino Zoff a Bebe Vio, da Sara Simeoni ad Andrea Zorzi, tra gli altri.
Tra i vari contenuti presenti nel libro, vi è anche un mio personale contributo, una breve "versione in piccolo" della mia tesi di laurea dedicata alla storia del wrestling giapponese e all'analisi dei vari manga e anime sul tema, perciò ho voluto approfittarne per fare due chiacchiere con l'autore a proposito del libro e dei temi trattati.

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Kotaro: Vuoi presentarti ai nostri utenti?

Fabio Bartoli: Mi chiamo Fabio Bartoli, sono un appassionato di anime e manga. Ho dedicato a questo tema anche la mia tesi di laurea, incentrata sull'animazione di fantascienza giapponese anni settanta. Ho cercato di pubblicarla ed è diventata un lavoro molto più esaustivo che si chiama Mangascienza, pubblicato per Tunué. Per questo editore ho pubblicato anche altri tre libri oltre ad Anime e Sport e un altro libro che si chiama Cartoon Heroes per Kappa Edizioni, che parla della storia delle sigle delle serie animate in Italia e dovrebbe uscire in una seconda edizione aggiornata a ottobre. Oltre ad anime e manga, sono anche un grande appassionato di sport ed ecco spiegato il motivo per cui ho deciso di scrivere un volume che parla di questi due temi.

K: Cominciamo quindi a presentare questo libro...
 

F.B.: Il libro è il frutto di queste due mie passioni, le mie passioni più di vecchia data. Come gran parte delle persone della mia generazione (sono del 1980) sono cresciuto guardando anime in tv, poi è arrivata anche la passione per lo sport. Era da tempo che volevo trovare l'occasione per far dialogare questi due mondi. Il fatto che le più recenti Olimpiadi siano state assegnate a Tokyo mi ha fatto capire che era giunto il momento, perciò ho scritto questo volume in cui parlo della storia del Giappone e di come questa si sia evoluta insieme allo sport, con lo sviluppo dello sport nell'arcipelago, momento che vede il suo culmine nelle Olimpiadi di Tokyo 1964, che ne rappresentano la fase nascente. Gli anime sono arrivati nel 1963, quindi anime e sport viaggiano in parallelo e ho analizzato la loro storia dal punto di vista degli spokon, gli anime di genere sportivo. Ho fatto un excursus storico, sociologico, culturale su questo tema intervallato da interviste a campioni in carne ed ossa che hanno commentato sia la loro carriera sia trame, valori, personaggi e significati delle serie dedicate agli sport in cui loro sono o sono stati attivi.

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K: Ci puoi dire qualcosa riguardo alle Olimpiadi del 1964 e le origini dello sport in Giappone?
 

F.B.: E' stato un momento importante, non solo per la storia sportiva del Giappone ma per la storia generale, tant'è che anche nella storiografia ufficiale del Giappone viene visto come il momento del definitivo decollo del paese dopo gli anni della ricostruzione successivi alla Seconda guerra mondiale. Sono stati giochi importanti, anche perché riammettevano il Giappone al tavolo delle nazioni dopo che il paese si era macchiato di crimini orrendi durante la guerra. Ricorre da poco l'anniversario dello sganciamento delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, uno dei peggiori crimini dell'umanità, ma anche il Giappone ne ha commessi.
Le Olimpiadi ebbero dei momenti particolari perché furono quelle che per la prima volta ospitarono il judo, nel paese in cui è nato, fondato da Jigoro Kano. Esordì per la prima volta anche la pallavolo femminile, con le famose "Streghe d'Oriente", la squadra nazionale di pallavolo femminile, che lavarono l'onta dell'unico argento preso dai giapponesi, nella categoria open del judo.
Questi furono gli aspetti più significativi, ma comunuque il Giappone finì terzo nel medagliere (esattamente come Tokyo 2020, tra l'altro). Furono dei giochi molto vissuti e condivisi dalla popolazione, tutti erano molto entusiasti, fu una festa di tutto il popolo nipponico, come purtroppo, per le ragioni che tutti sappiamo, non è stato possibile per Tokyo 2020.

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K: Beh, sai, in realtà in un primo momento molti giapponesi erano contrari alle Olimpiadi del 2020, ma una volta che si è deciso di farle, poi vedo che si sono appassionati e se le sono godute...
 

F.B.: Ho visto un'immagine estremamente tenera di un signore piuttosto anziano che tutte le mattine dalle 7 alle 9 andava al villaggio olimpico a incoraggiare gli atleti. Ovviamente non si poteva entrare nei palazzetti e negli eventi al chiuso, ma ho visto tantissime persone farsi un tampone per vedere la gara di ciclismo su strada che era all'aperto. Dai sondaggi è arrivata la percezione che nessun giapponese volesse questi giochi, ma penso che almeno una parte del popolo giapponese le abbia viste perché credo che, soprattutto in questo momento difficile, ci sia bisogno di momenti di svago e di passione per far dimenticare la pandemia anche per i giapponesi che adesso vivono una situazione piuttosto delicata.

