Una volta Zhuang Zi sognò d’essere una farfalla, che volava qua e là, felice di se stessa, e senza sapere d’essere Zhuang Zi. Quindi si svegliò, e gli sembrava d’essere, senza dubbio, Zhuang Zi. Ora però non sapeva piú se fosse Zhuang Zi che aveva sognato d’essere una farfalla, o una farfalla che sognava d’essere Zhuang Zi.



Asano_Inio_campo_arcobalenoLa farfalla è il sogno. Sogno che confonde, sogno maligno, allucinazione che risucchia nel proprio gorgo, che imprigiona in un labirinto privo d’uscita verso una Realtà ormai perduta.
La farfalla è un segno, è segnale. Segnale che il confine tra concreto e impalpabile è stato varcato, che sogno e realtà andranno collassando l’uno nell’altra, senza rimedio. È cosi che la farfalla ancora oggi vola, compare e svanisce, nell’immaginario dell’Asia Orientale. E anche in Giappone. Anche in anime e manga, quelli più e meno noti: è la farfalla che muove molli le ali nell’estate eterna di Lamú – Beautiful Dreamer (primo vero lungometraggio di Oshii Mamoru); è la farfalla che, a stormo, splende nel buio dell’ossessione nel film di Cowboy Bebop; è la farfalla che svela il torbido orrore ne Il vampiro che ride; è la farfalla del desiderio perverso e dell’imbroglio temporale nel film di Utena; è la farfalla che compie le sue incursioni, sottili e poi inarrestabili e frenetiche, in Paranoia Agent e in Paprika.

È la farfalla che ora solitaria nella notte, ora in coppia, ora in innumerevoli stormi lucenti, va intessendo, ingarbugliando e poi dipanando la trama de Il campo dell’arcobaleno...


Waking Life

Il sogno è elusivo, il sogno è ricordo deforme, desiderio inconfesso e terrore nascosto (è l’incubo). Il sogno è frammento di frammenti.
Il campo dell’arcobaleno procede per frammenti, Asano Inio li raccoglie quando la storia è già esplosa e cosi ce li consegna, sparsi, lasciando a noi il compito di ritrovarne il disegno.
E l’autore non sovrappone la sua voce agli eventi.
Il campo dell’arcobaleno è privo di commenti e quasi di didascalie; non ingannino le abbondanti voci fuoricampo: sono quasi sempre solo i monologhi, brevi e privi di filtri, di uno dei due protagonisti.
Suzuki, intorno ai dieci anni.
Suzuki, intorno ai dieci anni, si è lasciato alle spalle la scuola e il bullismo di cui era vittima, che l’aveva spinto giù dal tetto dell’edificio. E miracolosamente s’era salvato. Ma sulle spalle porta ancora e a lungo dovrà portarlo un disastro familiare fatto di abbandono e trascuratezza e mancanza di legami e di affetto. Dei genitori di Suzuki non ci viene mai mostrato il volto, non ci è concesso vederlo. Presenze rimosse, forse perché assenze o forse perché impossibili da affrontare (oggetti ambigui e irrisolti d’amore e d’odio).
Suzuki, intorno ai vent’anni.
Suzuki, intorno ai vent’anni, torna nella cittadina dove ha visto più che vissuto quei frammenti della sua infanzia.
Suzuki, che, possiede una scatoletta di latta in grado di esaudire un unico desiderio, in grado di dare il via alla Fine del Mondo.
Suzuki, l’unico personaggio di cui non sapremo, quasi fino all’ultima pagina, il nome proprio. Di cui non vedremo quasi nulla della vita da adulto, a differenza degli altri. Possiamo immaginarcela, forse, serena. Almeno per lui.


