Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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“Ranking of kings” gioca molto sui contrasti, ma ci marcia un po’ troppo.

L’idea di mettere un bambino sordomuto, ingenuo e paffutello, che si presenta con un sorriso stampato sul volto, in situazioni difficili e cruente, sicuramente fa presa sullo spettatore, ma alla lunga diviene irritante (e poi non è che il soggetto sia così tanto originale). Buona è l’alchimia che si forma tra il protagonista Bojji e la creatura del clan delle ombre Kage, i quali diventano quasi simbiotici; interessante la storia “prequel”, che viene raccontata grazie a una serie di flashback; discreto l’epilogo, ma tutto lo sviluppo della narrazione, che conduce a quel finale, è praticamente un disastro.
Devo dire che la storia parte bene , perché ha un’ambientazione simile alla “Il trono di spade” (dal quale scopiazza un po’ di personaggi e situazioni) e i primi episodi mettono in scena una serie trame e intrighi, che fanno sperare di trovarsi di fronte a un’opera di ampio respiro (il cui manga è ancora in corso), con uno sviluppo complesso, ma avvincente, con un intreccio ricco di misteri da svelare e colpi di scena da vivere e in grado di coprire con maestria interi archi narrativi, e instilla quindi nello spettatore l’aspettativa di trovarsi di fronte a una nuova epopea fantasy. Purtroppo, dopo pochi episodi, queste speranze si dimostrano solo delle mere illusioni, che inevitabilmente conducono a una grande delusione.

Le cospirazioni e le sotto-trame si rivelano effimere, poiché nascono e si esauriscono nell’arco di un paio di puntate, e sembrano avere il solo scopo di allungare la storia. Gli intrighi, poi, non avvengono in luoghi oscuri, lontano da occhi indiscreti o tramite missive dove il portatore rischia la vita, ma alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, utilizzando una tecnica tanto arcaica quanto arcana, e cioè... parlandosi nelle orecchie.

Diciamocelo chiaramente, le opere fantasy e sci-fi consentono a un autore di avere numerose licenze rispetto alle leggi della natura e della logica, tuttavia l’abilità di chi le scrive sta nel saperle gestire e soprattutto renderle plausibili, in quello che è l’universo che egli stesso ha creato, perché queste ambientazioni non possono diventare la scusa per buttarci dentro la prima idea che può passarti per la testa, presa magari dai cartoni animati visti durante la propria infanzia o da quelli più famosi del momento. In “Ranking of Kings” ci sono delle cose che sono spiegate bene (e sono quelle che ti illudono), ma altre cose che sono assolutamente prive di senso.

Il motivo per cui il protagonista sia così piccolo e debole rispetto ai genitori, per quanto apparentemente assurdo, è invece ben motivato e “reso” plausibile dalla narrazione, ma di contro l’abilità di Bonji di schivare i colpi con la stessa velocità di Goku di “Dragon Ball” o Pegasus de “I Cavalieri dello Zodiaco” (scegliete voi chi più vi aggrada) viene giustificata dal fatto che il bambino, in quanto sordo, sia diventato veloce per riuscire a leggere la labbra (elementare, Watson!).

I comportamenti di alcuni personaggi secondari sono totalmente assurdi che si spiegano come una serie di goffi tentativi, da parte dell’autore, di creare dei colpi di scena, che dovrebbero far sobbalzare lo spettatore dalla sorpresa, ma che invece lo lasciano semplicemente interdetto. C’è sicuramente un chiaro tentativo da parte dello sceneggiatore di evidenziare il conflitto tra “necessità”, “doveri”, “sentimenti” ed “etica” che alberga in molti dei coprotagonisti (non in Bojji, che è sempre coerente con sé stesso), ma il modo in cui ciò avviene è totalmente confusionario e arruffato, perché è un continuo “agire”, “pentirsi di aver agito”, “pentirsi di essersi pentiti di aver agito”. Si assiste così ad esecuzioni che vengono commissionate e poi sospese, senza un intervento esterno e senza una vera motivazione; alleanze che si fanno e disfano nell’arco di qualche minuto; traditori che tradiscono, ma poi aiutano i traditi, pur rimanendo alleati con i cospiratori; personaggi che vengono feriti durante la battaglia, e, appena recuperano, invece di riprendere lo scontro, vanno a fare un po’ di casino nel villaggio; eroi esanimi, a cui manca solo il colpo di grazia, che vengono graziati, perché l’avversario scopre di aver altro da fare...

