Recensione
Jagi - Il fiore malvagio
8.0/10
Recensione di VeganWarrior
-
Questa non è una storia da tramandare.
È una confessione da bruciare.
Ma prima, bisogna leggerla.
Bisogna sentire la pelle tirare, l’odio esplodere, e chiedersi:
se fossi stato io, avrei fatto meglio?
Jagi: il fiore malvagio
Questa non è un’opera che si legge. È un veleno che si inspira a pieni polmoni, un sogno malato cresciuto tra le crepe di un universo dove anche l'amore è un atto di violenza.
Spin-off dedicato a uno dei personaggi più odiati e meno approfonditi di "Ken il Guerriero". Ma stavolta, si cerca di fare qualcosa di diverso, ovvero, capire cosa si nasconde dietro la maschera e la follia di Jagi.
Siamo nell'universo brutale di "Hokuto no Ken", ma questa volta il centro non è la redenzione, né la giustizia, né la forza come mezzo per proteggere. Jagi è la deformità che cresce all’ombra dei miti, l’eco spezzata di un fratello mai voluto, mai accettato.
Narrativamente la struttura è piuttosto lineare, ma ciò permette di concentrarsi meglio sull’evoluzione di Jagi. L’opera si concentra sugli anni prima degli eventi principali del manga originale, mostrandoci un Jagi più umano, ferito e, sotto certi aspetti, persino fragile.
Non si tratta di una giustificazione al suo comportamento, ma piuttosto di una discesa lenta e inesorabile verso l’abisso, un tentativo di mostrarci l’origine dell’odio, del risentimento e del desiderio di vendetta che lo hanno sempre animato.
La sua storia è quella di un uomo che ha scelto di diventare mostro, perché non gli era concesso altro.
Il titolo “Il Fiore Malvagio” è emblematico. Jagi viene rappresentato come un uomo destinato a marcire fin dalla nascita, ma che, in un altro contesto, forse avrebbe potuto germogliare in qualcosa di diverso. Il senso di inferiorità verso i fratelli, una famiglia di eletti, la frustrazione di essere costantemente oscurato, e quel vuoto interiore che ne consegue, lo trasformano in ciò che è. Il concetto è molto chiaro: l’emarginazione genera mostri.
Il tema dell’identità e della disillusione personale è centrale, Jagi si percepisce come inadatto, inutile, debole. E anziché colmare il vuoto, ci affonda dentro, lasciando che lo consumi. Non mancano riflessioni su cosa significhi essere uomo in un mondo dove la forza è l’unica misura di valore, e su quanto possa far male non essere all’altezza delle aspettative altrui.
Jagi è ovviamente il fulcro. Ma ciò che colpisce è che non ci viene mostrato in maniera romanzata o addolcita. È sempre lui, scorretto, sleale, pieno di rabbia repressa. Ma questa volta possiamo seguirlo dall’interno, vederne la debolezza, la fragilità mascherata da arroganza, la solitudine. I personaggi secondari non sono particolarmente approfonditi, e spesso servono da riflesso o da contrasto al protagonista. Alcuni momenti lasciano intuire una voglia di redenzione o almeno di comprensione, ma ogni tentativo si perde nel buio che Jagi stesso ha scelto di abbracciare. Jagi non è un personaggio. È un sintomo. Una ferita aperta, lasciata marcire in un mondo che non ha mai voluto guarire nessuno. La sua sofferenza è sincera, sporca, priva di orpelli.
È l’urlo del figlio che non è stato scelto. Del guerriero che ha imparato troppo tardi a perdere. Del fratello che ha capito che, in un mondo dove si venera la forza, la debolezza è l’unico peccato capitale.
Lo stile grafico è coerente con l’universo di "Hokuto no Ken", anche se più moderno e leggermente meno “estremo” nei tratti. I disegni riflettono questa rabbia, sporchi, tratti duri, volti segnati dal dolore, ombre che sembrano divorare la luce prima ancora che possa filtrare. L’impatto visivo delle scene d’azione non delude, anche se l’opera non punta solo alla violenza, ma anzi tenta un approccio più intimo e psicologico. Bisogna considerare che comunque non è un lavoro curato come la saga di Ken, quindi potrebbe facilmente non piacere. Personalmente non mi è dispiaciuto in quanto mi è sembrato in tema con questa bruttezza interna che il protagonista si trascina.
L’opera non ha alcuna pietà. Ti prende per il collo e ti costringe a guardare ciò che normalmente viene scartato, dimenticato, coperto da un mantello di "non era importante".
La narrazione è scarna, secca, come carta bruciata. Non ci sono spiegazioni lunghe, non c’è redenzione, non ci sono lacrime che salvano. Solo un passato che brucia e un presente che si vendica.
“Il Fiore Malvagio” non è un capolavoro, ma è un’opera inaspettatamente profonda, che riesce a dare dignità narrativa a un personaggio che sembrava solo un villain da dimenticare.
È una lettura consigliata a chi già conosce "Ken il Guerriero" e vuole esplorare una parte di quell’universo da una prospettiva più intima e meno eroica.
Un racconto amaro, malinconico, che ci mostra come anche un fiore, se cresciuto nel fango, può diventare velenoso, e Jagi ci è diventato. Con ogni ossa rotta, con ogni sguardo disprezzato, con ogni volta che ha sentito di essere meno di niente.
"Jagi - il fiore malvagio" non chiede empatia.
