Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

10.0/10
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5 Centimetri al Secondo è la velocità a cui cadono i petali di ciliegio... tutto inizia da questa frase, da questo strano aneddoto che in qualche maniera stabilisce un legame profondamente radicato tra due ragazzini che frequentano le elementari: Takaki e Akari. Entrambi conducono uno stile di vita piuttosto caotico e movimentato a causa dei continui spostamenti lavorativi da parte dei genitori. Tuttavia ciò non basta per fermare la crescita esponenziale del loro intenso rapporto di amicizia, il quale gradualmente si trasforma in qualcosa di ancora più stupefacente, in qualcosa di ancora più profondo: Amore. Un amore genuinamente puro, così sincero, a cui nessuno avrebbe il coraggio di opporsi... eppure le cose non sempre vanno per il verso giusto, la vita è costellata anche da difficili situazioni da digerire, infatti questo vigoroso legame viene subito messo duramente alla prova, proprio da un trasferimento lavorativo obbligato da parte dei genitori di Takaki, in un'altra città del Giappone. Ci troviamo all'incirca agli inizi degli anni 80, dunque ancora non esiste la tecnologia moderna che consente di utilizzare i vari "Smartphone" o le varie "App", per potersi sentire e vedersi virtualmente sebbene trovandosi agli antipodi della Terra…

I due ragazzi devono affrontare una realtà molto più cruda e complessa, potendosi sentire solo attraverso delle missive e qualche rara volta a telefono. In questo frangente Shinkai non ha fatto altro che ridimensionare il concetto di amore, il quale molto spesso viene erroneamente definito come una forza che va al di là della nostra immaginazione, che può vincere su tutto e tutti, dunque una forza letteralmente Assoluta. Shinkai ha messo a nudo le debolezze e la fragilità di quest'energico e massiccio sentimento, poiché in fondo anche l'amore può essere influenzato, condizionato da alcuni fattori da non sottovalutare: la Distanza e il Tempo.
Il primo è quello più difficile da gestire, quello che frustra maggiormente, in quanto si ha le mani legate, si può fare davvero ben poco di fronte ad esso, tralasciando la sofferenza e la ricerca di un modo adeguato per andare avanti e a non pensare alla propria metà; il secondo, invece, non ha solo una valenza meramente negativa, ma anche positiva, poiché aiuta gradualmente a dimenticarsi sia del legame che dell'altro/a e principalmente a provare qualcosa di diverso. Dunque due fattori che se coadiuvati correttamente infliggono dei colpi non indifferenti alla relazione amorosa che c'è fra due persone; in quest'opera Shinkai non ha utilizzato mezzi termini, ha voluto descrivere l'amore secondo una matrice ultrarealistica, quasi al confine con la realtà (inteso non in senso fantastico o chimerico), ove questo stato d'animo non deve necessariamente essere associato a qualcosa di positivo e che ha sempre un happy ending, ma che molto spesso può distruggere oltre al rapporto tra l'uno e l'altro, anche le persone direttamente coinvolte, seppur in modo diverso.

D'altronde con l'affievolirsi del loro amore, la reazione da parte dei due protagonisti si può considerare diametralmente opposta: Akari ad un certo punto riesce a capire che i suoi sentimenti per Takaki difficilmente scompariranno dalla sua vita, tuttavia ciò che la spinge a superare questa drastica situazione è la consapevolezza di portare con sé questo enorme fardello per tutta la sua esistenza senza aver alcun tipo di rimpianto per ciò che ha provato; Takaki, invece, ha vissuto durante il periodo adolescenziale con la mera illusione che il suo amore avrebbe retto agli urti costanti sia della distanza che del tempo, solo in un secondo momento i suoi ingenui sentimenti si sono scontrati con la dura realtà. Takaki ha costruito una barriera invalicabile attorno a sé, ferendo gradualmente non solo se stesso in prima persona, ma anche tutti coloro che hanno provato ad approcciarsi a lui. Questa condizione nel protagonista è continuata a perdurare anche diversi anni dopo l'università, avendo problemi non solo nelle relazioni sociali e nel lavoro, ma anche influenzando negativamente i rapporti amorosi conseguentemente instaurati con altre ragazze. Tutta questa malinconia, questa tristezza è dovuta essenzialmente al fatto che il protagonista non è riuscito a superare il suo complesso stato d'animo e soprattutto non è riuscito a confidarsi mai con nessuno, restando imprigionato e legato incessantemente ai propri sentimenti.

