Quest’anno il Lucca Comics & Games ha vissuto uno di quei momenti destinati a restare impressi nella memoria collettiva degli appassionati. L’arrivo di Hideo Kojima, accolto da un entusiasmo degno di una rockstar, ha trasformato il festival in una celebrazione non solo del videogioco come forma d’arte, ma anche del pensiero che lo alimenta. Nel corso di tre appuntamenti – il Press Café riservato alla stampa, la proiezione del documentario Hideo Kojima: Connecting Worlds e il panel Death Stranding 2: On the Beach, abbiamo potuto osservare da vicino un autore (ed i suoi collaboratori) che, più che raccontare un gioco, sembra raccontare il nostro tempo.
 
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Press Café: l’uomo dietro il mito

Il primo incontro, riservato a una selezione di testate, si è svolto in un clima raccolto ma carico di attesa. Kojima, accompagnato da Yoji Shinkawa e dal loro eccellente interprete, si è mostrato rilassato, ironico, ma sempre estremamente lucido nel parlare del proprio lavoro. «Non credo di essere un visionario,» ha detto sorridendo, «cerco solo di osservare il mondo con attenzione. Il futuro non arriva all’improvviso: è già tutto davanti a noi, basta guardare bene.»

Una dichiarazione che sintetizza alla perfezione il suo approccio: più che immaginare, Kojima interpreta il presente e ne trae frammenti di futuro. Nel corso dell’incontro ha spiegato come Death Stranding 2 nasca dalla stessa matrice tematica del primo capitolo, ma con un’evoluzione profonda: «Se il primo Death Stranding parlava di connessione, questo parla di ciò che accade dopo che ci siamo connessi. Di come mantenere quei legami, e cosa succede quando si spezzano.» Altrettanto profonda è stata la riflessione su come i social odierni stiano spezzando le vere connessioni – creandone di artificiose, ma vuote – non sufficienti a colmare il nostro bisogno atavico di interazione con gli altri.
 
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Ha poi accennato al nuovo equilibrio del suo studio, la Kojima Productions, oggi pienamente indipendente e proiettata su più fronti, dal cinema all’intelligenza artificiale. «Non voglio che lo studio diventi solo una fabbrica di giochi. Voglio che sia un luogo dove si creano esperienze, indipendentemente dal mezzo.» Il concetto è stato ribadito anche quando gli è stato chiesto come gestisca la pressione di un pubblico che spesso lo mitizza: «Non la vivo come un peso. Cerco di restare umano. Alla fine, la cosa più importante per me è comunicare – non essere ricordato come un genio, ma come qualcuno che ha trasmesso qualcosa.»

Abbiamo avuto la fortuna di vedere selezionate due nostre domande, un privilegio che ci ha resi l’unica testata a ottenere questo riconoscimento. La prima domanda riguardava la musica di Death Stranding:

“La musica in Death Stranding è un linguaggio narrativo vero e proprio. Come decide il momento in cui un brano entra in scena? È un criterio emotivo, tecnico o puramente istintivo?”

Kojima ha risposto spiegando come la colonna sonora sia stata concepita fin dalle prime fasi dello sviluppo come un vero e proprio “terzo protagonista” del gioco, capace di guidare il giocatore attraverso paesaggi emotivi e fisici. Ha sottolineato il ruolo essenziale della collaborazione con i compositori, definendola un dialogo continuo tra visione narrativa e sonorità, capace di generare momenti inaspettati che sorprendono anche lui durante il processo creativo. Nel corso dell'intervista ha più volte menzionato l'importanza della musica nella sua vita, citando i Joy Division come sua band preferita.

La seconda domanda era rivolta a Shinkawa, storico collaboratore e direttore artistico dei giochi Kojima:

“Dopo così tanto tempo di lavoro insieme, c’è ancora spazio per sorprendervi l’un l’altro?”

Shinkawa ha sorriso, raccontando come, anche dopo anni di collaborazione, ci sia sempre uno spazio per la sorpresa. Ogni progetto porta con sé nuove sfide stilistiche e narrative, e il dialogo continuo con Kojima mantiene viva la scintilla creativa. Secondo lui, questo è ciò che impedisce alla routine di prendere il sopravvento: la curiosità reciproca e la ricerca di innovazione permettono di creare opere che rimangono fresche e originali, anche dopo decenni di partnership. Molto bello il racconto di come il design di qualcosa partorito dalla sua mente venga poi utilizzato da Kojima per costruire nuove idee, che vanno poi a creare ulteriori dettagli nel design. Una vera e propria partita di tennis della creatività.
 
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“Hideo Kojima: Connecting Worlds” – il racconto del processo creativo

Il giorno successivo, il pubblico di Lucca ha potuto assistere alla proiezione di Connecting Worlds, il documentario diretto da Glen Milner e Ben Hilton, che racconta il dietro le quinte di Death Stranding 2 e, più in generale, il modo in cui Kojima concepisce la creazione. Il film, già presentato in anteprima internazionale, alterna immagini di vita quotidiana nello studio a momenti più intimi, restituendo il ritratto di un autore consapevole ma ancora curioso, immerso nel dubbio creativo.

