Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

6.5/10
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“Drifters” è una serie d’animazione giapponese della stagione autunnale 2016, composta da dodici episodi di durata canonica e tratta dall’omonimo manga di Kōta Hirano, tuttora in corso.

Trama: 21 ottobre 1600. Mentre tra radure e boschi brumosi infuria la battaglia di Sekigahara, decisiva per il Giappone dell’epoca Sengoku, Shimazu Toyohisa decide di coprire la ritirata dello zio rimanendo ad affrontare con uno sparuto manipolo di soldati la cavalleria nemica. Dopo averne ucciso personalmente il comandante e sfinito dalle numerose ferite, il protagonista arranca tra gli alberi fino a ritrovarsi in uno sterminato corridoio bianco, su cui si affacciano infinite porte di ogni foggia e al cui centro è collocata una moderna scrivania con annesso burocrate occhialuto.
Prima di poter realizzare cosa stia davvero accadendo, Toyohisa viene risucchiato in uno dei passaggi e subito catapultato in un mondo popolato da creature e razze fantastiche, dove i celebri eroi della Terra si affrontano in uno scontro apocalittico, divisi tra naufraghi (Drifters) e scarti (Ends).

Il tema principale del prodotto in questione viene così ad essere la guerra, con le sue fiamme, le grida strazianti e il clangore delle armi, un'entità immanente che travolge ogni forma di vita e la restituisce a uno stato primordiale di conflitto e sofferenza, condizione in cui soltanto alcuni privilegiati emergono come predatori trionfanti, mentre i deboli possono solo implorare o affidarsi a personalità carismatiche. Quella narrata in "Drifters" è tuttavia anche una guerra di sconvolgimento dello status quo, in cui la posta in palio è un mondo intero da conquistare e rimodellare, conteso da esclusi e reietti tra i quali non è facile individuare i "buoni" e i "cattivi", creando così un clima di costante ambiguità morale non sconosciuto all'autore dell'opera originale.

Dunque, questa nuova serie presenta svariati elementi in comune con la precedente fatica di Hirano, “Hellsing”, ma, laddove l’epopea del vampiro tamarro Alucard era una costante manifestazione di grandezza e ferocia, intuibile dall’imponente colonna sonora e dalle bizzarre connotazioni di alcuni nemici e delle relative battaglie, “Drifters” preferisce trincerarsi in un bunker di scelte fin troppo comode e idee già viste. Di abitanti del nostro mondo trascinati in un universo fantasy-medievale abitato da elfi, goblin, orchi e draghi se ne sono visti a decine, soprattutto negli ultimi anni, e lo stesso dicasi per gli scontri tra figure storiche appartenenti a diversi periodi.
Il vero peccato mortale commesso dall’anime, tuttavia, consiste nel non approfittare praticamente mai delle potenzialità dei personaggi, dell’incontro tra differenti bagagli culturali e sociali e del potenziale scontro di civiltà, non solo tra terrestri e elfi o nani, ma anche tra terrestri provenienti da luoghi e epoche infinitamente distanti. Esso, invece, si concentra quasi esclusivamente sul terzetto di protagonisti, costituito da Shimazu Toyohisa, Oda Nobunaga e Nasu no Yoichi, in un processo di continua esaltazione dell’ardore bellico nipponico, che non conosce eguali né in questo mondo né nell’altro: le loro strategie, per quanto possano apparire banali, sono sempre le più geniali e vincenti, la loro sete di sangue è leggendaria e giustificata, la loro brama di conquista un diritto acquisito sul campo di battaglia.