Questo complesso impianto costruito da Shinkai, è coadiuvato dalla realizzazione di ottimi disegni, i quali sono riusciti a esprimere al meglio gli stati d'animo dei protagonisti, riuscendo a far immedesimare profondamente lo spettatore in tutta la narrazione riportata all'interno dei due volumi. Disegni che sono inoltre nettamente superiori a quelli che abbiamo apprezzato nell'anime. Un altro elemento molto interessante è l'utilizzo di una matrice spazio-temporale davvero molto limitata e poco dettagliata nel suo insieme, poiché in soli due volumi, lo spettatore ha assistito ad un arco temporale che ricopre ben quindici anni. Sebbene si tratti di tantissimo tempo, Shinkai è riuscito lo stesso a dare rilevanza a quegli aspetti più importanti che hanno consentito di avere una visione generale piuttosto soddisfacente, attraverso una caratterizzazione direi pressoché perfetta e accurata dei seppur pochi personaggi e di una trama piena di sfumature interessanti e malinconiche.
D'altronde anche il finale lascia un alone di mistero attorno al manga, che però segue i toni tristi e malinconici che abbiamo potuto apprezzare durante il corso di tutta la serie. Resta solamente un interrogativo, a mio modo di vedere, molto importante: se Shinkai avesse ambientato la storia ai giorni nostri, con l'avvento delle tecnologia moderne, la vicenda avrebbe preso effettivamente questa piega?

Naturalmente questa è un'altra storia, ma credo ci sarebbero stati più e più vie per mantenere un legame bellissimo che si è spezzato incessantemente col tempo… Prima di decidere il voto, ho riletto più e più volte molte parti del manga, perché dare il massimo dei voti significa comunque che l'opera abbia centrato correttamente delle tematiche molto importanti in modo adeguato e che poi soprattutto sia riuscito a dare un'impronta vigorosa sia alla trama che ai personaggi... e penso che in questo frangente Shinkai ci sia riuscito alla grande!
Il mio voto è il massimo... 10!

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Volevo essere trovata da qualcuno, ed è andata proprio così!
Ruka

«I figli del mare», film del 2019 che traspone il manga, omonimo, di Daisuke Igarashi, è la storia delle vacanze estive di Ruka, o meglio la storia di quella vacanza.

La storia della vacanza estiva che porta fuori dall’infanzia, la vacanza estiva in cui, sul limitare fra infanzia e adolescenza, ancora con le sbucciature sulle ginocchia, si passa attraverso mutamenti e trasformazioni. Un tòpos ricorrente e già ben esplorato nella narrativa. Ma il lungometraggio uscito dalla regia di Ayumu Watanabe è anche o soprattutto, lo scrivo senza alcuna ironia, un “pezzo di bravura”: butta in pasto allo spettatore una gran quantità di suggerimenti, richiami, allusioni e lo trasporta quasi “di peso” in un oceano stupefacente e primigenio, sotto l’incantesimo delle immagini e delle musiche, quelle bellissime uscite dal talento e dall’esperienza di Joe Hisaishi.

In questa estate, calda e vibrante, la giovane protagonista, in difficoltà a scuola e a casa, sarà chiamata a prendere parte ad un evento straordinario, coinvolta in un qualcosa di misterioso e grandioso dai due “bambini del mare” del titolo: Umi e Sora, i cui nomi evocano l’oceano e il cielo. Due fratelli diversissimi: con la gradevolezza e l'innocenza dell’infanzia il primo, con le asperità e la rudezza dell’adolescenza, il secondo. Attorno a questo trio ci sono i genitori di Ruka, evidentemente una coppia in crisi, e una piccola rosa di personaggi appena abbozzati, ognuno a rappresentare un’idea, ognuno ad aggiungere il proprio frammento alla narrazione. Il character design di Ken'ichi Konishi, aderente ai disegni di Igarashi, è molto efficace e suggestivo, anche su quei personaggi dall’espetto meno gradevole.

Quale sia questo “grande evento”, che significato abbia, ma anche cosa avvenga “realmente” e cosa no è lasciato allo spettatore: il film è volutamente criptico, dà una serie di elementi, ma non arriva fino a dare una versione univoca, e io ho avvertito questo fatto come un pregio.