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K: Lo sport è stata una caratteristica importante della ricostruzione del Giappone del dopoguerra e ha aiutato molto anche a formare (o comunque ne è stato influenzato) la mentalità del Giappone dell'epoca (presente ancora oggi ma fortunatamente più attenuata), quella del sacrificio estremo, del senso del dovere nei confronti del paese ma anche della squadra, dell'allenatore, dei compagni. Questo lo abbiamo visto in tantissime serie anime e manga, ma anche nella realtà, come ad esempio nella vicenda delle "Streghe d'Oriente" che citavi prima.
 

F.B.: Sì. La vicenda delle "Streghe d'Oriente" colpì moltissimo l'immaginario giapponese sia dal punto di vista prettamente sportivo ma anche da quello sociale. Questa squadra incarnava perfettamente i valori a cui tu fai riferimento, si basava sull'ossatura della squadra della Nichibo, una fabbrica tessile per la quale le giocatrici lavoravano dalle 8 alle 15 per poi allenarsi a pallavolo dalle 16 a mezzanotte tutti i giorni della settimana. Erano allenate da Hirofumi Daimatsu, il proposito dell'allenatore orco che noi vediamo nelle serie animate principalmente degli anni sessanta e settanta. Daimatsu aveva combattuto durante la Seconda guerra mondiale. La generazione dei primi mangaka e animatori che si sono dedicate alle prime serie di genere sportvo si era formata nel clima di prepazione al conflitto. Pensiamo al fatto che il padre del genere, Ikki Kajiwara, è del 1936, e già da questo si capisce quanto lui da bambino abbia assorbito i valori del Giappone militarista e nazionalista. Tanti di questi valori li ha mutuati anche dal bushido, il codice dei guerrieri, e li ha riversati nelle sue opere. Ovviamente poi il paese è cambiato e questi valori si sono attenuati, non sono più vissuti con quel parossismo dell'epoca. Però, generalmente quando i giapponesi fanno qualcosa la fanno sul serio, a maggior ragione in un ambito dove l'impegno, la costanza e la disciplina sono fattori ineludibili.

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K.: Pensa che su Twitter esiste un bot che manda a ripetizione varie frasi tratte dai manga o da interviste a Ikki Kajiwara e l'immagine di copertina di questo account è proprio una foto di lui che dice "Non sprecate la vostra giovinezza, andate a fare esercizio fisico!", che è esattamente quello che ti aspetteresti da lui. Da giovane lui era abbastanza teppista, quindi aveva questa visione della giovinezza, dei ragazzi che dovevano essere forti e virili. Pare che lui avesse raggiunto un buon livello nella conoscenza del karate, anche suo fratello (il fumettista Hisao Maki) lo praticava, e che Kajiwara avesse un sacco di conoscenze nell'ambito delle federazioni di lotta e di arti marziali. Si dice che abbia deciso di diventare fumettista e abbia cominciato a fare fumetti a tema sportivo perché colpito dal match di Rikidozan, il padre del wrestling giapponese, contro Masahiko Kimura, un atleta di judo molto famoso che era stato prestato al wrestling per fare questo incontro. Il wrestling all'epoca era il futuro, quindi Kimura ha colto l'occasione per far parlare di sé e anche Rikidozan ne ha approfittato per dare una risonanza incredibile al wrestling, e così fu. Secondo gli accordi, il match doveva finire in un pareggio, ma Rikidozan, che aveva questa mentalità del "io devo primeggiare, vincere, essere il campione e l'eroe" non stette ai patti e colpì Kimura a tradimento, ferendolo più del dovuto e vincendo, cosa che lo ha effettivamente fatto diventare un eroe. Kajiwara, che all'epoca aveva diciott'anni, ha visto questo match e per lui Rikizodan è diventato un eroe, una divinità, infatti è presente in ogni suo manga. Molto spesso, anche in questi manga, Rikidozan è tratteggiato come un allenatore orco, che tratta Inoki e gli altri allievi malissimo ma in realtà li vuole bene, lo fa perché li vuole temprare, perciò viene visto come una figura positiva nonostante sia abbastanza duro. Questo te lo dicono anche i giapponesi reali adesso, loro hanno un profondo rispetto per il loro allenatore e il loro maestro, che lavora duramente per loro e viene da loro rispettato. Magari noi occidentali non concepiamo molto questa cosa, ma fa parte della cultura giapponese, soprattutto in questo primo periodo. Nessuno si lamenta degli allenamenti assurdi, hanno fiducia nell'allenatore.
 