Inoltre, i personaggi principali di quello che appare come un prodotto ideato per fini patriottici e per l’uso e consumo del pubblico giapponese e degli yamatologi, gli unici capaci di riconoscere alla prima menzione le molteplici personalità del Sol Levante che affollano la serie, godono di caratterizzazioni timide e scontate. Ogni qualvolta si presenta l’occasione per donare maggiore spessore a Nobunaga o Toyohisa, fin troppo ripetitivi nel definirsi a vicenda mostri e nell’apprezzare reciprocamente la propria disumanità, ecco che l’attenzione viene sviata tramite convenienti gag. Qui si manifesta invece il problema tonale che affligge “Drifters”: se in “Hellsing” i momenti comici erano pochi e indigesti, qui i siparietti sono meglio amalgamati con il resto della storia, ma sono talmente numerosi e privi di focus che arrivano a soffocare la narrazione, banalizzando scene anche cariche di pathos.
Gli antagonisti, al contrario, per quanto poco approfonditi, sono avvolti da un alone di mistero che li rende decisamente più affascinanti. Radunate attorno all’altrettanto enigmatico Re Nero vi sono figure storiche che nutrono un odio profondo e irrazionale nei confronti l’umanità, e una manciata di minuti è sufficiente affinché le loro motivazioni e quelle del loro signore si rivelino istantaneamente più appetibili di quelle dei protagonisti.
La maggior parte del cast di supporto, invece, è costituito da macchiette stereotipate e sostanzialmente inutili.

Il comparto tecnico è tendenzialmente discreto: nonostante un’intrigante sequenza iniziale, caratterizzata da colori desaturati su cui spicca il rosso del sangue e della casacca di Toyohisa, l’anime si adagia su scelte grafiche mediocri e poco innovative. Gli sfondi sono interessati da diversi errori di continuità e sono piuttosto banali in quanto ad ambientazioni (foreste, bastioni in pietra, poveri villaggi contadini), ma sono comunque sufficientemente ricchi di particolari.
Il design dei personaggi ricorda molto quello di “Hellsing” (al punto che alcuni di essi sembrano frutto di riciclaggio) e regala figure imponenti e fisionomie dettagliate, sia mascoline che androgine, spesso distorte dagli ormai iconici ghigni mefistofelici, che lasciano il viso in ombra ad eccezione di un singolo occhio spiritato.
La Computer Grafica è usata per lo più nelle scene di massa per animare le truppe nemiche ed è riconoscibile ma non particolarmente invadente, grazie anche ai giochi di luce usati per mascherare il tutto.
Le animazioni si sono rivelate complessivamente deludenti: per quanto siano piuttosto fluide, i movimenti rappresentati sono approssimativi, e questo aspetto si palesa soprattutto durante le scene d’azione, in cui è raro vedere qualcosa che non sia un generico fendente, uno strale scoccato o una scarica di fucileria. Persino i poteri sovrannaturali conferiti agli Ends trovano poco spazio negli scontri, soppiantati da tecniche più tradizionali.
La colonna sonora è piacevole e adeguata e abbraccia stili differenti, ma i brani intermedi e di sottofondo sono oscurati dalla sigla di apertura, un pezzo incredibilmente orecchiabile e trascinante accompagnato da uno stile di disegno abbozzato, quasi da schizzo preparatorio, che segue mirabilmente le note, e da quella di chiusura, a cui sono associate immagini vibranti e tonalità cromatiche più cupe. Buono il doppiaggio giapponese, appropriato ed espressivo. Da ammirare l’utilizzo di un idioma apposito per marcare ulteriormente il distacco tra gli abitanti del nostro mondo e le popolazioni della dimensione in cui i primi sono stati inviati.

In conclusione, “Drifters” è un’opera di intrattenimento gradevole e ignorante, ma non abbastanza creativa (con le dovute eccezioni). Gli attimi epici vengono polverizzati da battute e sketch comici inopportuni, mentre non è possibile percepire alcuna tensione a causa della monotonia delle battaglie, tutte unilaterali fin dal principio e dall’esito già segnato. Persino la violenza è piuttosto mite e, sebbene non manchino smembramenti, spargimenti di sangue e qualche inquadratura che indugia su sfruttamenti e abusi, il livello di dettaglio non è mai sufficientemente elevato da shockare lo spettatore, e non si assiste mai alla brutalità disarmante che aveva reso celebre il suo predecessore.
Del numeroso cast, solo pochi personaggi hanno ricevuto un minimo di introspezione, mentre molti altri sono mere sagome di cartone prive di personalità, e altri ancora sono stati mostrati di sfuggita, ma non hanno ancora avuto un ruolo all’interno della storia, in attesa di fare la propria parte nel già annunciato seguito.