In questo anime si rovesciano con disinvoltura fiumi e fiumi di lacrime e sangue, poiché vi si alternano scene crude che coinvolgono anche il protagonista ad altre toccanti. Tuttavia, più si va avanti con la narrazione e più aumenta la percezione che tali scene siano forzate, e in alcune di esse si intravede anche il tentativo di farle diventare “iconiche” (e spendibili anche a livello di marketing), in una sorta di fanservice “emotivo”. È anche difficile capire a quale target di pubblico sia indirizzata quest’opera, visto che la struttura da fiaba, con tutte le incongruenze annesse e connesse, può renderla sì adatta alla fascia dei più giovani, ma anche lasciare perplessi i più grandi. Di contro, tutta quella truculenza non la rende di certo ideale per i più piccoli.

La storia è divisa in due parti, piuttosto diverse tra di esse.

La prima è incentrata tutta sulla ben assortita coppia Bojji/Kage: entrambi emarginati, uno a causa dei suoi problemi fisici, l’altro perché appartenente a una razza reietta, i due svilupperanno inizialmente un insano rapporto “preda/predatore”, che renderà ancora più difficile la vita del principe, ma presto Kage diverrà “guardia del corpo”, “voce”, “fido scudiero” e quindi “compagno di avventure” del piccolo reale.
Una delle più grandi pecche di questa prima parte è che, in ogni puntata, non manca una scena in cui il protagonista non pianga. C’è addirittura un motivetto che parte un attimo prima che i suoi occhi comincino a diventare lucidi. Non so quale sia il suo nome di questo jingle nella OST, però potrebbe tranquillamente chiamarsi “Le lacrime del principino”. Il problema di queste scene è che, dopo qualche episodio, cominciano a sembrare cosi artificiose, da portare alla mente un cabarettista che, a fine serata, inizia a chiamare l’applauso a un pubblico ormai stanco di sentire la stessa battuta.

Nella seconda parte la coppia Bojji/Kage viene un po’ accantonata, a tutto vantaggio della storia “prequel” (che è la migliore), e acquistano più visibilità altri personaggi secondari. In questo passaggio di testimone, non manca comunque il passaggio del “lacrimone”.
Visto che il più grande difetto della serie risiede proprio nei collegamenti, tra un arco narrativo e l’altro, e tra il principio e la fine, l’essenzialità dei flashback, di cui è ricca la seconda parte, rende quest’ultima molto più comprensibile e scorrevole, e in qualche modo salva il finale.

Dato che Bojji parla solo per mezzo di Kage, e visto che ci è precluso il suo monologo interiore, si forma un curioso paradosso per cui, invece di vedere la realtà dal punto di vista del protagonista, cosa che è la norma in ogni racconto, ci troviamo a vederla da un punto di vista invertito (sappiamo più come il mondo vede lui, che non viceversa), tuttavia c’è un momento dove, finalmente, la prospettiva si ribalta e, per pochi fotogrammi, osserviamo come il bambino “sente” tutto ciò che lo circonda.
Questa è una bella trovata, ma poteva essere usata molto meglio e in un contesto meno marginale.

Come già accennato in precedenza, tantissimi e un po’ spropositati sono i rifermenti a serie e animazioni fantasy più o meno recenti, dei quali sono degni di nota: uno scontro con la tecnica del “movimento tridimensionale” usata contro un gigante (va beh, dai, fatta dalla studio WIT ci può stare) e la versione rossa del drago Shenron.

Il comparto sonoro è discreto, di cui la seconda opening ottima. La componente grafica è peculiare, molto probabilmente disegnata per ricordare le illustrazioni dei libri per l’infanzia, e presenta fondali essenziali e piatti (che quasi cancellano la profondità), assieme ai quali gli stessi personaggi tendono a fondersi. Anche il design di Kage gioca su questo “contrasto/fusione” (dovrebbe chiamarsi sincretismo) bi-tri dimensionale, magari c’è un motivo particolare, magari no.

Per concludere, “Ranking of Kings” è un anime fatto di ombre (molte) e luci (alcune anche buone), e, al di là di tutta una serie di difetti narrativi e sovra-drammatizzazioni, riesce a far nascere una certa empatia verso i due protagonisti; non manca inoltre qualche momento umoristico (alcuni dei quali totalmente involontari), che rende più piacevole la visione. Alla fine il mio voto supera la sufficienza.