Chiede silenzio.
VOTO: 7,8
È una confessione da bruciare.
Ma prima, bisogna leggerla.
Bisogna sentire la pelle tirare, l’odio esplodere, e chiedersi:
se fossi stato io, avrei fatto meglio?
Jagi: il fiore malvagio
Questa non è un’opera che si legge. È un veleno che si inspira a pieni polmoni, un sogno malato cresciuto tra le crepe di un universo dove anche l'amore è un atto di violenza.
Spin-off dedicato a uno dei personaggi più odiati e meno approfonditi di "Ken il Guerriero". Ma stavolta, si cerca di fare qualcosa di diverso, ovvero, capire cosa si nasconde dietro la maschera e la follia di Jagi.
Siamo nell'universo brutale di "Hokuto no Ken", ma questa volta il centro non è la redenzione, né la giustizia, né la forza come mezzo per proteggere. Jagi è la deformità che cresce all’ombra dei miti, l’eco spezzata di un fratello mai voluto, mai accettato.
Narrativamente la struttura è piuttosto lineare, ma ciò permette di concentrarsi meglio sull’evoluzione di Jagi. L’opera si concentra sugli anni prima degli eventi principali del manga originale, mostrandoci un Jagi più umano, ferito e, sotto certi aspetti, persino fragile.
Non si tratta di una giustificazione al suo comportamento, ma piuttosto di una discesa lenta e inesorabile verso l’abisso, un tentativo di mostrarci l’origine dell’odio, del risentimento e del desiderio di vendetta che lo hanno sempre animato.
La sua storia è quella di un uomo che ha scelto di diventare mostro, perché non gli era concesso altro.
Il titolo “Il Fiore Malvagio” è emblematico. Jagi viene rappresentato come un uomo destinato a marcire fin dalla nascita, ma che, in un altro contesto, forse avrebbe potuto germogliare in qualcosa di diverso. Il senso di inferiorità verso i fratelli, una famiglia di eletti, la frustrazione di essere costantemente oscurato, e quel vuoto interiore che ne consegue, lo trasformano in ciò che è. Il concetto è molto chiaro: l’emarginazione genera mostri.
Il tema dell’identità e della disillusione personale è centrale, Jagi si percepisce come inadatto, inutile, debole. E anziché colmare il vuoto, ci affonda dentro, lasciando che lo consumi. Non mancano riflessioni su cosa significhi essere uomo in un mondo dove la forza è l’unica misura di valore, e su quanto possa far male non essere all’altezza delle aspettative altrui.
Jagi è ovviamente il fulcro. Ma ciò che colpisce è che non ci viene mostrato in maniera romanzata o addolcita. È sempre lui, scorretto, sleale, pieno di rabbia repressa. Ma questa volta possiamo seguirlo dall’interno, vederne la debolezza, la fragilità mascherata da arroganza, la solitudine. I personaggi secondari non sono particolarmente approfonditi, e spesso servono da riflesso o da contrasto al protagonista. Alcuni momenti lasciano intuire una voglia di redenzione o almeno di comprensione, ma ogni tentativo si perde nel buio che Jagi stesso ha scelto di abbracciare. Jagi non è un personaggio. È un sintomo. Una ferita aperta, lasciata marcire in un mondo che non ha mai voluto guarire nessuno. La sua sofferenza è sincera, sporca, priva di orpelli.
È l’urlo del figlio che non è stato scelto. Del guerriero che ha imparato troppo tardi a perdere. Del fratello che ha capito che, in un mondo dove si venera la forza, la debolezza è l’unico peccato capitale.
Lo stile grafico è coerente con l’universo di "Hokuto no Ken", anche se più moderno e leggermente meno “estremo” nei tratti. I disegni riflettono questa rabbia, sporchi, tratti duri, volti segnati dal dolore, ombre che sembrano divorare la luce prima ancora che possa filtrare. L’impatto visivo delle scene d’azione non delude, anche se l’opera non punta solo alla violenza, ma anzi tenta un approccio più intimo e psicologico. Bisogna considerare che comunque non è un lavoro curato come la saga di Ken, quindi potrebbe facilmente non piacere. Personalmente non mi è dispiaciuto in quanto mi è sembrato in tema con questa bruttezza interna che il protagonista si trascina.
L’opera non ha alcuna pietà. Ti prende per il collo e ti costringe a guardare ciò che normalmente viene scartato, dimenticato, coperto da un mantello di "non era importante".
La narrazione è scarna, secca, come carta bruciata. Non ci sono spiegazioni lunghe, non c’è redenzione, non ci sono lacrime che salvano. Solo un passato che brucia e un presente che si vendica.
“Il Fiore Malvagio” non è un capolavoro, ma è un’opera inaspettatamente profonda, che riesce a dare dignità narrativa a un personaggio che sembrava solo un villain da dimenticare.
È una lettura consigliata a chi già conosce "Ken il Guerriero" e vuole esplorare una parte di quell’universo da una prospettiva più intima e meno eroica.
Un racconto amaro, malinconico, che ci mostra come anche un fiore, se cresciuto nel fango, può diventare velenoso, e Jagi ci è diventato. Con ogni ossa rotta, con ogni sguardo disprezzato, con ogni volta che ha sentito di essere meno di niente.
"Jagi - il fiore malvagio" non chiede empatia.
Chiede silenzio.
VOTO: 7,8
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