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Kabutomaru

Episodi visti: 1/1 --- Voto 10
La morte per complicanze da Covid-19 del leggendario Kim Ki-duk a soli 59 anni è stata una catastrofe artistica di proporzioni immani, anche se la sua carriera era compromessa a causa del filone sud-coreano del movimento me-too, che ha accusato il cineasta di molestie e violenza contro un'attrice, senza poi che si sia mai giunti a sentenza perchè il tutto è stato archiviato, ma il tribunale dell'opinione pubblica, unito ad un establishment artistico-politico che ha sempre poco sopportato il suo cinema, con varie accuse di misoginia, misantropia e violenza esibita scagliatagli contro sin dai controversi ma rimarchevoli esordi, hanno fatto si che il cineasta venisse ostracizzato totalmente nel paese. Le pellicole di Kim Ki-duk hanno sempre voluto (o comunque cercato di) mostrare l'altra metà dei 180° visibili all'occhio umano, dando forma agli invisibili e agli emarginati della società sud-coreana, ponendosi così in netto contrasto verso il cinema commerciale di Bong Joon-ho, verso il quale aveva ben poco apprezzamento perchè perfettamente livellato al basso livello raggiunto dalla società della Sud Corea (e giustamente noi estimatori di Kim non ci siamo fatti fregare dagli elogi sperticati), non è un mistero che le sue pellicole trovassero apprezzamento per lo più all'estero, grazie soprattutto alla vetrina offertagli dal festival del cinema di Venezia sin da inizio del nuovo millennio, che fece scoprire al mondo del opere di questo genio.

La recensione di Ferro 3 - La Casa Vuota (2004), non era programmata come tributo alla memoria del miglior regista della storia della Sud-Corea, ma di fatto lo diventa alla luce della morte improvvisa e nel totale riserbo che ha contraddistinto il regista durante la sua vita, restio ad ogni baraonda mediatico sociale come i suoi personaggi, specie nella summa artistica rappresentata dal capolavoro immane di Ferro 3, con un protagonista il cui nome mai viene pronunciato (Lee Seung-yeon) chiuso nel suo mutismo interiore, risultando così impermeabile al mondo e a tutto ciò che lo circonda, vivendo un'esistenza vagabonda, portata avanti tramite l'introdursi in case altrui approfittando dell'assenza dei proprietari, per vivere all'interno di esse approfittando dell'assenza dei padroni, compiendo piccole faccende di casa durante la sua presenza (lavare vestiti e piatti) e riparare eventuali oggetti rotti, in una sorta di "ringraziamento silente" per l'ospitalità non richiesta, che diventa unica testimonianza (mai notata) della permanenza in casa del ragazzo.
La regia di Kim Ki-duk riduce i tecnicismi all'essenziale, così come i movimenti di camera e le perfomance sublimi dei suoi due attori protagonisti, facendosi portatore di un cinema che vive di sottrazione per affermare il suo carattere di resistenza al sistema sociale in cui l'individuo è "rinchiuso", giungendo nella ricerca in territori radicali. Il protagonista in tutta l'opera non pronuncia alcuna parola, limitandosi ad andare avanti nella sua routine giornaliera vagabonda, senza meta e senza scopo, intrufolandosi nelle case altrui per trovare un tetto sulla testa con cui ripararsi e garantirsi così una temporanea sopravvivenza, cercando di vivere in tali luoghi con assoluta discrezione senza lasciare alcuna traccia di sè, come se fosse una presenza invisibile, seppur confinata in una corpo "fisico" che vive della propria materialità, della quale il regista tratta la questione con uno stile fresco ed originale, senza sfociare in scemenze new age di certo cinema del nuovo millennio.

