Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

9.0/10
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“Banana Fish” è una serie del 2018 prodotta dallo studio MAPPA, prima trasposizione animata dell’omonimo manga di Akimi Yoshida, shoujo serializzato tra il 1987 e il 1994.
Uno shoujo atipico per temi trattati e ambientazione: già il titolo porta un forte riferimento agli USA (il racconto "A perfect day for Bananafish" di J.D. Salinger) ed è proprio a New York che hanno luogo le vicende di questa storia dura e adrenalinica. La trasposizione attualizza le vicende che sono ambientate alla fine degli anni Dieci del 2000 e non negli anni Ottanta del secolo precedente.

Gli ingredienti di partenza sono: una serie di strane morti su cui sta indagando la polizia locale, un uomo che muore misteriosamente in un vicolo pronunciando le parole “Banana Fish”, un giovane teppista, detto Ash Lynx, con un passato più che difficile e grande determinazione, uno studente universitario giapponese, Eiji Okumura, che arriva nella grande Mela come assistente di un fotografo che vuole fare un reportage sui ragazzi delle gang. Le cose si faranno presto complicate per Ash e Eiji che si troveranno a fare i conti con cosche mafiose, gang giovanili, sicari, politici e poliziotti corrotti, pedo-pornografia e prostituzione minorile, traffici di droga e complotti internazionali.

Questa trasposizione è stata, per me, una delle migliori serie dell’anno e quindi inizio con il sottolineare come il comparto tecnico sia di alto livello: il character design, affidato ad Akemi Hayashi ("Doukyuusei"), è riuscitissimo, svecchia efficacemente i disegni originali e caratterizza perfettamente non solo i protagonisti ma anche i comprimari (ad eccezione degli “uomini di mezz'età barbuti”, che risultano un po’ troppo simili fra loro), gli sfondi sono molto realistici nel rappresentare la città e una cura particolare viene data ai graffiti sui muri della città. La dinamica dei colori è ampia e rende efficacemente sia gli sfondi del cielo regalando giornate luminose come albe e tramonti di fuoco, sia gli interni che risultano diversificati con gamme cromatiche a sottolineare le differenze fra ambienti altolocati, covi di gang, edifici pubblici. Le animazioni rendono molto bene le scene d’azione. La regia e la sceneggiatura, rispettivamente di Hiroko Utsumi ("Free") e Kōji Seko ("Mob Psycho 100", "Inuyashiki Last Hero"), sanno coinvolgere lo spettatore con un ritmo serratissimo, inquadrature studiate, in particolare sulle mani, dialoghi ad effetto (anche se, qui e là, un po’ melodrammatici). Unica pecca sono i volti dei personaggi nei campi lunghi, ma è un difetto presente in quasi tutte le serie animate.
Il doppiaggio è molto coinvolgente e le musiche non sono da meno: la OST fa il suo dovere caratterizzando i personaggi (sarà difficile togliersi dalla testa il tema di Dino), così come le atmosfere dei luoghi (chi ne capisce, qui in casa, ha notato atmosfere post-rock, hip hop alla Wu-Tang Clan, trip hop, oltre che brani di atmosfera, più generici, non riconducibili ad un genere preciso). Le due opening e le due ending conquistano subito: evocative, malinconiche (e un po’ “tamarre”).

A sostenere il ritmo travolgente della serie c’è una riuscitissima caratterizzazione dei personaggi: i comprimari, pur rappresentando “tipi umani classici”, sono quasi tutti dei personaggi a tutto tondo e, quando prendono la scena, il ritmo non cala. Troppi per elencare qui le peculiarità di ognuno, ma fra malinconici sicari, ragazzini rancorosi dal pessimo carattere, adulti tormentati e premurosi, rivali infidi, ambiziosi ma privi di grandezza, vecchi viscidi e melodrammatici, amici leali, alleati preziosi, scienziati codardi, avidi di ogni estrazione sociale e prevaricatori feroci è difficile non trovarne qualcuno, nel bene o nel male, degno di essere ricordato in questo cast quasi tutto al maschile, con una sola donna di rilievo (quanto a lei: ogni sua entrata in scena è memorabile).

Tutto ruota attorno al protagonista Ash, il cui vero nome è Aslan Jade Callenreese, che è “disegnato” per assomigliare ad un dio: ogni sua singola caratteristica è portata all'estremo e già da sola parrebbe eccessiva per un essere umano… E lui ne riunisce diverse perché ha un QI maggiore di 200, una mira infallibile (del resto è l’“eroe” in una storia pulp di ambientazione americana), è un fine stratega, è dotato, ça va sans dire, di bellezza, è coraggioso, empatico, corretto, resiliente e ha un grandissimo senso di responsabilità che lo porta però ad essere incredibilmente solo, irraggiungibile per tutti e a giudicarsi fin troppo severamente.
Capace di ogni sacrificio quando difende i suoi e spietato con i nemici che lo attaccano, Ash funziona come una cartina di tornasole, anche nei confronti dello spettatore. Cosa sareste disposti a fare per sopravvivere in una situazione difficile? Quanto vi costerebbe venir a patti con la vostra coscienza dopo essere sopravvissuti? Quanto permettete agli altri di vedere le vostre debolezze? Dove arrivereste per salvare qualcuno che vi è caro? A seconda delle vostre risposte troverete in Ash più o meno “zone grigie”.

