Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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"Bokura Ga Ita", letteralmente tradotto "Noi c'eravamo", è un manga composto da sedici volumi ideato e disegnato da Yuuki Obata, portato in Italia da Flashbook Edizioni a partire dal maggio del 2007.

La storia inizia nel più classico dei modi. Takahashi Nanami è una studentessa di prima liceo il cui solo obbiettivo è quello di farsi molti amici nella sua nuova classe. Fra i suoi compagni di banco incontrerà Yano Motoharu, un ragazzo all'apparenza perfetto, ma che dentro di sé porta il peso di una terribile e spietata realtà. Nanami finirà presto per innamorarsi di lui, e verrà infine ricambiata, ma la storia che attende i due giovani è tutt'altro che allegra e spensierata.

Dopo un incipit visto e rivisto nelle più svariate forme, la trama di "Bokura Ga Ita" si sviluppa incredibilmente bene, riuscendo a differenziarsi dalla stragrande maggioranza degli shojo. Il rapporto di coppia non è fatto solamente di felicità e momenti memorabili, ma anche di tristezza, situazioni difficili ed impreviste, rassegnazione e molto altro. L'autrice si è voluta concentrare principalmente sugli aspetti negativi, senza però mai dimenticarsi di lanciare un appello facilmente intuibile: vale la pena soffrire, se veramente si crede in quello che si sta facendo; ed è proprio questo il caso della protagonista, che nonostante le numerose sfortune ha la forza di non arrendersi mai, e di continuare a credere nei propri sentimenti e in quelli della persona amata.
Oltre che per questo, "Bokura Ga Ita" riesce a distinguersi per via della sua ambientazione e della sua durata; la storia di Nanami e Yano non si ferma alle scuole superiori, ma prosegue anche all'università e oltre, trasformandosi in un percorso di vita invece che rimanere una semplice cotta adolescenziale.
"Bokura Ga Ita" è sicuramente un'opera in grado di commuovere e di emozionare, e grazie soprattutto a dei personaggi ben tratteggiati si dimostra coinvolgente sin dai primi volumi, continuando a crescere di volume in volume.

I personaggi crescono, e non solo dal punto di vista caratteriale e psicologico ma anche da quello fisico, ed insieme ad essi migliora notevolmente anche il tratto dell'autrice, la quale è molto abile nel rappresentarli nei vari momenti della loro vita.
Nei primi volumi lo stile è ancora acerbo, ma col passare del tempo si evolve in ogni suo aspetto, dall'espressività dei personaggi sino ai dettagli che li caratterizzano, per passare poi all'accuratezza dei fondali e all'abilità d'impaginazione.
Particolarmente belle e vivaci sono anche le copertine, che saltano subito all'occhio e attirano l'attenzione grazie a dei colori forti e sgargianti.
L'edizione Italiana curata da Flashbook presenta un prezzo leggermente sopra la media, ma sicuramente adeguato, non tanto per la qualità dei singoli volumi quanto per lo spessore dell'opera, che si dimostra essere uno dei prodotti più validi degli ultimi anni, dentro e fuori il suo genere.

In conclusione, se siete amanti o vi piacciono gli shojo, "Bokura Ga Ita" è una lettura estremamente consigliata, quasi obbligatoria. Un'opera che riesce a mischiare sapientemente tutti gli elementi classici del genere, aggiungendo una buona dose di novità e di situazioni singolari.

10.0/10
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<b>Attenzione: la seguente recensione contiene spoiler</b>

In America la chiamano “eternal summer”, l’estate eterna.
È quella condizione di tempo immobile, cristallizzato, in cui vivono molti personaggi delle serie episodiche a lungo decorso. Le avventure si susseguono innumerevoli, qualche volta si festeggiano pure compleanni e feste comandate, eppure il tempo non passa mai. È la condizione in cui, ad esempio, vivono Lupin e i suoi compagni, che hanno lo stesso aspetto e la stessa età da cinquant’anni.

Non ho nominato Lupin a caso, perché l’anime di cui mi accingo a parlare gli assomiglia sotto molti aspetti. Ho avuto quest’impressione fin dalla primissima puntata e poi ho avuto conferma, leggendo in giro, che effettivamente Lupin è stato una delle (tantissime) fonti di ispirazione per creare "Cowboy Bebop".

In "Cowboy Bebop", abbiamo un Lupin (Spike), un Jigen (Jet) e una Fujiko (Faye), che invece di fare i ladri, fanno i cacciatori di taglie. Nello spazio. Mancano Goemon e Zenigata, mentre invece ci sono Ed e Ein, un’irritante ragazzina hacker e un cane super-intelligente. In ogni episodio, devono catturare un criminale diverso, proprio come Lupin e compagni dovevano preparare un colpo diverso e, proprio come Lupin, spesso rimangono con un palmo di naso (catturano il criminale, ma per un motivo o per l’altro, non riescono a riscuotere il compenso).

Naturalmente, non sono proprio uguali ai loro modelli di riferimento. Ad esempio, in "Cowboy Bebop", è Fujiko/Faye a prendersi una cotta per Lupin/Spike, che non la degna di uno sguardo perché troppo preso da un amore perduto (che si chiama Julia, come quella di "Ken il guerriero". Chissà perché gli amori perduti giapponesi si chiamano sempre Julia. Ma non divaghiamo).

Le differenze, però, non si fermano qui. Fin dal primo episodio, si intravede una nota malinconica, triste, che si accompagna a quella più scanzonata e spesso prende il sopravvento. A episodi del tutto assurdi e demenziali (come quello del blob nel frigorifero o quello dei funghi allucinogeni) si alternano altri che colpiscono corde ben più profonde e persino inquietanti (come quello di Pierrot le Fou o della setta religiosa). Gli episodi a impatto emotivo più forte sono comunque quelli che approfondiscono il passato dei personaggi, rivelando lati nascosti della loro personalità che li allontanano sempre più dai modelli di riferimento, rendendoli personaggi a tutto tondo, complessi e unici.

