Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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"Made in Abyss" lo aveva già lasciato intendere, lo ha messo in chiaro da subito, "voglio raccontarvi qualcosa di grosso" sembra averci voluto dire. Ha voluto raccontare la storia di una bambina volenterosa di avventura, di scoperta, di ignoto. Ha voluto mostrarci, come se non lo si sapesse già, che la vita - l'Abisso in questo caso - non fa sconti, che ogni cosa ha il suo prezzo, ogni cosa ha il suo valore.

Ilblu è teatro della consacrazione dello svisceramento della definizione di valore, un qualcosa che esiste per ogni individuo, eppure, per ogni individuo significa qualcosa di diverso.

Il trio delle meraviglie, Riko, Reg e la morbida Nanachi, arrivano a Ilblu, un villaggio su cui veleggia uno schermo protettivo dalla Maledizione dell'Abisso che tutela l'interno e i suoi abitanti, i Residui di Ilblu, la cui storia ci verrà narrata tra mille peripezie e pericoli. Ilblu però non è solo un villaggio, Ilblu è una culla materna, un posto unico all'interno dell'Abisso, in cui una certa Faputa, tale Principessa Immortale, non può entrare per motivi più o meno noti, per adesso almeno. Ilblu ha un piano per Faputa, e la realizzazione dello stesso darà corpo e anima a una delle risoluzioni più funeste e controverse a cui sia possibile assistere.

"Valore". Questo è il termine cardine di questo pezzo di storia, questo è ciò a cui girano intorno vita, morte e scelte delle persone. Perché per ciascuno di noi, qualsiasi cosa può costituire una forma di valore, da un pegno che ci ricorda una persona amata, o la persona stessa, a un obiettivo raggiunto tra mille difficoltà.

Valore è tutto. Se "Made in Abyss", finora, ci ha abituati ad accettare, nostro malgrado, che le nostre scelte, i nostri desideri, hanno un prezzo, oggi ci riporta un passo indietro, e allo stesso tempo un passo avanti, spostando la nostra attenzione sull'essenza stessa di quella scelta, di quel desiderio. Ci racconta come tra individui, umani, bestie, residui, strani robot o principesse immortali che siano, esistono dei legami, e sono proprio questi legami a dare forma alla vita, poiché i connettori di questi legami di vita sono proprio le nostre scelte e le nostre brame. Ci riporta indietro e avanti a capire e a ricordare per cosa abbiamo pagato quel prezzo, quanto Valore abbia quel desiderio per noi, un qualcosa che per altri può essere insignificante, e al tempo stesso unico e insostituibile per noi, un oggetto, una persona, un amore, una promessa.

Tra gioie e dolori "Made in Abyss" ci insegna ancora una volta il valore del dolore. Perché soffrire per qualcosa significa attribuire valore a quel qualcosa, fa male sì, ma è tutta una questione di consapevolezza.

Ognuno ha il suo valore da proteggere, da tramandare, da scambiare. E quel valore definisce la nostra individualità, il come decidiamo di stare al mondo.

Opera di valore immenso, meravigliosa, divina. Semplicemente "Made in Abyss".

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“The Deer King” è un film che mi ha convinto a metà. Sotto molti aspetti, è indubbiamente stato fatto un buon lavoro, ma nel complesso, quando sono arrivato alla fine, mi ha dato una certa sensazione di incompiutezza, di un lavoro che avrebbe potuto esprimersi meglio in un progetto di più ampio respiro.

Le premesse narrative sono comunque interessanti e più in generale tutta la prima parte del film è quella che si rivela più coinvolgente. Ci viene descritto un contesto politico e sociale ben definito, e nel mentre comprendiamo la storia dei vari personaggi. Qui a mio avviso si può già avvertire una buona divergenza tra la qualità di un’ambientazione ricca di sfaccettature e un cast di personaggi davvero anonimi. Il film si concentra perlopiù su alcuni temi specifici, quindi il fatto che i personaggi siano totalmente dimenticabili passa in secondo piano, anche se si poteva fare un lavoro decisamente migliore sotto questo profilo.

Per quanto concerne il contesto, si è rivelato abbastanza ispirato e interessante, ma un po’ troppo fine a sé stesso. Le vicissitudini passate delle varie realtà politiche presenti, le differenze religiose, le gerarchie sociali, sono tutte cose molto intriganti, ma in fin dei conti troppo abbozzate per essere valorizzate appieno. Ed è su questo punto che a mio avviso si avverte di più la sensazione che forse la storia meglio si sarebbe adattata ad una serie.