Infine, cosa non scontata negli anime di recente produzione, questa storia, a tratti atroce e quasi mai cupa, che parla di libertà e di vulnerabilità tra riferimenti a Salinger e Hemingway, con ambientazioni metropolitane e scorci sulla provincia americana (desolante come nella migliore letteratura), ha anche un finale.
Non è una storia priva di difetti, ma ha enormi pregi e, per quanto è piaciuta a me, la consiglierei a tutti… a meno che non stiate cercando una storia rilassante e siate ipersensibili al sangue.

P.s. Un nota di biasimo per i sottotitoli in italiano di Amazon (distributore ufficiale): in certi frangenti riescono a far peggio del traduttore automatico di Google, su tutti l’uso ripetuto di “sparare” come verbo transitivo.

6.0/10
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Tra gli anni '90 e 2000 ci sono state un numero di guerre pari a quello dei cinquant'anni precedenti e, a differenza del passato, la loro copertura mediatica è stata enorme. Era quindi inevitabile che anche la cinematografia commerciale si interessasse all'argomento, con film quali "Three Kings", "Blood Diamond", "Lord of War". Sull'onda di questo interesse crescente per tematiche quali terrorismo, armi, mercenari, strategie militari e spionaggio, anche il mondo degli anime vede il moltiplicarsi di serie che sviluppano tali argomenti in chiave moderna.
Tra i tanti, voglio citare qui "Noir", "Black Lagoon", "Phantom: Requiem for the Phantom" e appunto "Jormungand". Questi anime sono molto simili tra loro: ci sono gruppi di combattenti organizzati, ambientazioni paramilitari, armi, violenza, protagonisti discutibili e/o dal passato oscuro.

N.B. Questa recensione considera "Jormungand" e "Jormungand: Perfect Order" come un'unica serie, e il voto è condiviso.

In particolare, in "Jormungand" seguiamo le vicende di un team di personaggi al soldo di una famiglia di trafficanti d'armi, impegnati a competere su un mercato dove gli affari si chiudono con una stretta di mano o con un proiettile in fronte, mentre sullo sfondo si sviluppa un progetto chiamato Jormungand. Il fulcro della narrazione ruota attorno al rapporto tra la ricca Koko Hekmatyar (a capo del gruppo) e la sua giovane guardia del corpo Jonah (un ex bambino soldato), incentrando sui loro dialoghi le spiegazioni e le giustificazioni di un mondo dove il fine ultimo di ottenere la pace non può che passare attraverso il compromesso dei conflitti armati e del sacrificio di molti.
La serie alterna quindi momenti di azione ad altri più riflessivi, col pregio di offrire uno spaccato realistico e mai pretenzioso di una realtà sommersa, che è parte integrante del sistema.

I difetti però sono molti, a cominciare dai personaggi di contorno, che, per quanto a volte ben caratterizzati, spesso fungono da macchiette, sforando in una comicità che vorrebbe stemperare i toni, mentre risulta del tutto fuori luogo. Si tenta probabilmente di emulare una produzione come "Black Lagoon", dove i momenti scanzonati sono nel DNA dei protagonisti, ma in "Jormungand" le risate sono forzate e l'ironia spesso infelice.
La trama è poi costituita da archi di uno o due episodi dalle ambientazioni a volte troppo distanti tra loro. Si alternano senza soluzione di continuità: battaglie campali, inseguimenti e conflitti a fuoco metropolitani, intrecci politico-spionistici, flashback di approfondimento. Questo, anziché rendere la serie longeva, la appesantisce, e alla lunga può far perdere l'interesse dello spettatore.

La grafica ha un carattere altalenante, con grande cura nel dettaglio delle armi, dei conflitti a fuoco e delle dinamiche fisiche dei personaggi, ma con l'innesto di elementi "deformed" e caricaturali che sono quasi spiazzanti.
La musica c'è, ma non caratterizza mai la narrazione, e personalmente, se non avessi scoperto che esiste la colonna sonora, avrei detto che non ci fosse proprio. La sigla iniziale "Borderland" fa malamente il verso a quella di "Black Lagoon", mentre quella finale "Ambivalentidea" di Nagi Yanagi è invece bella.

Di solito si dice "prendersi troppo sul serio". Nel caso di "Jormungand" è vero l'opposto, manca il coraggio di andare fino in fondo.