Frammenti di tempo

Il piccolo Suzuki vittima di bullismo, vittima di una famiglia disastrata, di una vita già alla deriva quando l’infanzia deve ancora concludersi? Vittima innocente di una vita crudele, di compagni di classe malvagi, di adulti indifferenti, insensibili, assenti?
Non proprio. Ne Il campo dell’arcobaleno il confine tra vittime e carnefici non è mai netto; anzi, va costantemente e più volte rovesciandosi mentre i personaggi trascorrono nel tempo, nei mesi, negli anni e i decenni. Suzuki stesso impara presto ad adattarsi alla sua nuova classe e alle nuove crudeltà, a osservare con indifferenza un bullismo che, ora (almeno inizialmente), non colpisce più lui, impara a starne fuori (e a farsene complice per mancato intervento); e noi osserviamo insieme a Suzuki che anche il goffo e lento Takahama, bersaglio della violenza, sa fare le sue carognate e che in parte è egli stesso complice delle persecuzioni subite; e osserviamo il fallimento di quella retorica del mondo adulto (dei genitori, della scuola) che cercano un buono da proteggere e un cattivo da punire ma intanto fa più danni di quanti ne eviti.
Il mondo de Il campo dell’arcobaleno è intriso di malessere, violenza e crudeltà. Violenza che esplode brutale, figlia del desiderio di possesso e di piacere; o anche senza alcuna ragione precisa: violenza fine a sé stessa. Ma prima ancora c’è la violenza strisciante e silenziosa, insidiosa, sottesa, che permea i gesti più quotidiani, i gelidi rapporti tra adulti, le necessità della vita quotidiana, della sopravvivenza economica, della ricerca frustrata d’affetto. Violenza nascosta nei dettagli, appena accennata, allusa dove meno la si saprebbe (o vorrebbe) vedere: il livido casualmente mostrato sulla spalla di una bimba, forse segno di violenza familiare (e chissà se da parte di padre e di madre); il bullo della classe picchiato dal maestro per “fini educativi”. E così via.
Il flusso vischioso dei rapporti umani scorre nel tempo ed è anche così che le posizioni di vittima e carnefice si scambiano con facilità. Nei mesi, negli anni e i decenni. I bambini crescono, i giovani maturano(?), i ricordi sbiadiscono, le persone mutano. Il bulletto gregario si ritrova con la divisa da poliziotto, a difesa dell’ordine pubblico. Il ragazzino sognatore e solitario si trasforma nel maniaco violentatore e alienato. Il capo dei bulli della classe, perso nei suoi fantasmi mentali, diviene un omicida forse in cerca di un impossibile riscatto. L’insegnante bonario e perbene si rivela un ricattatore e truffatore avido, cinico e meschino. L’amore giurato come eterno scivola in uno squallido divorzio. E così via, e così via. Non ci sono eroi, ne Il campo dell’arcobaleno; solo frammenti di personaggi trascinati in un vortice temporale scomposto.
È proprio frantumando la narrazione che Asano può estrarre a suo agio dal flusso continuo del tempo i diversi momenti, giustapponendoli per suggestione, e smascherando così l’inanità di sogni, e speranze, e illusioni; con cinico disincanto e sommessa disperazione Asano fa collidere tra loro le diverse fasi del tempo, dell’infanzia, della giovinezza, dell’età adulta, mostrandoli per quello che sono, polvere trascurabile.
In questo complesso quadro temporale i personaggi si sfiorano, si incontrano, si scontrano, trascinati in un gioco caleidoscopico su cui non hanno alcun controllo. Più che vivere la vita, la subiscono; alcuni di loro, di tanto in tanto, ne afferrano le occasioni che emergono in superficie, sperando che non portino ulteriori rovine (il rischio è sempre alto).
È un microcosmo in cui ognuno, per usare le parole di una dei personaggi, deve “vivere la propria vita con sotto i piedi le condutture delle fogne”. E dentro alle fogne c’è il mostro, un mostro oscuro che vive dentro ogni personaggio, che ognuno nutre e coccola dentro di sé, pregando che non esca alla luce.


Il sogno della farfalla

Il campo dell’arcobaleno è un doppio sogno.
Di Suzuki sappiamo quasi tutto, siamo quasi perennemente posti nella sua soggettiva, quasi impossibilitati a uscirne (perché è un sogno senza risveglio). Dell’altra sognatrice non sappiamo quasi nulla. Come dei genitori di Suzuki, anche di Kimura Yue non vediamo (quasi) mai il volto. Kimura Yue, persa nel sogno farmacologico del letto d’ospedale è uno dei due fuochi intorno a cui orbitano tutti gli altri personaggi e la narrazione; ma Kimura è un nucleo vuoto, invisibile, un buco nero oltre il cui orizzonte degli eventi non ci è consentito sbirciare. La conosciamo solo per sottrazione.
Forse lei è l’unica vera vittima della vicenda, ma è tale perché assente, perché impossibilitata ad agire, come se solo l’incoscienza (o la morte) permettessero l’innocenza perfetta. E allora si capisce perché sia tanto forte, in questo fumetto, l’ansia che arrivi, prima o poi, la Fine del Mondo, a cancellare ogni cosa. Perché il Mondo de Il campo dell’arcobaleno, è duro da sopportare, è un continuo dare e ricevere dolore, e accumulare colpa. E se la Fine del Mondo non viene, allora è il sogno, è trasfigurare la realtà in allucinazione che diventa quasi un’amara via di fuga.
Kimura, la sognatrice del Mondo, è essa stessa un sogno, un angelo candido e immacolato, tanto pura da diventare essa stessa oggetto d’odio profondo da chi la circonda o di desiderio morboso. Da possedere o da distruggere.


