BL III - 2 Black Lagoon è un brand ben consolidato. Con nove volumi finora all’attivo, il manga si è squarciato una nicchia personale nel continuum espressivo del medium. E la Madhouse ha vinto la scommessa di permutarlo in serie tv, due volte.
Azzardi del genere non sono nuovi per la casa dei signori Rintaro e Kawajiri. Tra i grandi studi di produzione, Madhouse è quello più aperto alle sperimentazioni – latu sensu e strictu sensu – e quindi a correre anche rischi commerciali. Black Lagoon poteva essere un’incognita, per tutto un insieme di ragioni, ma ha pagato, e la Madhouse lo ripaga con una serie OAV, che è sinonimo di molti soldi in più per la realizzazione.

Il budget maggiorato si vede nella fattura delle componenti tecniche. Facile è pensare a disegni e animazioni, rifiniti rispetto a quelli delle precedenti stagioni. Tuttavia è più interessante spendere due parole per qualcos’altro.
In effetti ci sarebbe molto da dire su quanto è cambiata l’immagine negli anime di ultima generazione; su come si sta sfruttando e dove si sta muovendo la computer graphic, o il digitale più in generale, e sui risultati cui si è pervenuti. L’argomento è vasto, ma già Roberta’s Blood Trail offre, nel suo piccolo, un campionario dei traguardi ad ora raggiunti dalla CG.

In proposito mi viene da pensare alla Production I.G e a un paio di suoi titoli. Blood the Last Vampire e Ghost in the Shell – Stad Alone Complex furono tra i primi prodotti, se non i primi in assoluto, a utilizzare il PC per risolvere il dettaglio scenico e luministico, anche minuto. Una procedimento del genere adesso è la prassi affermata e gli OAV di Black Lagoon ne fanno uno sfoggio estensivo. Mani competenti stanno dietro la gestione dei filtri cromatici, degli ambienti texturizzati e di varie ed eventuali chicche fotografiche.

Mani più incerte sono quelle di Sunao Katabuchi. Qui la parentesi è un po’ più ampia, perché i suoi meriti, e demeriti, iniziano dove finiscono quelli di Hiroe.
Katabuchi non si limita alla conversione visiva e cinematica delle pagine del mangaka. Ci può stare. Magari ci deve anche stare, altrimenti il compitino sarebbe troppo facile, da una parte, e concettualmente sterile, dall’altra. Katabuchi sembra saperlo e mette del suo nel Baile de la Muerte, anche se sforbicia e riarrangia troppi passaggi del materiale di Hiroe, forse per problemi di metraggio – cinque episodi anziché sei. Ne perde la costruzione di alcune sequenze, ne guadagna la leziosità di certe altre, tra cui dei siparietti comici; aggiunte superflue, nei sparsi qua e là.

BL III - 1Black Lagoon III fa l’anime, male; per il restante tempo è qualcosa di diverso.
Ci sono delle citazioni importanti nei primi minuti di visione: Full Metal Jacket, Il cacciatore, Apocallypse Now. Ce n’è una musicale ricorrente, nell’ending: Il Dottor Stranamore. Apposizioni di Katabuchi, piccoli omaggi, ma non soltanto.
Guardando gli OAV si avverte un sapore “orientale” rispetto al Giappone; a est del Pacifico si trova il cinema statunitense. Da quei loci Hiroe attinge molto e Katabuchi lo evidenzia, marcando il substrato su cui poggia Roberta’s Blood Trail: Vietman e Guerra Fredda. La serie ne discute, tra le righe, per induzione rispetto all’intreccio vero e proprio. Discute anche di ciò che da quelle macerie discende, relazioni criminali e assetto politico internazionali, affari e manovre di potere dell’Idra a stelle e strisce.

C’è una consapevolezza né qualunque né qualunquista, a riguardo. E c’è un bel paratesto come filo rosso tra i passaggi action, caricati d’eccessi, spinti con consapevolezza – d’altronde così sono stati fin dagli esordi, è il bello del gioco della finzione, insegna Tarantino.
Ma questa è perlopiù farina del sacco di Hiroe. L’apporto che dà Katabuchi sta nel taglio registico e nell’impostazione visiva “occidentali”, nei modi di raccontare e rappresentare una storia, senza troppa retorica, tenendo i cavi in tensione, spingendo su un tono “maschio”, anch’esso americano, o meglio di un determinato tipo di cinematografia americana. La qual cosa, presa da sola, potrebbe essere tanto un pregio quanto un difetto.

È infatti legittimo chiedersi se sia un bene che l’animazione, nell’aspetto e nei contenuti, si faccia imago di un certo genere di film. Tuttavia, in un momento in cui la prima ricalca troppo spesso i medesimi luoghi, è un bene che dica altro da sé.
Non è la prima volta che Black Lagoon intraprende l’operazione, bisogna ammetterlo, non è una novità vera e propria. Eppure a ogni occasione ha saputo offrirsi sotto nuove declinazioni, evolvendo al contempo il suo carattere e quello dei suoi personaggi chiave, scelta intelligente e soprattutto lecita, se portata avanti con coerenza.
E comunque, così com’è, al di là delle speculazioni, Black Lagoon funziona maledettamente.