Durante il Q&A successivo, Kojima ha risposto con semplicità alle domande, alternando riflessioni filosofiche a ironia tagliente. Quando gli è stato chiesto se si senta più artista o game designer, ha risposto: «Non mi interessa la distinzione. Quando creo, non penso ai confini del medium. Se una scena funziona, funziona. Che sia in un film, in un libro o in un videogioco.»

Ha parlato anche della dimensione solitaria della creazione, e di come il tempo gli abbia insegnato a cercare connessioni reali, non solo virtuali: «Il primo Death Stranding è nato in un periodo in cui mi sentivo isolato. DS2, invece, nasce dopo aver ricostruito dei ponti. È un gioco più luminoso, ma anche più consapevole del dolore che comporta un legame.»

L’impressione generale è quella di un autore che ha superato la fase dell’introspezione cupa per approdare a una riflessione più ampia e collettiva: il mondo dopo la pandemia, la solitudine digitale, la responsabilità della comunicazione.

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“Death Stranding 2: On the Beach” – con Luca Marinelli e Alissa Jung

Il culmine della presenza di Kojima a Lucca è stato il panel dedicato a Death Stranding 2: On the Beach, con la partecipazione di Luca Marinelli e Alissa Jung, marito e moglie e nuovi amatissimi interpreti del progetto. L’atmosfera della sala era quella delle grandi occasioni: applausi, emozione palpabile, un silenzio quasi reverenziale ogni volta che Kojima prendeva la parola.

Marinelli, visibilmente entusiasta, ha raccontato la sua esperienza di collaborazione: «Quando Kojima mi ha contattato, ero incredulo. Poi ho letto il copione e ho capito che non era solo un videogioco, ma qualcosa di più vicino a un viaggio interiore.» Per Marinelli l'approccio è stato come quello su qualsiasi altro set, a parte per i "puntini" necessari al motion capture, che rendevano inevitabilmente il tutto un po' buffo. «Ogni scena è una sfida diversa – spiegava – e anche se pensi di aver capito il personaggio, Kojima trova sempre un dettaglio che ti obbliga a guardare le cose da un’altra prospettiva».

Alissa Jung, attrice tedesca, ha sottolineato la precisione e la libertà del metodo Kojima: «Ci lascia grande spazio interpretativo, ma sa sempre esattamente cosa vuole. È raro trovare un regista che ti guidi così, senza toglierti libertà.» Straordinaria la sua riflessione sul personaggio da lei interpretato, che racconta di una donna forte, ma vera, libera di sbagliare e per questo più umana, che arriva al cuore dei videogiocatori come è arrivata al suo. «In certe scene, sentivo davvero di dover entrare dentro le emozioni di chi stava vivendo quei momenti – ha detto – e lavorare con Luca è stato prezioso perché ci spingevamo a vicenda a trovare autenticità in ogni gesto».

Entrambi hanno confermato quanto la collaborazione con Kojima sia stata un flusso creativo continuo. Marinelli ha raccontato un aneddoto curioso: in una sequenza, un gesto apparentemente minore del suo personaggio ha ispirato Kojima a riscrivere alcune battute e a inserire nuovi dettagli narrativi. «È come se ogni piccolo atto potesse aprire strade narrative inaspettate – rideva – e ti rendi conto che nulla è mai lasciato al caso».


Kojima, da parte sua, ha spiegato quanto il lavoro con gli attori sia diventato centrale nel suo modo di concepire i videogiochi: «La tecnologia di motion e performance capture permette di restituire ogni sfumatura dell’anima. Non è solo un corpo che si muove, ma una persona che sente. Con Marinelli e Jung abbiamo costruito qualcosa di autentico.»

Durante il panel ha condiviso aneddoti dal set digitale, momenti di lavorazione, e riflessioni sul linguaggio videoludico contemporaneo: «Molti credono che la libertà tecnica renda tutto possibile, ma la creatività nasce dai limiti. Anche oggi, cerco di pormi dei confini, perché solo così si può trovare un senso.»

Le immagini mostrate in anteprima hanno confermato l’evoluzione visiva e tematica del progetto: paesaggi più organici, un tono meno apocalittico e un’intensità narrativa che sembra voler chiudere un cerchio.

Un autore che continua a connettere mondi

L’intera esperienza lucchese di Kojima che chiude qui il suo tour mondiale – ha avuto un filo conduttore evidente: la connessione. Non solo tra personaggi e luoghi, ma tra linguaggi, culture e forme d’arte. Dal tono raccolto del Press Café all’energia del panel, abbiamo visto un autore che rifugge la mistificazione, ma non rinnega la sua unicità. Un uomo che ha fatto della comunicazione – e della vulnerabilità che essa comporta – la propria arma più potente.

In un festival che celebra ogni linguaggio dell’immaginario, Kojima ha ricordato a tutti che il videogioco è ormai il medium capace di contenerli tutti. E se Death Stranding aveva insegnato a connetterci, On the Beach sembra volerci insegnare come restare connessi, anche quando la marea cambia.