F.B.: Non conoscevo questi aneddoti su Kajiwara, ma non mi stupiscono affatto visto quello che poi scrive nei suoi manga!

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K: Queste sono leggende, su Kajiwara girano un sacco di informazioni ma nessuno saprà mai la verità. Pensa che a un certo punto alcuni suoi manga sono stati interrotti e si dice che sia successo perché lui è stato arrestato dopo aver picchiato qualche redattore, da buon ex teppista qual era, ma nessuno ti dirà mai la verità su questo.
 

F.B.: E' il bello dell'aneddotica, non è importante che sia vera ma basta che sia verosimile. Se guardiamo ai messaggi presenti nelle opere di Kajiwara, lui cerca di trasmetterli in questa maniera ossessiva ed esagerata, perciò questi aneddoti sono verosimili, ci restituiscono qualcosa del "personaggio" che viene fuori dalle sue opere. A noi mancano due elementi per capire com'è tratteggiata la figura dell'allenatore, che per esempio, nelle opere di ambientazione scolastica, è anche quella dell'insegnante. Il primo è l'elemento preponderante della gerarchia, che da noi non ha questo peso o viene stigmatizzata come negativa. In Giappone è tutto, tu vali in relazione al posto che occupi, si pensi al rapporto tra senpai e kohai per esempio. Il secondo elemento è che il maestro non è solo colui che ti trasmette il sapere sportivo o delle tecniche, ma è anche colui che sostanzialmente ti "insegna a campare", è colui che ha più esperienza e te la trasmette quindi viene visto come una figura che ha non soltanto un valore sportivo ma ti forma come essere umano a 360°, è un tipo di relazione molto più intensa.

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K.: Adesso sta uscendo per la casa editrice Dynit il manga di Arrivano i Superboys, proprio di Ikki Kajiwara, che fa vedere proprio questo: il protagonista che è una testa calda, un bullo, che ha sempre ragione e deve essere superiore a tutti (nulla mi leverà dalla testa il pensiero che si tratti di una raffigurazione dello stesso Kajiwara da giovane), quando invece non è così. Arriva l'allenatore e lui gli va contro, quando invece il senso della storia è proprio che lui deve imparare l'umiltà, deve riconoscere l'allenatore come figura che gli insegnerà lo sport, la vita, il gioco di squadra, il rispetto per i compagni.
 

F.B.: Arrivano i Superboys tratta di calcio, che in Italia è lo sport nazionale ma non ha avuto la stessa fortuna di Capitan Tsubasa. Questo dipende dalla sua trasmissione televisiva su emittenti minori, mentre Capitan Tsubasa passava su Bim Bum Bam che faceva la parte dell leone nell'intrattenimento pomeridiano per bambini. E' tuttavia evidente quello che dici. Il protagonista Shingo Tamai è un presuntuoso, un attaccabrighe, pensa di sapere tutto. L'allenatore Tenpei Matsuki, che nella finzione dell'opera ha partecipato alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 dove il Giappone ha vinto la medaglia di bronzo, ha il compito di temprarlo e metterlo in riga. Questo si vede in moltissime serie spokon, soprattutto della prima generazione che ha impresso il marchio di fabbrica di Ikki Kajiwara. C'è proprio questa immagine della giovinezza come il periodo dell'irrequietezza, del testosterone a mille, della misconoscenza delle regole che va instradata dal sensei a 360°. Matsuki non insegna a Shingo solo a giocare a calcio ma lo instrada nel suo percorso di crescita verso il diventare uomo.

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K.: Noi siamo rimasti molto colpiti all'epoca da queste storie sportive anche perché erano durissime, c'era una violenza fisica e psicologica molto forte. Da quello che so, questa violenza esagerata è un segno dei tempi. Siamo negli anni sessanta-primi anni settanta e in Giappone è molto forte il ricordo della guerra e dell'occupazione americana, che ha privato il Giappone di tantissime libertà e gli ha imposto regole provienienti dall'estero. Questa cosa è stata vissuta molto male dai giapponesi, a cui sono stati censurati molti film e gli è stato vietato di sviluppare lo stesso atteggiamento violento e ossessivo che avevano prima e durante la guerra. Questo sentimento di voler riprendersi la loro libertà e primeggiare sullo straniero che gliel'aveva tolta rinasce nelle serie sportive, che in linea teorica non sono violente (non ci sono armi o guerre) e quindi sicure agli occhi della censura americana dell'epoca. La guerra si sposta nella vita di tutti i giorni, sui campi sportivi dove il Giappone può confrontarsi con gli altri paesi e cercare di primeggiare senza armi o troppa violenza... che però poi, a livello pratico, c'è!
 