Tecnicamente, il lungometraggio si difende abbastanza bene, soprattutto nella parte finale, quando le vicende si fanno più dinamiche e la regia di Masashi Ando riesce a regalare quel tocco di personalità del quale durante la visione si sente un po’ l’assenza. Molto buona la colonna sonora, mentre il ritmo mi è sembrato abbastanza altalenante. La prima parte del film, come già detto, è quella che funziona meglio, mentre quella centrale a mio avviso è un po’ troppo lenta. Tutta la parte finale è discretamente coinvolgente, se non altro perché quella più movimentata, anche se la sensazione dominante che ho provato alla fine del film era quella di essere di fronte a una storia con delle fondamenta ispirate, ma raccontata in modo poco brillante e attraverso dei personaggi totalmente privi di carisma.

Nel complesso, il film riesce a offrire un’ambientazione ispirata e un lato tecnico e musicale apprezzabile, ma dei personaggi anonimi e un ritmo a tratti debole consegnano allo spettatore una storia in parte inconcludente, da cui era lecito aspettarsi di più, viste le buone premesse. Sullo sfondo, rimangono alcuni temi interessanti: le divisioni sociali, il conflitto religione-scienza ecc., ma sono tutti argomenti di contorno che raramente vengono messi al centro del film, forse troppo ambiziosi per una storia che in troppi momenti sembra mancare di una direzione precisa.

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Come nel caso di “Una tomba per le lucciole”, ci sono voluti mesi e mesi, prima che prendessi visione de “La Principessa Mononoke”, uno dei più celebri lungometraggi targato Hayao Miyazaki, conosciuto e, largamente, apprezzato in tutto il mondo. Da molti considerato il vero capolavoro del sensei, questo è stato il classico caso di film preceduto dalla sua fama. Chiunque abbia un minimo di interesse per l’animazione giapponese conosce “La Principessa Mononoke” e chiunque conosca lo Studio Ghibli lo ha visto almeno una volta nella propria vita. E tutte queste persone concordano su una cosa: “Mononoke Hime” (titolo originale dell’opera) è un autentico capolavoro. L’opera maestra di Miyazaki, in cui quest’ultimo ha condensato buona parte del suo pensiero e dei suoi sforzi, ripagati poi dall’enorme successo che il film ebbe nel 1997, quando uscì nelle sale. Nel corso di questi mesi, dunque, a furia di ascoltare e leggere infiniti panegirici sulla bellezza e profondità di quest’opera, il mio hype è schizzato alle stelle e le aspettative sono salite in maniera esponenziale, come un aereo che si stacca dalla pista e inizia a guadagnare quota in misura sempre maggiore. Il risultato, anche se in alto leggete il numero otto in grassetto, è ovviamente scontato. Per me, il film, complici i più rosei auspici che si sono accumulati nella mia mente, è stato una mezza delusione. Soprattutto se si pensa che un film tanto fiabesco e infantile come “Il mio vicino Totoro”, ben lungi dall’essere un film perfetto o profondo come “La Principessa Mononoke”, è ancora oggi il mio Ghibli preferito, a cui ho attribuito un nove pieno.

Siamo nel Giappone medievale, in una remota terra a Est, dove vivono gli ultimi rimasti del glorioso popolo Emishi. Il protagonista della storia è il principe Ashitaka. Un giorno, il suo villaggio viene attaccato dal dio-cinghiale Nago, ormai tramutatosi in demone, e si vede costretto ad ucciderlo, attirando su di sé una terribile maledizione, che gli ricopre quasi interamente il braccio e si espande sempre di più, minacciando la sua stessa vita. A questo punto, ad Ashitaka non resta che un’unica opzione, mettersi in viaggio per scoprire cosa sta succedendo di tanto grave da mutare uno spirito della foresta in demone e per cercare una cura al male che lo affligge. Avendo come unico indizio il pezzo di metallo che ha ferito a morte il dio-cinghiale, il giovane si dirige verso Ovest. Dopo un lungo viaggio, raggiunge la Città del Ferro, al cui comando si trova una donna, Eboshi. Qui, scopre che gli uomini della città disboscano la foresta per procurarsi le materie prime per la produzione del metallo e, per questo motivo, vengono continuamente ostacolati dagli spiriti della foresta. Per fronteggiarli, Eboshi si è fatta costruire su misura delle armi da fuoco e, proprio con queste, ha ferito a morte Nago. Assieme agli abitanti della foresta che combattono gli uomini, c'è anche San, una giovane ragazza crescita dai lupi, che odia Eboshi con tutte le sue forze. Ashitaka cercherà in tutti i modi di fermare il conflitto fra gli spiriti della foresta e gli uomini, finendo, allo stesso tempo, per innamorarsi di San.