Ho detto “approfondire”, ma è una parola grossa. In realtà, il passato dei personaggi, più che approfondito, viene suggerito, insinuato, mostrato in piccoli flash frammentari che toccherà a noi ricomporre, senza però mai riuscire a formare un quadro completo. Conoscere Spike, Jet, Faye e in parte anche Ed sarà come conoscere e affezionarsi a persone reali, di cui ogni giorno ci viene rivelato un nuovo aspetto, ma che non potremo mai dire di capire completamente. "Cowboy Bebop" vive di suggestioni, intuizioni, più che di pensieri coerenti.

"Cowboy Bebop" fa dannatamente bene il suo lavoro, sia quando vuole divertire che quando vuole emozionare o far riflettere. L’episodio del blob nel frigorifero, con la sua esilarante “morale” finale, mi rimarrà impresso nella memoria allo stesso modo dello splendido “Ballata degli angeli caduti”, in cui immagini e musica si uniscono in un’alchimia che onestamente non ricordo di aver mai visto prima in un’anime. La musica. Si può parlare di "Cowboy Bebop" senza nominarla? Una volta, Massimo Troisi disse scherzando che Pino Daniele scriveva le canzoni e poi andava da lui e diceva: “Ho scritto questo pezzo, ci fai un film sopra?” Ecco, non mi stupirei se si scoprisse che Yoko Kanno è andata da Watanabe e gli abbia detto: “Ho scritto questi pezzi, ci fai un anime sopra?”. Il connubio fra musica e immagini è così forte che davvero non si capisce quale dei due sia stato costruito intorno all’altro.

"Cowboy Bebop" sarebbe potuto essere solo questo e sarebbe stato ugualmente un capolavoro. Sarebbe potuto durare all’infinito, essere una delle tante serie da “estate eterna”, e avrebbe comunque avuto una sua originalità, con la sua vena malinconica, il citazionismo spinto e la splendida colonna sonora. Avrebbe potuto, ma non l’ha fatto. È andato oltre.

A un certo punto, il meccanismo dell’eternal summer si inceppa. I personaggi non riescono più a restare in quella bolla sospesa nel tempo e nello spazio, che permetteva loro di vivere avventure su avventure senza che cambiasse mai niente. Le ombre del passato si fanno sempre più grosse, la vita, il mondo reale, pretendono attenzione e la pseudo-famiglia del Bebop (il nome dell’astronave che porta in giro i nostri protagonisti) si sfalda. Il tempo passa. Le cose cambiano. Le azioni hanno delle conseguenze. Il peso di queste conseguenze si abbatterà sui protagonisti e, in un’interpretazione meta-narrativa, anche su di noi.

L’anime è finito. Fuori, c’è la vita reale, che pretende attenzione e fatica. Toccherà a te portarne il peso.

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Dopo vari tentativi di sequel, alcuni riusciti a metà (come la serie OAV "Yamato 2250") e altri mai nemmeno cominciati (come una misteriosa serie, arenata alla fase di storyboarding), arriva come un fulmine a ciel sereno questo "Yamato Resurrection". Yoshinobu Nishizaki, il turbolento padre spirituale del concept, decide di dare un taglio netto allo stile della serie classica, poiché il lungometraggio viene sviluppato ben ventisei anni dopo "Final Yamato". L'impronta è piuttosto originale, in special modo nel design dei personaggi, affidato alle mani anticonformiste del veterano Tomonori Kogawa - già precursore dei tempi con il suo intrigante e profetico chara in "Aura Battle Dunbine" del 1983 -, strizzando l'occhio alla nuova generazione dei manga seinen, e sempre meno fedele (anzi, direi per nulla rassomigliante!) ai disegni neo-romantici anni '70 di Leiji Matsumoto. La CGI incombe, neanche a dirlo, ma, sorpresa, non risulta invadente nel contesto della spettacolarità che richiede un film per il grande schermo, e rende il tutto più simile al livello raggiunto dalle dominanti major americane. Ancora una volta ci si esalta al momento della partenza della rediviva fortezza volante (ricostruita ex-novo con le stesse fattezze, ma dotata di nuovi sistemi operativi, equipaggiata di un fiammante turbo boost e tirata a lucido per l'occasione), da sempre simbolo palese della rinascita del Giappone dopo la sconfitta subita nella Seconda Guerra Mondiale. Dopo il sottosuolo terrestre del primo capitolo e le profondità oceaniche viste in "Addio Yamato", stavolta gli ideatori scelgono i ghiacci dell'asteroide Aquarius come quartier generale per la stoica cricca capitanata da Susumu Godai. Pur mantenendo intatta una cospicua parte delle (intoccabili) inquadrature originali, la sequenza del decollo è una scarica di adrenalina d.o.c.; il computer viene ottimamente sfruttato per gestire effetti speciali che difficilmente si potrebbero raggiungere con le tecniche tradizionali, e il tutto viene enfatizzato con una colonna sonora dalle ritmiche speed metal, in sintonia con le punte di velocità raggiunte dalla corazzata spaziale. La trama non brilla certo di originalità, ma in fin dei conti i fan della saga non desiderano altro: catastrofi imminenti; combattimenti all'ultimo laser; mondi sconosciuti dove nessun umano è mai giunto prima (aspetta un po', questa mi sa che era l'introduzione di "Star Trek"); una buona dose di melodrammaticità e un finale aperto a nuove produzioni che, pare, non tarderanno ad arrivare.