F.B.: il periodo dell'occupazione era seguente al trauma di aver perso la guerra e dell'invito dell'imperatore a "sopportare l'insopportabile". Durante l'occupazione fu proibita la pratica del budo, le arti marziali, che venivano giudicate dagli americani come uno degli elementi alla base dell'aggressività e del fanatismo che i giapponesi avevano dimostrato durante la guerra. Ovviamente, questo periodo di sette anni è poi terminato e infatti, non a caso, alcuni tra i primi manga di genere sportivo sono dedicati al judo e al kendo, opere di Eiichi Fukui.
 

K: Lo conosco. Abbiamo scritto qualche anno fa un bell'articolo su questo autore.
 

F.B.: Non so se esiste qualcosa o qualcuno su cui voi di Animeclick non avete scritto un articolo, siete la mia fonte primaria di informazioni e vi ringrazio tantissimo per il supporto che mi avete dato. Animeclick è uno strumento preziosissimo da cui attingere, una risorsa indispensabile.
 

K: Grazie mille, ma non sfidarci, ci sarà sicuramente qualcosa che ci manca!
 

F.B.: Lo sport è competizione non violenta, il modo che le società moderne hanno sviluppato per canalizzare l'aggressività e competere senza bisogno di armi (oggi ci sono degli armamenti così terribili che potrebbero davvero porre fine all'avventura del genere umano!). Ad esempio, le Olimpiadi diventano proprio una guerra figurata e non violenta tra stati, pensa alla competizione tra Stati Uniti e Cina o Stati Uniti e Unione Sovietica. Le Olimpiadi di Tokyo 1964 fecero ancora più capire questo ai giapponesi, che erano stati deprivati dell'esercito quindi dovevano trovare per forza dei modi non violenti per canalizzare il loro spirito e lo sport era la scelta perfetta. Il loro senso di rivalsa non poteva che essere canalizzato in altri settori come quello economico, dove il Giappone fino alla fine degli anni ottanta ha primeggiato e tuttora è uno dei paesi più ricchi e industrializzati, e in quello sportivo, come si vede anche in tanti anime e manga.

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K: Facendo un salto temporale, a un certo punto della storia la situazione cambia. Durante gli anni ottanta c'è un secondo revival delle serie sportive, che però adesso sono un po' diverse. I protagonisti di queste serie non fanno sport per vincere a tutti i costi, non sono più così testardi nel loro allenarsi, ma lo fanno perchè si divertono. Se tu confronti Arrivano i Superboys con Capitan Tsubasa, quest'ultimo è molto più leggero e il protagonista ti dice proprio che lui gioca a calcio perché si diverte, è il suo sogno, il calcio è uno sport che possono fare tutti quindi è divertimento, non sofferenza. Nelle serie più avanzate ricordo che ci sono delle scene dove lui fa anche discorsi di pace universale perché di fronte al pallone noi siamo tutti uguali quindi il calcio non deve essere una guerra ma divertimento. C'erano anche dei personaggi che venivano allenati a calcio molto duramente con lo scopo unico di primeggiare, ma incontrando Tsubasa scoprono invece quanto il calcio possa essere divertente.
 

F.B.: Questo riflette in pieno la filosofia dell'autore Yoichi Takahashi. Nell'intervista che cito nel libro, Takahashi dice "Io avevo letto manga sportivi in cui i personaggi venivano sostanzialmente torturati, ma non volevo replicare questo modello perché la mia idea dello sport è quella che lo sport deve essere fatto perché è bello, perché è bello stare con gli amici, il pallone è sì un ossessione ma non è l'ossessione del primeggiare, è il connettore tra dei ragazzi. Ovviamente, Tsubasa e gli altri vogliono competere per primeggiare e sono ambiziosi, ma non diventa un qualcosa per il quale sacrificare tutto". C'è un approccio più equilibrato, ma questo è inevitabile perché i tempi cambiano. Gli autori degli anni ottanta erano piccoli ai tempi delle prime Olimpiadi di Tokyo, quando il Giappone iniziava il suo percorso di crescita economica che vede il suo boom negli anni ottanta. E' inevitabile che quello che tu hai vissuto è diverso da quello che ha vissuto chi era bambino prima della guerra in un paese che si prestava a questa folle avventura volta al dominio totale e finita nel disastro. E' fondamentale sottolineare che gli autori non vivono in una bolla, sono influenzati dal loro vissuto, dalla realtà e devono intercettare il gusto del loro pubblico in quel momento. Se negli anni ottanta, in cui il Giappone era un paese ricchissimo, io presentavo una serie in cui gente povera si spaccava la schiena tipo Ittetsu in Kyojin no Hoshi (Tommy la stella dei Giants), che nonostante sia sostanzialmente invalido va a lavorare in cantiere per far giocare il figlio, capisci che non avrebbe avuto senso perché sarebbe stato troppo stridente con la realtà dei ragazzi del tempo e non intercetterebbe i loro gusti, che è quello che un manga e un anime devono fare anche perché ovviamente sono prodotti realizzati per vendere.