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"Daydream" è un thriller ben scritto e molto coinvolgente. La trama è strutturata come una specie di poliziesco e, nonostante ci sia sempre di mezzo il fattore del paranormale, usa un approccio piuttosto crudo e realistico. I fantasmi e l'erotismo sono solo un pretesto per narrare le storie di cronaca che mettono in evidenza una realtà spesso dura e disumana. Le storie che Misaki affronta sono piuttosto complesse, dove i fantasmi non trovano pace e, spinti da fortissimi rancori o dalle grandi sofferenze provate in vita, vogliono risolvere questioni rimaste in sospeso. Dietro ognuno di loro ci sono vite piene di violenze fisiche o psicologiche, disagio, incapacità di comunicare e risolvere i problemi. La serie riesce a trattare in modo piuttosto moderato alcuni "temi proibiti" come violenze, abusi sia psichici che sessuali, omicidi, drammi familiari e comportamenti deviati, ma soprattutto viene trattato il tema del suicidio, argomento piuttosto scottante per la cultura giapponese moderna. Non ci sono scene di sesso esplicite, come molti potrebbero pensare vedendo la protagonista, però ci sono diverse scene di nudo (o quasi) più che altro però usate a sfondo comico. Infatti Misaki finisce spesso in situazioni imbarazzanti, come trovarsi in mutande (o senza) in luoghi pubblici, a volte proprio a causa della sbadataggine di Soichiro. Quest'ultimo poi, quando ci sono fantasmi nei paraggi, è un vero e proprio spasso (quasi quanto Kaori in "City Hunter").

La protagonista principale, Misaki Saiki, è un personaggio abbastanza atipico. E' un tipo molto irascibile, venale, considera le sue facoltà solo uno spiacevole fastidio e ritiene il suo lavoro al "Muremure" (nei primi volumi dell'edizione italiana viene chiamato "Mule Mule", ma è un errore di trascrizione) più rispettabile di quello che fa per il padre. Nonostante quello che si potrebbe pensare, Misaki ha una vita sessuale quantomeno inadeguata rispetto alle aspettative dei suoi fan (Soichiro compreso). Infatti è ancora vergine, probabilmente a causa della mancanza di peli pubici, cosa di cui si vergogna tantissimo e che le rende difficoltoso entrare in intimità con gli uomini. Il fatto che sia una dominatrice sadomaso non ha molta influenza sulla trama, se non per il fatto che va spesso in giro con i suoi "abiti da lavoro", specialmente quando deve esorcizzare degli spettri. Misaki ha la capacità di controllare Kinui, un demone tessitore con l'aspetto di una corda senziente, che la ragazza porta legata al corpo (cosa ci può essere di più azzeccato di un demone a forma di corda per una dominatrice sadomaso? ^^") e che interviene in suo aiuto nelle situazioni più pericolose. Soichiro Kadotake è un personaggio piuttosto strano, è un abile combattente e nei primi volumi sembra quasi una specie di guardia del corpo (nonostante il suo terrore per i fantasmi) però, col procedere della storia, tende ad assumere il ruolo di semplice autista (o peggio, da spalla comica).