Non è un film perfetto e nemmeno un film per tutti i gusti: il mio voto è tanto alto perché, l'ho scoperto guardandolo, quel che volevo da un film del genere era proprio farmi suggestionare dalle belle immagini e dalla capacità di inserire riferimenti a tante e diverse mitologie, dal saper rendere la diversità degli animali marini e l’impressione che fanno su noi umani. Certo, avessi cercato una trama solida e coerente, il mio voto sarebbe stato più basso. Perché la trama è molto inverosimile già a partire dai due fanciulli allevati in mare dai dugonghi... Arduo rendere questa storia credibile, se il regista avesse provato a farne una narrazione con pretese di congruenza, avrei probabilmente storto il naso. Così come davanti ad altri temi presenti: misticismo, panteismo (e panspermia), l'ecologismo anni ‘70, quello della teoria di Gaia. Insomma: c’erano tanti modi per raccontare questa storia e farmi arrabbiare e, invece, Ayumu Watanabe mi ha mandato in “brodo di giuggiole”. Ha realizzato un film talmente immaginifico da rendere ogni incongruenza irrilevante ai fini della fruizione: se si ama il mare, è difficile non farsi letteralmente rapire da quanto passa sulla schermo, soprattutto se lo schermo è quello di una sala cinematografica; io ho avuto modo di vederlo la prima volta così, e sono rimasta quasi senza fiato.

Ultima nota: tra i tanti temi che tocca «I figli del mare» c’è anche quello della narrazione e della parola. Se da un lato viene ribadito più volte che la parola è insufficiente a esprimere l’umano, dall’altro questo è un film sul potere della narrazione: è un film intorno a una ninna nanna, un film che raccoglie tanti racconti di diversa provenienza, che rafforza, con le immagini e la musica, proprio la parola.

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Se ripenso ai retroscena personali che hanno portato alla creazione di questa recensione non posso che sorridere guardando ai contenuti di «Colorful» e alla loro profondità. Eppure, nel meraviglioso mondo dell’animazione giapponese, può capitare che dai colori nero e marrone feticisticamente esaltati si possa passare alle infinite variazioni di tonalità che la vita ci riserva e che «Colorful» così intensamente ci insegna.

Il primo impatto cromatico che ci presenta il film però è un ibrido quanto profetico grigio; in una smorta anticamera assimilabile a una specie di Purgatorio infatti abbiamo un’anima (che non vedremo mai in faccia né conosceremo di nome) che, mentre sta per avviarsi al ciclo di trasmigrazione che la porterà a reincarnarsi in un nuovo essere, viene fermata da un ragazzino. Quest’ultimo si presenta come Purapura e gli annuncia che a lui è stata garantita una seconda occasione: tornerà nel mondo dei vivi nei panni di un ragazzo delle scuole medie chiamato Makoto Kobayashi, morto da poco suicida, e lì dovrà ricordare quale grave colpa ha commesso in vita per ottenere in questo modo una nuova esistenza. L’anima peccatrice è riluttante all’idea ma, obbligato dal ‘Capo’ di Purapura, si ritroverà giocoforza nel corpo di un redivivo Makoto a vivere l’esperienza della vita di questo giovane sconosciuto, con tutti i piaceri ma, soprattutto, i tormenti che ciò comporta.

Già, perché la vita del giovane Makoto non ha certo gli aspetti di quello che potrebbe essere considerato un premio: timido e insicuro, Makoto è un ragazzo che non ha nessun amico, vive in una famiglia disfunzionale dove ogni membro sembra chiuso nel proprio egoismo e ha una vita scolastica contrassegnata da atti di bullismo e delusioni legate a una sua compagna verso la quale nutre un amore non corrisposto. Attraverso la vita di Makoto il film propone una forte denuncia della realtà odierna della società giapponese e dei problemi che possono sorgere in una famiglia apparentemente perfetta ma nella quale ogni componente vive un disagio richiudendosi in sé stesso. Ad acuire questa visione arrivano anche le reazioni di Makoto che si dimostra insofferente e incapace di comprendere le difficoltà dei suoi familiari così come gli sforzi che questi compiono nei suoi confronti quando si ritrova miracolosamente salvo dal suo tentativo di suicidio: non perdona al padre la sua mediocrità in ambito lavorativo, non perdona al fratello il disinteresse che sembra dimostrare nei suoi confronti e, soprattutto, non riesce a perdonare la madre per una scappatella con un altro uomo; emblematiche nel corso del film sono le tante e lunghe scene dei pasti consumati dalla famiglia, momenti in cui l’imbarazzo, il silenzio e la vergogna la fanno da padrone mostrando come l’incapacità di comunicare possa nascere e maturare anche tra persone teoricamente così vicine. L’intero film ha una visione estremamente realistica che non risparmia nessuna stortura della realtà quotidiana, dal teppismo alle ragazze minorenni che vendono il proprio corpo eppure, pur essendo apparentemente permeato da un forte disfattismo, riserva comunque spazio alla speranza e alla possibilità di cambiare con le giuste motivazioni in grado di scuotere il nostro animo. Può essere una forte litigata, una chiacchierata sincera o una nuova inattesa amicizia a smuoverci, ciò che importa è non abbandonarsi mai alla disperazione, messaggio trasmesso anche dal titolo del film che ci suggerisce come ogni essere umano non abbia un solo colore ma tanti diversi, che non bisogna rifuggire bensì conoscere e imparare ad accettare. La parte di film che esprime questi concetti è sicuramente quella che mi è piaciuta di più e che compensa certamente una parte iniziale molto lenta e piuttosto pesante da guardare, complice soprattutto l’insopportabile atteggiamento del protagonista devo dire, in un film che raggiunge complessivamente le due ore e che alla lunga sembrano farsi sentire fin quando un intuibile, ma riuscito, colpo di scena getta una nuova luce carica di positività sulla pellicola rendendo molto più appagante la sua visione. Alla buona riuscita del lungometraggio poi contribuisce anche una sapiente scrittura di tutti i suoi personaggi i quali, carichi di insospettabili debolezze e sorprendenti punti di forza, risultano non solo preziosi nella maturazione di Makoto ma anche nella trasmissione del pensiero del film data la loro natura multicolore e mai monocromatica.