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“Il mondo è pieno di bestie spaventose, piccola mia...”, disse chiaro e tondo l’anziana signora, nonna premurosa, forse troppo, di una ragazzina piena di sogni, frustrazioni e difficoltà.
“...eppure, c’è del buono, là fuori, padron Frodo, e vale la pena lottare per esso!”, esternò a cuore aperto il fiero e coraggioso Samvise Gamgee, in uno dei momenti più toccanti de “Il Signore degli Anelli”.
Sembrano due cose che non hanno niente a che fare l’una con l’altra, invece un legame, per giunta profondo, ce l’hanno eccome: sono i due lati di quella medaglia chiamata Esistenza. Entrambi modi di vedere il mondo, leggere la quotidianità, passarci attraverso, capirne la realtà, chi ci circonda, ciò che ci accade.
Ma si sa, lottare costa fatica, spesso più mentale che fisica, e allenare la mente è ben differente dall’allenare il corpo.

Ordunque, eccoci qui: colonna sonora frizzante, variegata, ricca di motivi rapidi, altisonanti e orchestrati, ma costellata anche da note cupe, lente, grigie, compassate. Ad ogni attimo viene donata la traccia sonora adeguata, gran punto a favore dell’opera.
Parimenti, colpisce subito un comparto grafico stellare: animazioni fluide, colori brillanti - quasi abbaglianti nella loro fulgida bellezza - e una cura maniacale nei dettagli sono il tecnico biglietto da visita degli autori di “Josée, la tigre e i pesci”.
Immersi da subito in questi elementi dalla grande squisitezza artistica, note pacate, sottili e inizialmente delicate sostengono l’incipit passo passo, accompagnando animazioni accattivanti dal design fra il minimale e il moderno, forti di una spigolosa, adescante fluidità. Notiamo di rado l’utilizzo della CG, prevalentemente impegnata per animare mezzi meccanici o elementi mobili dei fondali, perfettamente integrati con l’ambiente: insomma, una delizia per gli occhi e per le orecchie, capace di incorniciare adeguatamente la complicata storia urbana e adolescenziale - a cavallo fra sogni di un futuro incerto e difficoltà legate al presente - che andremo a principiare.

In una calda estate fra strade di periferia ricche di silenzi, vicoli assolati e cicale sommesse, mentre sullo sfondo si staglia l’incessante, roboante caos della metropoli che mai assapora tregue, si dipana la storia di due giovani ragazzi: Tsuneo, universitario squattrinato in cerca di lavori e nuove esperienze, e “Josée” Kumiko, fanciulla disabile costretta sin dalla nascita sulla sedia a rotelle. Spaventata dal mondo fuori dalle mura domestiche a causa di una nonna troppo protettiva che da anni si prende cura di lei, Kumiko vede “tigri” ovunque: persone scortesi, aggressive, amalgamate a quella metropoli che le è stato insegnato essere troppo pericolosa, esasperata, incapace di accettarla; tigri più d’animo che d’aspetto, insopportabilmente normodotate, capaci di muoversi sulle proprie gambe, pronte a discriminare, puntare il dito, o peggio ancora sfoggiare falsi sorrisi di cortesia pronti a tramutarsi in penosa compassione, stoccate capaci di ferire più di qualsiasi offesa.
Iniziare la visione di quest’anime ci prepara inevitabilmente ad andare incontro a un tema molto toccante e complesso come quello della disabilità quotidiana. Kumiko, nonostante voglia mostrarsi forte e pronta ad affrontare ogni genere di periglio, si sente insicura e spaventata da ciò che potrebbe decidere di sfidare ma non fronteggia mai, tenuta in bambagia sotto l’iperprotettiva campana della nonna, tuttavia inevitabilmente scalpitante, ricca di una fantasia sfrenata e di un tocco artistico invidiabile, che sfocia (sfoga) in numerosi disegni e illustrazioni: adora il mare, gli animali acquatici e tutto ciò che ha a che fare con l’oceano. Sogna avventure impossibili, come andare a visitare le profondità del Pacifico tramite curiosi viaggi onirici, o di nuotare fianco a fianco con delfini, balene e meduse, tutto questo proiettato nella sua testa dall’immensa fantasia che possiede, chiusa nella piccola stanzetta di casa, al piano terra.
Come spesso accade in questi casi, in chi soffre così tanto e si tiene dentro tutto, o in chi è spaventato ma crede che mostrare le proprie debolezze possa annientarlo totalmente, si crea una sorta di “comfort zone” per tenere ogni cosa sotto controllo, finendo per “indossare” una corazza d’apparente sicurezza rinforzata da modi bruschi e severi, spigolosità caratteriali che si suppone siano necessarie per sopravvivere nella giungla delle tigri, alias lo “spaventoso” mondo esterno. Come ricci spaventati, irti fuori, vulnerabili dentro, ci si chiude a palla, tenendo lontano ogni elemento che possa ferire le proprie intimità.
Per un (buffo) motivo fortuito, Kumiko farà presto conoscenza con Tsuneo: il ragazzo, sempre in cerca di denaro per finanziare il proprio futuro, si ritroverà a lavorare proprio a casa della ragazza, per prendersi cura di lei - sotto espressa richiesta della nonna.
Ecco le prime complicanze: lei si fa chiamare Josée, proprio come la protagonista di un libro che adora, e di lui non vuole proprio saperne. Il loro primo incontro, complice anche l’autodifensiva reticenza della ragazza (e innescato da una gag tanto banale quanto classica), non spingerà Kumiko a stringere subito amicizia, ma ella comincerà ad avvicinarglisi non appena scoprirà che Tsuneo possiede una sconfinata passione per le escursioni subacquee: osservare le meraviglie marine da così vicino, cosa può esserci di più bello? Sembra destino: galeotto, sarà il mare a far scoccare la prima scintilla d’interesse fra i due. La passione per gli oceani sterminati, per i pesci più rari e colorati, i luoghi esotici e misteriosi... tale inevitabile fascino attrarrà la titubante ragazza, facendo (in parte) cadere i muri di reticenza e diffidenza che da sempre erige verso il prossimo.