La pellicola si pone come un elogio del potere illimitato dello spirito, tramite il quale si possono raggiungere possibilità mai varcate in precedenza, ponendosi in tal modo in netto contrasto con la materialità limitata del corpo umano, vista come una prigione fisica per lo sviluppo umano. Un'entità organica fiaccata dal vivere quotidiano quanto dagli odi e le intolleranze che si consumano nelle quattro mura di casa al riparo da occhi indiscreti, contrapponendo alle miserie e alle vessazioni anche fisiche, dei quadri perfetti dei ritratti familiari, di cui il protagonista sembra farsi ironicamente beffa, tramite degli autoscatti con essi in ogni casa che egli visita. La Sud-Corea viene sviscerata in tutte le proprie ipocrisie, tramite il disvelamento di una violenza abilmente occultata ed invece presente largamente all'interno della società, che si consuma di nascosto tra le pareti delle mura domestiche in modo sistematico e ripetuto; l'intrusione del protagonista in una casa lussuosa, è l'occasione propizia da parte di Sun-hwa (Lee Seung-yeon) di sottrarsi al circolo della violenza abituale da parte del ricco marito (si diletta con la sua mazza da golf Ferro 3, nel fare centro contro un bersaglio nel suo giardino), di cui porta i segni visibili sul corpo per compiere una fuga romantica con un possibile "salvatore", cercando di rifondare la sua esistenza su nuove basi, come dei novelli Adamo ed Eva.
Spartano dal punto di vista della regia, che sempre più si libra andando di pari passo con l'ascesi immateriale del protagonista, per farsi leggera come puro spirito, finendo con l'abbattere ogni restrizione fisico-materiale, sottraendosi in questo modo alle miserie umane, la prima delle quali è sicuramente la violenza, entità da sempre presente nel cinema di Kim Ki-duk, portatrice di danni devastanti con conseguenze spesso permanenti, giungendo così a costruire un processo di catarsi, sfociando per vie metafisiche intangibili di difficile comprensione per lo spettatore comune, cosa che purtroppo ne sancisce anche il sostanziale disinteresse in patria del suo cinema.

Kim Ki-duk comunica un modo di concetti e contenuti, pur non facendo pronunciare alcuna parola ai due personaggi principali, facendo così acquisire a quel sussurrato "ti amo", una profondissima valenza specifica, che spesso risulta sconosciuta nel cinema per via dell'abuso smodato che se ne fà, dandogli una grandissima importanza, imprimendo ad essa il profondo significato sentimentale, con la messa in scena del potere dello "spirito"; suggerendo un'amara verità intrisa di pessimismo; che in fondo per vivere davvero in una società corrotta, ipocrita e violenta, l'unico modo per sottrarsi a tutte queste miserie è scomparire sino a diventare per l'appunto invisibili?
Ferro 3 sospeso tra l'umano ed il sovraumano, traendo forza dal puro potere dell'immagine che non cerca alcuna forma di ermetismo, ma punta a disvelarsi in tutta la sua potenza, può risultare spiazzate per lo spettatore abituato a tutt'altro tipo di suggestioni audio-visive (magari alle baraonde rumorose di certa spazzatura spacciata per cinema tanto per cominciare), ma resta l'apice di tutto il cinema di Kim Ki-duk insieme a Primavera, Estate, Autunno, Inverno... e ancora Primavera (2003), mai più eguagliato successivamente (troppo elevato lo standard raggiunto), regalando all'umanità un autentico capolavoro rivoluzionario ed originale, purtroppo vincitore solo del premio speciale per la regia a Venezia e non di un Leone d'oro che avrebbe assolutamente meritato in quel momento.

Utente109323

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Utente109323

Episodi visti: 1/1 --- Voto 9
L’anno 2020 ci ha portato un’ultima sventura, prima di chiudersi: l’11 dicembre è venuto a mancare uno dei registi orientali più talentuosi delle due decadi passate. Kim Ki-duk si è spento all’età di 59 anni, per complicazioni legate al Covid, in un ospedale in Lettonia. Davvero una triste e prematura fine, passata colpevolmente in sordina fra le tante notizie.
Nonostante la china calante presa negli ultimi anni, molti sono i passati lungometraggi di indiscutibile valore artistico lasciatici dal maestro coreano. Fra tutti, quello entrato con maggior facilità nell’immaginario collettivo, nonché summa del suo cinema, è di sicuro “Ferro 3”, opera fra le più suggestive del panorama moderno e che sfrutto qui per rendere omaggio alla memoria del regista.