Più difficile, ma non impossibile, è invece muovere delle critiche al lato tecnico del film che regge ed esalta il livello dei temi che vuole raccontare. Prodotto dagli studi Sunrise e Ascension, «Colorful» è un film del 2010 ispirato all’omonimo romanzo di Eto Mori e diretto da Keiichi Hara, qui alla sua prima, e riuscita, prova con un’opera dalle tematiche adulte che si distanziasse dalle sue esperienze precedenti legate soprattutto al brand di «Crayon Shin-chan». Il lavoro di Hara è indubbiamente efficace nel rappresentare i concetti del film col suo taglio realistico, i tanti silenzi e tempi morti che riempiono la scena e pure quei pochi frenetici momenti che spezzano questo precario equilibrio, ed è aiutato in questo dal character design di Atsushi Yamagata, un bel tratto pulito ed estremamente realista che si allontana dal tipico stile giapponese riuscendo a restituire fedelmente le espressioni dei personaggi, così come le loro emozioni. Le semplici ma funzionali animazioni e i tanti fondali composti soprattutto da scorci urbani, accompagnati anche da alcune foto che ritraggono riproduzioni reali di treni e mezzi di trasporto d’epoca, completano infine un’opera dove gli unici elementi che stonano sono alcuni inserti in CG, ed è un peccato che uno di questi sia praticamente la prima cosa che si vede nel film dando un’impressione iniziale tutt'altro che positiva. Discorso opposto da fare invece per la splendida colonna sonora di Kō Ōtani i cui brani struggenti e malinconici fanno da supporto ideale alle vicissitudini di Makoto e compagni impreziosendo ulteriormente i momenti più emozionanti del film. Nota dolente della produzione del film invece mi è sembrato il doppiaggio giapponese della pellicola, strano da dire perché raramente negli anime ho incontrato casi in cui lamentarmi eccessivamente del doppiaggio originale, di solito sempre curato e adatto allo scopo, ma in questa occasione non posso dire lo stesso; quasi tutti i personaggi principali sono doppiati da attori adolescenti (alcuni esordienti e mai più riascoltati in altre opere) più o meno della stessa età dei personaggi nell’ulteriore sforzo, probabilmente, di ricreare un’atmosfera quanto più realistica possibile all’interno del film, ma le loro interpretazioni mi hanno convinto poco nel complesso sembrandomi spesso troppo forzate o incapaci di trasmettere le sensazioni che il momento che si prefiggeva.

Questo elemento negativo, e potenzialmente non oggettivo tutto sommato, non ha comunque inficiato la buona riuscita della pellicola sorretta da una sceneggiatura e una regia in grado di sopperire a queste ed altre eventuali piccole lacune. «Colorful» è un prodotto molto profondo e introspettivo, un film probabilmente ostico per riuscire a far breccia nel grande pubblico (lo dimostra anche il fatto che, nonostante scriva questa recensione a dieci anni dalla sua uscita, sia ancora inedito in Italia) ma che, anche per questo, è giusto sostenere e diffondere quando possibile data la potenza del suo messaggio, una preziosa ode alla vita in ogni suo aspetto da vedere e custodire nell’animo come merita.