Come personaggi secondari troviamo Mitsuru Fujiwara, un pervertito che segue continuamente Misaki, la spia e le scatta delle foto di nascosto; Ai Kunugi, compagna di classe di Fujiwara, che in seguito ad un trauma sviluppa anch'essa il potere di vedere gli spettri; Shigeyuki Saiki, il padre di Misaki; Shizue Mikuriya, amica di Misaki e direttore della rivista porno "Honey Chop"; ed infine Gada, un detective di polizia incline ad utilizzare mezzi piuttosto discutibili per raggiungere i propri scopi. Come antagonista invece c'è il misterioso Yuo, un negromante che spinge le persone a suicidarsi con l'ausilio del sito internet "Rock n Roll Suicide". Il disegno è ben fatto, caratterizzato da un tratto molto pulito e leggero, con una buona alternanza di bianchi e neri. Le scene spesso diventano angoscianti, soprattutto quando appaiono gli spettri. Molto curato il dettaglio, in particolar modo i fondali, che riportano luoghi realmente esistenti in Giappone con una fedeltà quasi fotografica (con tanto di cartelloni pubblicitari). Vengono riprodotti fedelmente alcuni spaccati di Tokyo tra cui Roppongi, Ogikubo, Nakano e le diverse linee ferroviarie che attraversano la città. Un buon manga, ben scritto e disegnato, che consiglio particolarmente a chi cerca qualcosa di diverso dal solito.


5.5/10
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L’amore ai tempi dell’iPhone

Nell’immaginario collettivo, una delle immagini che si tende ad associare alla cultura dell’Estremo Oriente è quella della pacatezza: filosofie e religioni che ricercano la pace interiore, riti lenti e solenni, la meditazione zen e chi più ne ha più ne metta. Un modo di vivere che, pur non trovando spazio nella vita frenetica delle grandi metropoli giapponesi, sopravvive nelle piccole realtà rurali di questa fetta di mondo ed è ottimamente rappresentata nello stile di quegli autori che godono di buona fama anche in Occidente. Un senso di distacco dalle cose terrene pervade, etereo, i racconti di costoro, che spesso si dilettano nel contrapporre a un periodare meditativo delle ambientazioni e delle situazioni che di pacato e distaccato hanno poco o nulla. Questa contraddizione non risulta tuttavia una stonatura, ma riesce in modo efficace a rappresentare una dicotomia tanto assurda, quanto effettivamente reale. Il motivo del preambolo è che “Tsuki ga Kirei” vuole ricreare esattamente questo tipo di situazioni, mettendo in risalto i paradossi di una società ancora intrinsecamente “orientale”, ma sempre più alienata e assorbita dal mondo della tecnologia.