Lo studio psicologico dei protagonisti è davvero curato: la loro evoluzione caratteriale avviene in maniera naturale, spontanea, per nulla forzata, è un vero piacere seguire la vicenda che, soprattutto nella parte centrale, scivola via come un’onda sospinta da brezza mattutina, fra vicende di cuore, lavoro e speranze per il futuro, alti e bassi, sogni e paure, sfiorando il cuore dello spettatore delicatamente ma insistentemente: una vera e propria poesia in movimento.
La composizione di colori, in combinazione con la colonna sonora e i vari momenti narrati sapientemente all’interno dell’opera, donano frangenti di intimità davvero commoventi: una fragile, vibrante storia sentimentale che cresce lentamente fra righe d’insicurezza e voglia di afferrare il futuro a piene mani, dolci attimi di gelosia e continue scoperte di sé stessi e di ciò che li circonda. Gli ingredienti ci sono tutti, e vengono adoprati sapientemente. Così scopriremo che la nonna iperprotettiva e troppo coriacea in realtà nasconde - come tutti - determinate e plausibili motivazioni, e che Tsuneo comprenderà molto più a fondo e a sue spese la vera sofferenza che Kumiko affronta silenziosamente ogni giorno, un espediente narrativo che farà da cardine a tutta la vicenda, e che cambierà le carte in tavola senza preavviso.

“Josée, la tigre e i pesci”, come spiegato poc’anzi, possiede un’evoluzione dei personaggi eccezionale, realistica, meravigliosamente intensa, emotivamente potente e molto plausibile, nonostante alcune circostanze tendano ad essere idealizzate per trarne un quadretto piacevole e leggero, con il sospetto che nella vita reale situazioni analoghe possano invece sortire difficoltà di non poco conto, probabilmente più aspre e dolorose.
Kumiko si troverà quindi “costretta” ad affrontare i suoi demoni - pardon, tigri, ancora una volta, metaforicamente, e, buffo a dirsi, addirittura fisicamente, quantomeno a distanza. I pesci invece saranno compagni di sogni, desideri impossibili, fantasie messe su carta che la condurranno lungo un cammino difficile ma ricco di prospettive interessanti.

Per quanto l’intera vicenda sia stata pensata e costruita con grande abilità, la sezione centrale rimane senza dubbio quella più intensa, realistica e vivida, capace di far immedesimare al massimo lo spettatore, che con un minimo di empatia può riuscire a percepire il groviglio di combattute emozioni in cui i protagonisti continuano a districarsi.
Assurdo a dirsi, ma la parte forse meno incisiva risulta proprio il finale: dolce, aperto, tranquillo, pertinente e, diciamo, “giusto”, ma privo di quel mordente e di quelle emozioni che, probabilmente, lo spettatore potrebbe attendersi, al termine di un percorso narrativo di enorme qualità tecnica.
Rimane tuttavia un’impronta indelebile, una stretta al cuore e una lacrima che va asciugata con gentilezza, perché a questo mondo esistono certe cose che, nella loro dolorosa complessità e sofferenza, non possono essere giudicate ma soltanto comprese, osservate e accettate.

Diamine, là fuori sarà anche pieno di bestie spaventose, ma presto o tardi la tigre deve essere affrontata, se si vuole vedere il mare.

