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8.0/10
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Avevo già visto e apprezzato ogni singola opera su cui Yuasa avesse messo mano. Nonostante sia un regista molto sperimentale, che allontana la massa per uno stile unico e poco appetibile, i suoi lavori sono senza dubbio l’esempio perfetto di come un regista che osa nel suo talento, e va oltre i classici standard proposti dall’animazione, possa creare dei piccoli capolavori. Già con “Ping pong The Animation”, ”Kaiba” o “The Tatami Galaxy”, Yuasa aveva dato prova di avere quel talento che manca a tanti altri... con “Mind game” aveva toccato l’apice della sua carriera, creando un prodotto che sfidasse la logica stessa.
Per quanto abbia trovato “Kemono Zume” leggermente sottotono rispetto ai sopracitati titoli, il risultato è ugualmente grandioso.

Cominciamo dalla trama: definita come una versione di “Romeo e Giulietta” più surreale e splatter, la serie parla di una travagliata storia d’amore tra Toshihiko, un cacciatore di mostri, e Yuka, un mostro divoratrice di carne umana.

I personaggi sono spesso uno dei punti cardine da cui si riconosce se una serie sia stata curata o meno... in questo caso non si può muovere alcuna critica, perché Yuasa dà una perfetta caratterizzazione non soltanto ai due tragici protagonisti, ma anche e soprattutto ai secondari.
Toshihiko è un uomo che appare leale e fedele, forte e sicuro, ma che, innamorandosi di Yuka, mostra un nuovo lato di sé, apparendo confuso, indeciso e perso; Yuka al contrario è il personaggio più solare e felice, ma che non scade mai in una felicità superficiale. Dall’altro lato abbiamo i personaggi secondari e di contorno, tra cui la grintosa Rie innamorata di Toshihiko, ma non ricambiata, che vive un tormento interiore che non può esplicare, ma che è palpabile attraverso le inquadrature; Kazuma, fratello del protagonista, e Oba, su cui evito di soffermarmi per evitare spoiler.

Quella che presenta Yuasa è quindi una apparente contrapposizione tra due parti: il dojo Kifuuken che addestra valorosi cacciatori, attraverso regole centenarie, e i Flesh Eaters. Non sarebbe errato, forse, vedere il tutto come una metafora, che vede i membri del Kifuuken come l’umanità stessa che, stando dietro alle regole di civiltà, riesce a portare avanti la propria specie, e rischia di perdere la propria disumanità nel momento in cui accantona le regole, per seguire le follie di pochi potenti.
Legata a questo, è palese come una delle tematiche principali sia proprio l’accettazione del diverso.

Oltre a tematiche e personaggi, però, ciò che rende particolarmente bello “Kemono Zume” è l’aspetto tecnico. Abbiamo già detto che il chara e lo stile risultino spesso indigesti ai più, ma non si può negare che l’animazione sia fenomenale: la cura di ogni singola inquadratura regala un dinamismo perfetto ad ogni movimento dei personaggi, elargendo anche la giusta carica emotiva.

Leggendo poi varie interpretazioni sul web, ho notato che in molti hanno ricalcato come la scelta dei colori sia una delle particolarità principali. Come molti sanno, i colori sono spesso associati a determinate emozioni (spesso nel cinema se ne fa uso per infondere quelle determinate emozioni nello spettatore). In “Kemono Zume” la cosa diventa evidente: le scene iniziali nel dojo, quando ancora i membri stanno seguendo le regole di buona civiltà, sono colorate di giallo, per infondere forza; così come quella iniziale in spiaggia è azzurra, per dare un senso di serenità e pace; allo stesso modo, le scene splatter, d’azione, o più brutali sono rosse, colore che richiama il sangue, la rabbia, la passione.

Passando al lato negativo, devo dire che personalmente ho trovato meno convincente il finale. Nonostante, registicamente parlando, l’ultimo episodio sia “follia pura”, mi è sembrato che Yuasa abbia voluto infondere un po’ troppo buonismo nell’epilogo, il che stona un po’ troppo con gli elementi tragici che le puntate precedenti lasciavano presagire. Un vero peccato, perché dà la sensazione di occasione mancata, anche se di poco.

Tuttavia, come ogni altro suo lavoro, consiglio caldamente la visione di “Kemono Zume” a chi ancora non ha avuto la possibilità di vederlo.