In un mondo dove la parola ha perso il suo valore, l’unico modo rimasto per comunicare sembra essere il silenzio. Il cineasta coreano costruisce un personalissimo dramma zen sull’amore con questo concetto alla base: non parlano mai fra di loro i due protagonisti, ma si capiscono alla perfezione e i gesti che compiono l’uno per l’altra denotano una purezza di sentimenti non ravvisabile in nessun rapporto umano all’interno del film, dove tutte le coppie presentate finiscono inevitabilmente per litigare, come se la parola sortisse questo terribile effetto.
In “Ferro 3” non si parla, però, soltanto della disgrazia, tutta contemporanea, dell’incomunicabilità ma vengono affrontate con una poeticità e delicatezza non comuni anche altre tematiche, a partire dal folgorante incipit: Tae-suk è un perfetto nessuno pieno di identità, quasi disumano nella sua imperturbabilità, che passa da una casa all’altra ma senza l’intenzione di rubare o di spiare le vite degli occupanti. Ciò che il giovane cerca è una pace interiore, che riescono a dargli solo spazi vuoti vissuti da altri, pessimistica metafora dell’impossibilità nel mondo moderno di poter trovare un qualche sollievo a contatto con i propri simili. Ironia della sorte, Sun-hwa, la donna di cui si innamora, è invece profondamente umana, il cui desiderio di evasione dall’infelice vita che la tormenta fa si che tra i due si stabilisca un legame solido e indissolubile. Da quel momento inizia la fuga degli amanti da una realtà squallida e tremendamente opprimente, seguita dalla regia lenta e posata di Kim Ki-duk che invita lo spettatore ad osservare i loro spostamenti, fatti di soli gesti e nessun dialogo, in modo che a parlare siano le immagini più dei personaggi.
In questo, “Ferro 3” rappresenta anche una potente riflessione sul tema dell’amore, sentimento trainante di tutta la pellicola ed espresso tramite i silenzi e gli sguardi dei protagonisti; perché l’amore vero non si dice, ma si prova.

Anche ciò che il film riserva nella sua seconda metà è assolutamente sensazionale e ci pone di fronte a quesiti non banali: quello che vediamo è reale oppure no? I due sono fuggiti sul serio? Ma soprattutto, la domanda più importante: chi è davvero Tae-suk? A tale questione il regista non vuole di certo rispondere, ma lascia allo spettatore la libera interpretazione di quanto accade, in maniera tutt’altro che ruffiana: il giovane protagonista sembra liberarsi della forma corporea e dopo una sorta di ricognizione nelle case visitate, per sincerarsi del proprio lavoro, eccolo ricongiungersi per sempre alla sua amata, riuscendo nell’impresa di rendere romantica ed indimenticabile persino una bilancia. Chi è Tae-suk? Troppo riduttivo sarebbe accostarlo ad un banale fantasma. Piuttosto ad un angelo custode, che veglia su tutte le persone che lo hanno incontrato e dona a ciascuno la speranza più grande: quella di credere ancora nel domani, alla fine di dure giornate.

Non è facile rendere credibile una storia dai contorni così sfuggenti e poco chiari, ma “Ferro 3” riesce, con la delicatezza che solo gli orientali possiedono, a far breccia nel cuore dello spettatore e a scavare nella sua interiorità, lasciandolo alla fine senza fiato e purificato nell’animo. Nulla risulta banale e l’irrealtà delle situazioni narrate è esposta con tanta sensibilità da risultare più credibile della realtà stessa.
Un dramma della e sulla solitudine, a cui Kim Ki-duk cerca di dare una rappresentazione e senza sottrarsi dal suggerire possibili vie d’uscita, che si fa muto per esaltare al massimo gesti all’apparenza insignificanti, ma che qui (è proprio il caso di dirlo) valgono più di mille parole.