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K: Infatti, proprio in Capitan Tsubasa, c'è Tsubasa ma c'è anche Kojiro, che è un po' un residuo dell'antico modo di fare spokon, un personaggio nato in una famiglia povera che lotta con le unghie e con i denti per superare la povertà, non gli importa di nessuno, è violentissimo e deve vincere a tutti i costi. Vent'anni prima, magari Kojiro sarebbe stato il protagonista, ma negli anni ottanta è il rivale che viene sempre battuto da Tsubasa e dalla sua nuova concezione del "lo sport deve essere divertente, non sofferenza".
 

F.B.: A me sembra che Kojiro Hyuga sia appunto un elemento dei manga che Takahashi ha letto da giovane, inserito nel manga che ha scritto. Sono d'accordo sul fatto che in uno spokon di Kajiwara lui sarebbe stato il protagonista assoluto, avrebbe vinto tutto e guadagnato il plauso dell'autore, sollecitando quello dei lettori. In Capitan Tsubasa, questa sua voglia feroce di competere e primeggiare viene molto spesso mitigata, quando Kojiro va oltre le righe viene stigmatizzato e riportato all'ordine anche da Takeshi, il suo kohai con un background più sano. E' proprio una proiezione di un passato che viene non dico condannato ma fortemente mitigato.

K: Anche Kajiwara stesso negli anni ottanta ha cambiato la sua mentalità. Se prendi i suoi primi fumetti sul wrestling, degli anni sessanta, sono figli di quella mentalità, del fatto che l'eroe giapponese è sempre buono e caro e il suo avversario straniero è selvaggio, scorretto e cattivo e va punito. All'epoca, i giapponesi pensavano questo, erano convinti che lo straniero dovesse essere il cattivo da battere. Negli anni ottanta non è più così, in quanto nella realtà i lottatori americani o stranieri erano anche più famosi e amati di quelli giapponesi. Pensa a Hulk Hogan o André The Giant, sono nomi troppo importanti per fare solo la figura del punching ball cattivo da fare picchiare ai giapponesi. In diverse produzioni anni ottanta di Kajiwara si vede proprio il ribaltamento di prospettiva, si vede che il lottatore straniero non è un mostro, è un uomo che sta interpretando per lavoro un personaggio diverso da com'è lui fuori dal ring e capisci che non c'è più quell'elemento della guerra da vincere a tutti i costi, ma magari può vincere anche lo straniero o può essere amato dai giapponesi anche se perde e fa la parte del cattivo. Questo si vede anche nella seconda serie dell'Uomo Tigre, che è molto più leggera in quanto sono passati molti anni dalla prima e quella crudezza della prima serie non aveva più senso.
 

F.B.: Ovviamente se pensi all'esperienza del giovane Kajiwara e al rapporto tra Giappone e Stati Uniti, capisci che questi due paesi non avevano comunicato, si erano affrontati in guerra. Erano due paesi di cui ognuno aveva in testa una proiezione deforme frutto di ciò che era successo in guerra. Col tempo, però, poi si inizia a dialogare e ci si conosce meglio, anche perché il Giappone era un protettorato americano, privato dell'esercito dagli Stati Uniti che lo vedevano come il loro avamposto in Oriente. Le relazioni si normalizzano, i tempi si rilassano e quella guerra figurata non ha più senso. Nel wrestling si sviluppa il concetto dello sport entertainment di matrice americana. Rikidozan era l'icona di un Giappone ferito che si rialzava, ma negli anni ottanta il Giappone era un paese vivo e rampante. Per quanto riguarda la differenza tra le due serie dell'Uomo Tigre sono d'accordo. A me piace la portata epica della prima serie, Naoto Date per me è un modello di vita, ma non poteva essere portato negli anni ottanta, sarebbe stato ridicolo. In generale non mi piacciono questi discorsi del tipo "era meglio prima", le differenze nel contesto vanno riconosciute e accettate, anche perché se ti chiudi nel tuo "erano meglio i miei tempi" ti precludi la visione di tante cose bellissime, come per esempio Slam Dunk o altri titoli spokon più moderni, molto belli ma dotati di una bellezza diversa da quelli vecchi.

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K: Negli anni ottanta si sviluppa un altro modo di fare serie sportive che a me piace molto. Io non sono molto appassionato di sport, quindi la serie di sport nuda e cruda dove i personaggi vivono solo per quello non mi piace, ma questo nuovo tipo di serie che si sviluppano negli anni ottanta, dove lo sport è lo sfondo su cui si sviluppano amori, storie di vita quotidiana e crescita personale, invece mi piace molto. Io dico sempre che, per piacermi, una serie sportiva deve essere o totalmente assurda stile Inazuma Eleven dove hanno i superpoteri durante le partite di calcio o deve essere una commedia scolastica/sentimentale dove tra le tante varie cose, per caso, praticano anche sport al club scolastico.
 