Ora, gusto personale o meno, la mia onestà intellettuale mi impone una doverosa premessa. “La Principessa Mononoke” è, effettivamente, un capolavoro, in cui si nota tutto l’impegno di Miyazaki. E, ancor prima che contenutisticamente, l’opera è un capolavoro di natura tecnica mai vista prima. Sarà che prima era tutto diverso, più tradizionale, sarà che prima si faceva tutto a mano, senza l’ausilio della CGI, sarà che, visivamente parlando, i film Ghibli sono sempre una gioia per gli occhi, ma per me “La Principessa Mononoke” è tecnicamente ineccepibile. Le ambientazioni, che ci raccontano di un Giappone medievale, sono stupende e riescono a coinvolgere completamente lo spettatore. Le animazioni sono di una fluidità e pulizia inusitate. I fondali sono sublimi e l’uso, oserei dire obbligato, di colori vivaci, come il verde e l’azzurro, tendono a conferire all’opera quell’aura magica, riscontrabile sono negli altri lavori dello stesso Miyazaki e in nessun’altro regista. Raramente, anzi mai, mi sono trovato dinanzi a un lavoro di questo tipo. Magari per voi la perfezione non esiste, ma per me sì, e questo film, tecnicamente parlando, è perfetto. Per non parlare, poi, delle musiche dell’ineguagliabile Joe Hisaishi. Flauto, pianoforte e violino, questi gli strumenti musicali che ricorrono con maggiore assiduità nel corso del film e contribuiscono alla sua spettacolarità.

Sul piano dei contenuti, siamo dinanzi a una simil summa del pensiero miyazakiano. In questo film, si concentrano alcuni dei temi a lui più cari: l’interesse per la mitologia giapponese, a cui il sensei dà una certa importanza, lasciando spazio ai vari esseri viventi che abitano la foresta, come i kodama, i teneri spiritelli che risiedono negli alberi; l’emancipazione femminile, che vede le donne svolgere un ruolo di primaria importanza nella Città del Ferro, quello di far funzionare la fucina e permettere, dunque, la costruzione delle armi da fuoco; e infine, il tema più importante e sentito, l’amore per la natura e lo scontro che quest’ultima ha inevitabilmente “ingaggiato” con l’uomo. Un tema che, oggi più che mai, sentiamo vicino a noi. Un figlio che non riesce a prendersi cura della propria madre, che gli ha dato la vita, e un luogo da chiamare casa, che lo ha cresciuto amorevolmente, dandogli tutto il necessario per vivere e sopravvivere. Un figlio irriconoscente, a cui non sono bastati i doni affettuosi della madre. Un figlio insaziabile che, per cercare di avere l’impossibile, ha sfidato la propria madre e le sue leggi, arrivando a uno scontro inevitabile e doloroso, per entrambi. Questo perché, come si dice nel film, desiderare ogni cosa che stia in cielo o in terra è il destino dell’uomo. Questa è la situazione in cui si trovano uomo e natura. Una situazione da cui è possibile venir fuori, perché le guerre possono essere fermate, se lo si vuole davvero. “La Principessa Mononoke” ci parla chiaramente di questo conflitto e di questa inconciliabilità, ma soprattutto traccia la strada da prendere, per porre un rimedio a tutto ciò. Un messaggio forte e attuale, per un’opera fortemente didascalica, che meriterebbe di essere studiata a scuola.

Seppur nella sua grandiosità, però, il film presenta, a mio avviso, delle grosse pecche a livello narrativo. A tratti confusionario e poco lineare, ma soprattutto incomprensibile. Sono diversi i passaggi intermedi che, ancora adesso, faccio fatica a comprendere e digerire. Scelte che vengono prese senza una reale motivazione e scene alla Renè Ferretti, capitemi la citazione, che stonano completamente con il resto del film e mi hanno “turbato” per il resto della sua visione. Da questo punto di vista, si poteva fare certamente meglio e, per quanto possa sembrare strano, tanto poco è bastato per non farmi innamorare completamente de “La Principessa Mononoke”.

Nonostante ciò, il danno è lieve e il film resta ugualmente godibile, anzi godibilissimo, anche al netto della sua, non breve, durata. Occhio, però, al doppiaggio cannarsiano, perché quello rischia di rovinarvi completamente l’esperienza. Una volta tanto, andate con il sottotitolato e godetevi questo capolavoro.