“Difficile dire se il mondo in cui viviamo sia una realtà o un sogno”


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bob71

Episodi visti: 1/1 --- Voto 8
Tae-suk è un ragazzo che vive alla giornata e alloggia in case temporaneamente disabitate, dove si stabilisce in assenza dei proprietari. Un giorno, cercando una nuova sistemazione, incontra Sun-hwa, una giovane moglie reclusa e vittima di un marito arrogante e violento. I due si innamorano e decidono di continuare insieme la vita errabonda spostandosi di casa in casa fino al giorno in cui non verranno scoperti e dovranno fare i conti con le autorità.

Dopo averci incantati con il tempio galleggiante e la natura lussureggiante della favola zen "Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera", Kim Ki-Duk torna su un set metropolitano con un viaggio intimista sul tema della solitudine e dell'amore.
Il regista lavora per sottrazione, elimina quasi completamente i dialoghi, rendendoli del tutto marginali e limitati ai soli personaggi di contorno, e lascia parlare i lunghi silenzi, le movenze sinuose e gli sguardi intensi dei due protagonisti. Anche la colonna sonora è ridotta ai minimi termini, limitata all'uso di un'unica, struggente canzone dalla melodia vagamente arabeggiante, ripetuta come un ciclico leit motiv durante la visione. Scelte che contribuiscono a creare un'atmosfera minimale, sospesa e impalpabile, e fanno emergere con prepotenza le emozioni.
Lo scorrere del tempo, scandito dalle stagioni (della vita) in "Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera", qui è colto nella poesia dei rituali quotidiani. La tacita intesa dei due protagonisti, fatta di piccoli gesti, di corpi che si sfiorano, ci racconta di un amore assoluto, puro, quasi angelicato, e la solitudine scompare come d'incanto nel momento in cui i due destini si incrociano.

Kim Ki-Duk è un regista atipico e un po' fuori dagli schemi. Approdato al cinema relativamente tardi e senza alcuna formazione o esperienza pregressa (prima aveva svolto lavori di ogni genere), la sua carriera artistica è cominciata non già come film maker, ma come pittore. Forse è per questo che ogni sua opera sortisce sempre l'effetto di un'esperienza magica e sensoriale. Con "Ferro 3: la casa vuota" il suo tocco delicato si rivela quanto mai ispirato e ci dona un altro pezzo unico che parla di passione e sentimento con la leggerezza e la spontaneità delle emozioni.


 4
Blackened

Episodi visti: 1/1 --- Voto 9
Kim chi-Duk è un nome davvero importante nell'ambito registico mondiale, e il suo cinema è in grado di trasmettere delle emozioni davvero significative e coinvolgenti, dando vita a delle pellicole etichettabili come vere e proprie opere d'arte.

"Ferro 3" (titolo che nasce dalla passione per il golf del protagonista) è il suo film più famoso, nonché uno dei più belli della sua filmografia. Il lungometraggio vede i suoi natali nel 2004, un anno dopo quello che è il film preferito in assoluto di chi scrive: "Primavera, Estate, Autunno, Inverno... e di nuovo Primavera".

Tae-suk conduce una vita molto particolare, non ha una dimora fissa e abita nelle case di coloro che partono per vacanza o lavoro. Alloggia nelle loro abitazioni, pulisce, si lava i vestiti, legge libri che trova e cucina quello che è nel frigo: in poche parole rispetta profondamente le abitazioni altrui come se fossero sue. Un giorno fa la conoscenza di Sun-wa, con la quale continuerà il suo viaggio tra una casa e l'altra innamorandosi di lei, ma dovendosi scontrare con il marito, che nonostante la maltratti e non la rispetti, è profondamente geloso di lui.

Già dalla trama si capisce la genialità del pluri-premiato regista coreano, che dà vita a una pellicola meravigliosa e commovente, un affresco poetico e sentimentale veramente inclassificabile che arriva anche a mischiarsi con il folklore e le leggende locali.
che dire? Un film del genere va solo guardato nella sua meravigliosa integrità.
Gli attori principali non parlano mai e nonostante questo i loro gesti e i loro pensieri silenziosi valgono più di mille parole. Un capolavoro.