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Lui, Shōya Ishida, è il fighetto della classe. Lei, Shōko Nishimiya, è troppo gentile e graziosa per essere vera. A parole mai si potrebbe accettare che una ragazzina così buona, appena arrivata nella nuova classe, possa essere discriminata per il fatto di essere sorda. Invece, proprio come nella realtà, succede. Shōya ci appare subito come il primo responsabile, ed effettivamente i suoi maltrattamenti sono senza cuore. Ma gli autori ci presentano anche altri responsabili e, a mio avviso, fin da subito viene chiarito che essi si trovano anche dietro la cattedra (ma è un'impressione con la quale non tutti saranno d'accordo). Quali saranno le conseguenze di questi avvenimenti negli anni successivi? Ci saranno, e non saranno poche.

Il punto è che in queste due ore non si parla di bulli e di vittime, di responsabili e di estranei ai fatti. C'è posto per ogni sfumatura umana e il messaggio sembra chiaro: tutti siamo stati sia Shōya sia Shōko, in qualche momento della nostra vita, magari anche solo per un secondo. E probabilmente abbiamo incarnato anche gli altri personaggi, nei loro lati negativi e in quelli positivi, nell'errore e nel rimedio, nella sofferenza e nella felicità. Per questo motivo c'è un che di spiazzante. Credevo di trovare un proclama contro il bullismo in quest'opera, e c'è, ma rimane a fare da sfondo. Nello stesso modo in cui appare ovvio che il bullismo sia sbagliato, la condanna delle azioni ingiuste resta un contorno. Invece le azioni vengono scomposte e contestualizzate, i confini si fanno meno netti, i ruoli diventano meno chiari. E lo scopo non è giustificare ciò che rimane ingiustificabile, ma spiegare ciò che è quotidiano. Trovo che vi sia della didattica in questo film d'animazione, quella del tipo migliore: lasciare che sia lo spettatore ad analizzare i fatti, immedesimandosi, per poi giungere alla propria personale soluzione. L'operazione è rischiosa, perché qualcuno potrebbe giungere a conclusioni troppo distanti da quelle dei messaggi che il film vuole proporre. Ma credo che il punto di forza maggiore stia proprio qui: trattare gli adolescenti come individui capaci di decidere il proprio futuro, dando loro fiducia, parlando con loro di temi quali la discriminazione, la vita, le relazioni, invece di considerarli un insieme di generazioni perdute. Di sicuro il lavoro è dedicato anche agli adulti, ma non posso fare a meno di convincermi che il target specifico siano proprio i ragazzi, anche i più piccoli. Perché anche a undici anni si presentano continue occasioni di decidere per il proprio futuro. Tutti lo abbiamo fatto, quindi perché un undicenne o un diciottenne non dovrebbe essere ritenuto capace? Perché non dovrebbe essere aiutato?

L'aiuto è un tema molto importante, a mio avviso. In questa animazione, a parte blandi interventi, gli adolescenti si aiutano da soli. Se questo da una parte mette in luce ciò che dicevo prima (evidenziando la capacità decisionale dei ragazzi e trattando i temi dell'adolescenza come veri e propri temi di vita vissuta, non meno importanti, veri, profondi e problematici di quelli dell'età adulta), dall'altra sottolinea l'enormità di mancanze che il mondo manifesta nei confronti dei giovani: tra loro stessi, da parte dei genitori, della società e degli insegnanti (e in Giappone è un dettaglio di non poco conto). L'unico spiraglio di più profonda umanità - oltre ai protagonisti principali - ci giunge da un personaggio anziano, e c'è di sicuro un motivo.

I personaggi sono tra loro molto diversi, e quelli in primo piano sono ben caratterizzati. In particolare modo la crescita e la caratterizzazione del protagonista maschile sono entusiasmanti. La protagonista femminile potrebbe apparire a tratti passiva, ma credo che un altro dei punti forti risieda proprio in questa apparenza. Si potrebbe essere condotti a credere che la ripetizione di certi comportamenti manifesti una forma di passività, ma in determinati casi rimanere fermi nella propria posizione significa continuare a fare una scelta coraggiosa e lungimirante.
Dal punto di vista tecnico niente da eccepire. Le animazioni sono di grande qualità. In particolare ho apprezzato l'espressività e le espressioni dei personaggi e il modo in cui sono state visivamente tradotte le insicurezze di Shōya Ishida.

Il voto 10 deriva da tutte queste osservazioni, ma soprattutto dalla prospettiva ampia e coraggiosa che è stata data alla storia. Ha accettato il prezzo di sembrare quasi incompiuta, ma in cambio risulta inclusiva e disarmante. Alla fine, comunque, c'è una scena molto chiara - e da brividi - che dovrebbe chiarire tutti i dubbi su quale sia il tema centrale. Solo quella scena varrebbe ore e ore di visione.