L’esempio più lampante di questa evoluzione è fornito dalle nuove generazioni, motivo per cui, come protagonisti di questa storia, vediamo due ragazzi delle medie, appena adolescenti e alle prese con il primo amore. Akane e Kotaro, due compagni di classe, fanno conoscenza per puro caso in un ristorante, dove erano a mangiare con le rispettive famiglie; i genitori, accortisi della combinazione fortuita, iniziano a parlare, mentre i due ragazzi, estremamente riservati, sono visibilmente a disagio. Proprio questa situazione comune li porta progressivamente ad avvicinarsi l’uno all’altro, fino a comprendere che, forse, vedono nel rapporto con l’altro qualcosa di più di una semplice amicizia. Questo almeno vale per Kotaro, il quale, nonostante la perenne carenza di verve, pare più propenso a prendere l’iniziativa. Akane invece è più passiva, accetta i sentimenti di Kotaro senza aver prima capito a fondo i propri e per quasi tutta la serie è trascinata dalle vicende, senza essere in grado di agire attivamente e decidere per sé. Uno dei perni attorno a cui gli autori hanno voluto costruire la storia è il modo di apparire dei due protagonisti, anzi, dei personaggi in generale: il tentativo di rendere realistica la loro vita quotidiana si esplica in due essenziali attitudini di Kotaro e Akane: l’essere attivi e disinvolti su LINE - un programma di messaggistica per smartphone - e tremendamente impacciati e taciturni nella vita reale.
L’evidente barriera che si erge tra i due non appena si trovano faccia a faccia è il rovescio della medaglia dell’avere la possibilità di comunicare liberamente a tutte le ore del giorno e della notte. Dal vivo gli argomenti di discussione stentano a venir fuori, lunghi silenzi pervadono la scena e tutto viene tremendamente rallentato e dilatato; a contribuire ci sono una serie di scene abbastanza ripetitive in cui i personaggi, durante la loro abituale routine, messaggiano tra di loro, senza che dicano una parola. Da questo segue che le vicende che si susseguono durante la serie, a conti fatti, non sono molte, ma riescono comunque a riempire tutto lo spazio a disposizione grazie ai già citati accorgimenti da parte degli autori. La giustificazione è che, in quanto tipicamente giapponese, la storia è dilatata e stiracchiata di suo, allungata abilmente con l’inserimento di vedute cittadine e paesaggistiche, di squarci di vita quotidiana di altri studenti e di lunghi silenzi sulla scena, atti a ritrarre i quieti protagonisti in tutto il loro essere orientali. In una parola: noia.
Lo stesso senso di sospensione che si può trovare, rimanendo in tema, in opere romantiche, come “Honey & Clover”, o fortemente folkloristiche, come “Mushishi”, in “Tsuki ga kirei” è talmente esasperato e spogliato di ogni altro eventuale attributo da suscitare, a lungo andare, una sensazione inevitabile di noia. I personaggi risultano caratterizzati poveramente e, se piacciono, piacciono perché teneri e impacciati, pucciosi diremmo oggi, ma non per il loro carattere o la loro personalità. Tutto si riduce all’esteriorità, ma è proprio qui che casca il palco, perché ciò che dovrebbe essere il punto di forza di un anime come “Tsuki ga Kirei”, cioè l’apparato tecnico e la direzione artistica, si dimostra mediocre, se non peggio.

Partendo dalla seconda, la scelta a livello di character design e colorazione è quella di linee morbide e approssimate e tonalità tenui, ad alimentare l’effetto di sospensione della scena descritto in precedenza; l’espressività dei personaggi un po’ risente di questa scelta, contribuendo a non conferire loro una caratterizzazione completa. La regia, dal canto suo, indugia spesso su dettagli insignificanti e squarci di vita scolastica totalmente fini a sé stessi - tutto rigorosamente a camera fissa -, ricercando e non trovando quel sense of wonder che ha fatto la fortuna di un regista del calibro di Isao Takahata e, in maniera minore, del non più tanto giovane Makoto Shinkai. Ed è il modo in cui questo viene perseguito a nuocere di più alla serie: il comparto tecnico, eccezion fatta per qualche guizzo nel finale, si rivela sottotono, ove non mediocre; lugubri figure dalle sembianze di studenti, animate in CGI, si aggirano per la scuola e per le strade della città nei sopracitati intermezzi di vita quotidiana, pensati con l’intenzione di rendere realistica e credibile l’ambientazione, ma che finiscono con l’ottenere l’effetto opposto. Si salva il comparto musicale, evocativo ed evanescente anch’esso, ma affossato da tutto ciò che lo circonda.
Fosse durato la metà degli episodi, “Tsuki ga Kirei” probabilmente mi sarebbe piaciuto; sviluppa in modo originale una tematica ormai classica, quella del primo amore tra i banchi di scuola, e tenta di farlo senza abusare degli espedienti comici e demenziali propri di un buon numero di shoujo e shounen di oggi. Vero è anche che si perde nel finale, solo per far trionfare l’amore - sulla credibilità, aggiungo io -, ma tutto sommato non sono carenze della storia in sé ciò di cui ci si può lamentare, ma di come essa venga espressa. Per questo, per quanto insufficiente, non mi sento di bocciare in modo troppo convinto “Tsuki ga Kirei”, che probabilmente piacerà, nonostante gli evidenti difetti, a chi è più affascinato dalla cultura orientale. Lo lascio con questo piccolo rimpianto, lo stesso che mi sarebbe piaciuto vedere sul volto di Kotaro, ma che, ahimè, non è stato dato apprezzare.