Certi bambini

C’è un genere trasversale, riconoscibile e diffuso ormai un po’ in tutto il mondo e in tutti i media: romanzi, televisione, cinema. Soprattutto certo cinema italiano. E poi fumetti. Anche quelli giapponesi. Quelli meno noti. Il campo dell’arcobaleno è stato pubblicato a puntate dal 2003 al 2005 sul magazine Quick Japan di Ohta Publishing.
Un genere trasversale e internazionale.
Storie di vita vissuta, di crudeltà quotidiane e straordinarie, di normalità degradata, storie d’attualità, più o meno impegnate, più o meno impregnate di critica sociale: esibire i mali della modernità, del mondo in cui viviamo. A metà tra catarsi e denuncia, i protagonisti sono spesso bambini e ragazzini, vittime ideali di un mondo adulto cinico e senz’anima. Inutile dire che gli scivoloni retorici sono più la regola che l’eccezione. Più che altro perché la ripetizione ossessiva, per quanto sentita e sincera, diventa presto manierismo scadente ed effimero, al servizio alla moda mediatica del momento. E la denuncia s’adagia su stereotipi giornalistici dando l’illusione d’una critica che sotto sotto è non poco conformista.
E Asano e il suo Il campo dell’arcobaleno? Riescono a trarsi in salvo da banalità e didascalismo? Non inganni l’apparente fredda analiticità del racconto. La voce dell’autore è quasi assente, l’intreccio è un ingranaggio misuratissimo e dal ritmo perfettamente calcolato. Leggerlo una volta non basta (ma nemmeno due), perché il primo impatto può disorientare; ma c’è da fidarsi: tutto torna perché gli incastri sono calcolati al millimetro. Le poche residue zone d’ombra risaltano ancor più per contrasto, anch’esse ingegnosamente previste.
Ma anche la neutralità, la freddezza e l’analiticità sono scelte. Il silenzio è anch’esso una voce. La mancanza di un commento dell’autore che giudichi è già esso un giudizio.
È per altri motivi che Il campo dell’arcobaleno riesce a non cascare nel flusso anonimo di altri prodotti di “denuncia sociale” buoni per una stagione e poi via. È la magistrale orchestrazione della sua struttura narrativa a farlo brillare, a lanciare la sfida al lettore. E a permettere all’autore di non rimanere sulla superficie del gioco, ma di elaborarlo in profondità, lavorando con le forme della narrativa disegnata per mostrare senza interventi importuni (perché l’autore ha creato tutto ex novo, ma poi s’è nascosto dietro le quinte, lasciando la macchina a funzionare da sola) una realtà fatta di alienazione e malessere; e d’ipocrisia diffusa, di comunicazioni mancate, di desiderio di fuga e dell’attesa di un qualche impossibile risveglio, al contempo desiderato e temuto.


Non si può avere tutto

L’edizione italiana? Un inusuale ampio formato: le pagine grandi permettono d’apprezzare appieno il tratto e la costruzione delle tavole di Asano. Copertina d’impatto, che riproduce esattamente quella originale. Dialoghi italiani discreti. Le onomatopee, com’è ormai “tradizione” Planet Manga, lasciate in originale: scelta discutibile, ma che alcuni lettori apprezzano.
A conti fatti il prezzo, non certo basso (9,90 euro) risulta sopportabile. Anche perché Il campo dell’arcobaleno non è un fumetto usa e getta. E non mira a un pubblico chissà quanto ampio (anche se lo meriterebbe).
Peccato che... peccato che l’opera di Asano ci venga consegnata in maniera un po’ brutale, senza neanche uno straccio di introduzione, di postfazione. Almeno qualche riga ci sarebbe stata: sull’autore, su chi è, su cos’ha fatto, su cosa ci apprestiamo a leggere o su cosa abbiamo appena letto. E invece niente. Peccato. Sarà per un’altra volta?