F.B.: Si parla di una rivoluzione che dobbiamo in primis a Mitsuru Adachi e a Touch. E' una serie che in Italia non ebbe grande fortuna, anche perché è andato in onda durante l'inizio della "parabola discendente" di Bim Bum Bam, ma è uno dei cardini del fumetto giapponese anni ottanta in cui in un manga sportivo si inserisce la componente sentimentale. E' uno degli elementi che guardo con maggior simpatia, dato che la crescita equilibrata di un personaggio adolescente non passa solo attraverso lo sport. Ad esempio, in Attack n°1 lei nemmeno si accorge dell'amore di Tsutomu perché lei è troppo ossessionata dalla pallavolo, Tsutomu muore mentre va a vederla giocare, lei ha questo rimorso che si porterà dietro per tutti gli anni successivi e che cancella solo diventando la prima giocatrice al mondo. C'è un elemento un po' "malato" in questo, che viene pian piano mitigato grazie a Takahashi ("fare sport è bello perché stai con gli amici") e Adachi ("lo sport è importante ma è pure importante la propria parte emotiva e affettiva"), è sicuramente un progresso. Certo, manca un po' di epica ma sono messaggi più positivi.

K: Infatti nello stesso periodo c'è anche Yawara, a cui viene detto "Tu dovresti fare judo perché sei la nipote e l'erede del maestro figo" ma lei vuole essere una ragazza normale e non le importa, oppure La leggenda di Hikari (Hilary), "Guarda, sei arrivata alle Olimpiadi di Seoul, figo, no?" e lei "Sì, però io ho trovato l'amore, questo è più importante delle Olimpiadi".
 

F.B.: Esatto. Queste due serie hanno delle strutture un po' ribaltate. Yawara ha molto l'elemento di demistificazione del genere spokon. Lei, come Hoshi, viene instradata a forza da un parente alla pratica sportiva, ma via via Yawara impara ad amare il judo che all'inizio detesta, come quello che André Agassi racconta in Open, suo padre lo ha forzato a fare tennis e pian piano ha imparato ad amarlo anche se lo odiava inizialmente. in La leggenda di Hikari, lei all'inizio è piena di ardore sportivo ma in pedana, durante i giochi, si innamora. Questo succede nel manga, non nell'anime che è stato interrotto per scarsi ascolti. Qualcuno ci potrebbe vedere l'idea che la donna si realizza solo come compagna, moglie o mamma, dato che si parla di protagoniste femminili. Sono due opere molto più stratificate rispetto alle vecchie, ad esempio Yawara rappresenta proprio una sorta di ribellione nei confronti dei vecchi spokon. Del resto, è un'opera di Urasawa, le cui opere sono sempre molto dense e ricche di livelli di lettura.
 

K: Non penso che per Yawara valga il messaggio "la donna vale solo se si innamora", lei non vuole fare judo ma vuole lavorare, vuole essere indipentente, infatti poi si trova un lavoro per i fatti suoi in un'agenzia di viaggi.
 

F.B.: Yawara ha questo aspetto del conflitto col padre e col nonno, questo elemento della crescita psicologica, del conflitto coi genitori durante l'adolescenza. In La leggenda di Hikari, c'è invece più questo elemento della realizzazione tramite l'amore, non credo perché l'autrice è donna ma perché l'elemento che passa è che i figli del Giappone anni ottanta sono diversi dai loro nonni (da cui li separa un abisso inconciliabile) e dai loro genitori, figli di un tempo diverso in cui tutta la parte asfissiante dell'epica e degli obblighi non li riguarda più, o meglio non vogliono che li riguardi interamente, vogliono vivere altro, e nel Giappone degli anni ottanta, paese ricco con la cultura pop al suo apice, possono farlo. E' normale che questi personaggi vogliono andare a un concerto invece che ad allenarsi.

K: Questo si vede nei manga anni ottanta anche non sportivi, c'è sempre l'elemento del conflitto con le vecchie generazioni, pensa anche solo a Kiss me Licia.
 