Voto: 6

8.0/10
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Tadao Tsuge, fratello minore del leggendario Yoshiharu, potrebbe essere definito, a ragione, un artista operaio. Egli infatti non viveva di certo con i manga, ma lavorava un po’ ovunque e disegnava nel tempo libero, almeno per gran parte della sua carriera. Prendiamo ad esempio il suo lavoro in una “fabbrica” del sangue dove poi – data la scarsa attenzione all’igiene di allora - probabilmente riscontrò una forma acuta di epatite C. In un capitolo di questa raccolta si parla proprio di prelievi ma non è il solo esempio di narrazione vissuta sulla pelle, egli infatti descriveva esattamente il suo ambiente, il sessantotto, fatto di povertà e violenza, in cui per molti la guerra è un ricordo ancora vivido ed indimenticabile.
Come gran parte degli adepti del Gekiga egli affronta soggetti cupi ambientandoli nei vecchi squallidi bassifondi di Tokyo, di preciso nella “città bassa”, che furono rasi al suolo durante la seconda guerra mondiale.
L’attenzione nei confronti della realtà è certosina, quello che lui riesce a riportare nelle sue storie è la rappresentazione veritiera di uno squallore destinato ad essere patria solo del “pattume umano”.
E’ come se non tutti fossero stati in grado di superare la vergogna della guerra e l’altra patria, quella dei ricchi, degli industriali, non tendeva una mano ma li affossava con un calcio assestato.
Spinti sempre più in basso quei derelitti vivono una vita sin troppo distante, di arretratezza e immoralità, magari costretti a vendere il proprio sangue per vivere, come ci illustra il capitolo omonimo, Trash Market, che appunto sta per mercato dei rifiuti.

C’è una grande differenza nelle storie di Tadao rispetto al Gekiga di Tatsumi, in primis la lunghezza dei racconti decisamente maggiore e i dialoghi più fitti. Questo gli permette di approfondire maggiormente il racconto, infatti risulta meno compresso e le tematiche vengono sviluppate in profondità. Tadao si prende i tempi giusti per indagare la psicologia dei suoi personaggi, dei rapporti che hanno tra di loro e con il mondo del lavoro, egli si sofferma sui piccoli dettagli e ovviamente la trama non ha la ben che minima importanza.
Un’altra differenza sta nel modo di costruire questi dialoghi, infatti sono molto curati e realistici, egli sonda la psiche e non si ferma a documentare la quotidianità, questo è un vero manga dell’io.
Dunque affronta problematiche esistenziali che vertono sul lavoro e il suo significato, il rapporto con la famiglia o le spese inutili dei ricchi. Per Tadao il lavoro non è nobilitante, i suoi personaggi lavorano per campare e non crede che possano mai rimettersi in posizione retta.
Le crisi e le lotte all’interno della famiglia vengono gestite senza esagerazioni ma sono strazianti e la causa di solito è sempre la povertà.
La vita non ha senso, è l’incipit di un suo capitolo, ed è molto facile capire il perché di questo azzardo.

La grande forza dei suoi manga è sicuramente l’impianto sceneggiativo, in grado di competere con un Tatsumi a pieno regime, ma forse Tadao Tsuge non è un disegnatore al livello degli altri. Di solito il suo tratto è un po’ più realistico, infatti amava la fotografia, e meno tondeggiante rispetto a quello del fratello Yoshiharu e compagni, anche se negli ultimi 2 capitoli, soprattutto il penultimo, che hanno una certa dose di fantasia e sono più frammentari il suo tratto si sposta sul caricaturale ricordando vagamente Seiichi Hayashi. Certamente il tratto è marcato come da tradizione del Gekiga, e non potrebbe essere altrimenti, infatti questo stile è adeguato a trasporre il dolore, poi utilizza spesso un pennino sottile, così come tende ad operare pesanti ombreggiature sui personaggi; inoltre gli sfondi sono meno dettagliati e, sebbene i suoi manga sono più dialogati, la fruibilità resta alta.

In definitiva questa raccolta che va dal ’68 al ‘72 è piena zeppa di disagio vissuto in prima persona, ogni capitolo è da leggere come affresco lucido di una parte del Giappone che è stata esclusa dal miracolo.
C’è anche una divagazione poliziesca, e qui il suo passato nei fumetti polizieschi si fa sentire, ma decostruisce letteralmente il genere affrontando il processo al contrario. Infatti in Caccia all’Uomo sono i giornalisti stessi ad inculcare eventi nell’indagato al punto che trasformano la realtà e questo mi ha ricordato proprio il meta-film di Imamura, "A Man Vanishes", per la critica ai media.
Da precisare che il volume in questione fa riferimento alla versione canadese e non giapponese, infatti solo 2 dei capitoli qui presenti fanno parte del volume Uki.