F.B.: Esatto. E' in questo periodo che nasce la categoria sociologica della "shin jinrui", la nuova umanità, i giovani del momento che sono qualcosa di diverso rispetto alle generazioni precedenti. Pensando all'animazione, per esempio, in Gundam (1979) ha già il conflitto tra "old type" e "new type", viene visto proprio questo conflitto lacerante tra le due generazioni e - questo lo apprezzo molto - viene sempre vinta dalle nuove, dai giovani che vengono invitati a vivere liberamente la loro vita. Chiaramente, questo succede perché i mangaka o gli autori di animazione si rivolgono principalmente ai giovani, però questo elemento pedagogico asfissiante delle vecchie generazioni non mi piace. Si sente anche oggi, ad esempio, dove molti pensano che i giovani siano tutti rincretiniti da TikTok, ma non vedo mai nessuno che con questi giovani ci dialoga e cerca di capirli. Magari i giovani dell'epoca vedevano nei mangaka una sorta di fratelli maggiori che li capivano, invece di insultarli. Oggi succede lo stesso, col confronto tra la generazione tra i nativi digitali e i non nativi digitali.
 

K: Pensa che in realtà in Giappone è uguale. Io ho tantissimi amici giapponesi che hanno sui cinquant'anni e molti ti dicono "Quando io ero piccolo i manga erano tutti tristi e drammatici, poi sono diventati più allegri e hanno cominciato a non piacermi più". Pensa ad esempio a Dragon Ball, tu penseresti che in Giappone piaccia a tutti, invece non piace a quelli che hanno più di quarant'anni, perché era troppo allegro e troppo diverso dai manga con cui erano cresciuti.
 

F.B.: Beh, pensa che una volta parlavo con Bruno Bozzetto e lui mi diceva "E' stata ritrovata un'iscrizione sumera dove i vecchi si lamentavano dei giovani", quindi è una cosa che succede da sempre e sempre succederà.

K: Sai, è esattamente quello che succede con i manga recenti sul wrestling, che oggi sono diretti a un pubblico di adulti, cinquantenni, quelli che oggi si chiamano "boomer" in gergo, no? Loro vanno sempre a vedere gli incontri dei lottatori nuovi, magari non gli piacciono, magari ti dicono (e lo fanno spesso) che i lottatori di oggi sono più scarsi e non hanno il carisma di Inoki e Baba, però guardare questi incontri li fa sognare e li aiuta a ridurre lo stress. Se questi lottatori possono fare sul ring cose incredibili, allora anche gli spettatori nel loro piccolo possono andare avanti e superare le difficoltà della vita lavorativa degli adulti, imparando qualcosa da questi lottatori, da queste serie sportive e dai loro personaggi.
 

F.B.: Se guardi alle recenti Olimpiadi di Tokyo, ci sono state molte storie "da manga". Tra i vincitori delle medaglie d'oro, c'è stato chi lo ha ottenuto dopo tantissimi infortuni, allenamenti e sacrifici ma poi ha condiviso l'oro col rivale, senza voler primeggiare a tutti i costi. Lo sport è molto paradigmatico, a livello narrativo funziona perché contiene tantissimi elementi che noi viviamo nella nostra vita, magari non in maniera eroica ma ci sono: il sogno, la speranza, la gioia, la delusione, la sconfitta, l'inimicizia, la collaborazione, la crescita...
Sono tutti elementi che fanno parte dello sport e della vita.

K: Quindi, secondo te, come mai le serie sportive ci piacciono così tanto?
 

F.B.: I manga sportivi ci piacciono magari perché ci piace lo sport, anche se piacciono anche a quelli che non amano lo sport perché quest'ultimo è un grande contenitore paradigmatico, un percorso di formazione: sei piccolo, hai l'allenatore che ti instrada, cresci, hai rapporti coi compagni, ti confronti coi rivali. La pratica sportiva è un percorso, quindi manga e anime ci piacciono perché ci insegnano qualcosa.
 

K: Ci sono state anche molte serie che "sembrano" sportive, non lo sono ma ne prendono l'impianto, come Pokemon o Beyblade, dove i ragazzi si allenano in questa disciplina con una struttura molto simile a quella delle serie sportive classiche.
 

F.B.: Gli sport si evolvono, nelle varie Olimpiadi ad esempio vengono introdotti sempre nuovi sport, anche se magari la gente se ne lamenta, pensa ad esempio agli e-sport. La struttura delle serie che hai citato è sempre quella, si passa attraverso l'allenamento e la crescita.

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K: Oggi in Giappone c'è un nuovo tipo di serie sportiva. Era già cominciata con Capitan Tsubasa questa tendenza, ma oggi c'è un boom di queste serie sportive dirette a un pubblico anche femminile, squadre sportive con tanti personaggi che sono tutti belloni creati apposta per far sì che piacciano alle ragazze. Già con Capitan Tsubasa c'era questa tendenza, ma anche con Slam Dunk e oggi con Kuroko no basket, Haikyuu e Free, ci sono molte serie dove l'elemento dei "bei ragazzi" è molto presente. Oggi le serie sportive dirette a un pubblico femminile con protagoniste giocatrici sono molto poche, ma serie di questo tipo sono invece molte.
 

F.B.: Potrebbe anche essere una mia lacuna, ma non me ne vengono in mente proprio, serie con giocatrici. Però, ad esempio, in Free c'è questo elemento ammiccante dei fisici scultorei (ovviamente, visto che sono nuotatori), c'è un episodio dove loro fondano il club di nuoto, vanno a comprarsi i costumi e la cosa diventa una scusa per mostrare i loro corpi scultorei alle spettatrici. Alla fine, se vogliamo, è il fanservice che si è allargato a entrambi i sessi.
 

K: Un po' perché oggi le lettrici sono aumentate, leggono anche serie per un pubblico maschile e gli editori, sapendolo, ci giocano su.
 

F.B.: Come abbiamo detto, ovviamente il fine di un manga è quello di vendere, poi se un autore è bravo ci costruisce su una bella storia.

K: Se tu dovessi citarmi un titolo sportivo, quello che ti piace di più?
 

F.B.: Io sono cresciuto con Holly e Benji e Mila e Shiro, ma quello che a livello generazionale ha significato di più per me è L'Uomo Tigre. Naturalmente, esistono altre pietre miliari come Rocky Joe e Slam Dunk, ma nella mia storia personale L'Uomo Tigre ha un valore enorme.
 

K: Io ci sono arrivato dopo, però capisco benissimo cosa provi.
 

F.B.: E' un personaggio talmente grande che è inevitabile che ti segni. Ma anche Rocky Joe è altrettanto grande, anche se, mentre Naoto Date è la parte "costruttiva", Joe è la parte "distruttiva". Sono personaggi talmente grandi che ti segnano come persona, ti danno dei modelli culturali forti.
 

K: Pensa che qua in realtà c'è il trucco, se L'Uomo Tigre è più "costruttivo" e Joe è più "distruttivo". Tu ovviamente oggi sai che l'autore è lo stesso, però sono firmati con due nomi diversi, "Ikki Kajiwara" è lo pseudonimo che usava per le opere "mainstream" e di disimpegno, "Asao Takamori" è il nome che usava per le opere in cui credeva di più e avevano una valenza un po' più ampia e autoriale. Infatti sono poche quelle firmate a questo nome, mi vengono in mente solo Rocky Joe e Giant Typhoon, biografia di Giant Baba quindi un po' più elevata rispetto a L'Uomo Tigre che invece era un racconto di fantasia per un pubblico più giovane. Anche se poi è stato quest'ultimo ad avere più successo.
 

F.B.: Sì, molto spesso infatti c'è l'elemento dell' "imponderabile", le cose non vanno come pensavi...

K: Bene, penso che abbiamo detto tutto...
 

F.B.: Direi, è da un'ora e mezza che stiamo parlando...
 

K: Vuoi aggiungere qualcos'altro sul libro?
 

F.B.: Le cose che mi preme sottolineare sono tre: Una è che non è solo un saggio classico ma si arricchisce con le interviste degli sportivi che portano una dimensione un po' più concreta dello sport. Un'altra è che una di queste è a Bebe Vio e che parte del ricavato delle vendite del libro verrà versata alla sua associazione. Per concludere, la parte finale del libro è dedicata all'influenza che manga e anime sportivi (e non solo) hanno avuto sugli atleti. Le Olimpiadi di Tokyo 2020 ci hanno dimostrato ulteriormente quanto questo sia vero. Ad esempio, la squadra uzbeka di ritmica si è presentata vestita da Sailor Moon; Stano, la medaglia d'oro nella marcia, ha omaggiato One Piece e non è stato l'unico a farlo. Erano ovviamente Olimpiadi fatte in tono minore, senza il tono spettacolare, per via del covid, perciò l'elemento di anime e manga non è stato così presente a livello grafico, ma a livello sonoro non solo anime e manga ma anche i videogiochi sono stati iper-rappresentati, hanno usato sigle di anime e musiche di videogiochi alle cerimonie di apertura e chiusura. Questo, ma non è che ci volesse Bartoli a dirlo, dimostra non solo quanto sia forte l'influenza di manga e anime nella cultura giapponese ma anche nello sport: ci sono squadre e atleti che hanno fatto scene di Dragon Ball, per esempio. Queste ultime Olimpiadi hanno avvalorato questa mia tesi, ma non perché io sia chissà che grande sociologo, perché è proprio evidente l'influenza di manga e anime non solo nella vita di ognuno di noi ma anche in quella dei grandi campioni. Questo, ovviamente, lo dirò in una eventuale futura riedizione del libro.
 

K: Certo, poi dovrai aggiungere un capitolo successivo sul "post" Tokyo 2020.
 

F.B.: Volevo anche ringraziare voi che avete proposto dei contributi esterni nel libro, tu ed Emilio Martini che ha scritto un saggio sul baseball.
 

K: Grazie mille a te!