Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

-

«Kaze ga Tsuyoku Fuiteiru», nota anche con il titolo inglese «Run with the Wind», è una serie di ventitré episodi distribuita fra l’autunno 2018 e l’inverno 2019. Si tratta della trasposizione animata di un romanzo di Shion Miura, ed è proprio il suo nome che ha attirato la mia attenzione: avevo molto apprezzato la serie animata «Fune wo Amu», tratta da un romanzo della stessa autrice, e ho voluto così dare un’opportunità a questa serie (anche se gli “spokon”, in linea di massima, non mi attirano troppo). Non sono rimasta delusa. L’impianto è solido e ne esce un’opera che è, soprattutto, una narrazione corale che riesce a dare risalto, uno per uno, a tutti i personaggi.

La trama ruota intorno a un gruppo di dieci giovani universitari accomunati, inizialmente, dalla sola coabitazione nello stesso, economico, pensionato; studenti che verranno coinvolti, da uno di loro - il protagonista Haiji -, nella partecipazione all'Hakone-Ekiden, prestigiosa gara universitaria di maratona a staffetta.
Il gruppo di giovani uomini, ciascuno con il suo vissuto alle spalle, è rappresentato in modo da donare allo spettatore l’impressione di trovarsi davanti a persone a tutto tondo, come quelle che si incontrano nella vita reale. L’intento non è quello del realismo, quanto quello dell’esaltazione del concetto che, più di quanto ci accade, abbia importanza il modo con cui guardiamo le persone e gli avvenimenti che ci attorniano.

Se «Fune wo Amu» è una storia sull’importanza delle parole «Kaze ga Tsuyoku Fuiteiru» è un racconto sull’importanza degli sguardi: è lo sguardo di Haiji che dà il via alla vicenda.
Lo sguardo di Haiji che individua il talento di quel ragazzo incrociato per caso una sera, mentre fugge dopo aver rubato del cibo, e che trasforma questo incontro fortuito nel punto di partenza per la realizzazione del suo obiettivo: la matricola Kakeru diventerà il decimo abitante del pensionato e decimo uomo della squadra.
Lo sguardo di Haiji su ognuno dei componenti della squadra (in ordine di mia preferenza personale): il talentuoso, ombroso e difficile Kakeru, il brillante e “ruvido” Yuki, il riservato otaku Ouji, il malinconico e maturo Nico-chan senpai, Musa laborioso e sereno, Shindo volitivo e dolcissimo, King con la sua ansia per il futuro, i gemelli Jota e Joji, allegri e (troppo) spensierati.
E lo sguardo di ciascuno su sé stesso, sulle proprie aspirazioni, sul proprio passato e sul proprio futuro.
E ancora: gli sguardi dei ragazzi su ognuno dei compagni, sguardi che mutano e si fanno più profondi nel corso dei ventitré episodi; sguardi che iniziano a vedere al di sotto della superficie, che arrivano a interpretare i silenzi e i non detti.

Il comparto tecnico è ottimo, a partire dalla regia, di Kazuya Nomura, che parte con un primo episodio con narrazione non lineare a catturare immediatamente l’attenzione, che rende avvincente ogni gara con inquadrature originali e molto dinamiche, gestisce sapientemente i flashback che ci mostrano il passato degli atleti e elargisce qui e là momenti di pura poesia (un riflesso della luna nell’acqua fra le mani di Musa, uno sguardo commosso di Haiji proposto in soggettiva).
Il character design, di Takahiro Chiba, è bello alla vista, efficace (si riescono a distinguere agevolmente i gemelli), e esalta le diversità dei personaggi anche nella struttura fisica, particolare non secondario per la trama.
Le animazioni sono dello studio Production I.G (“Psycho-Pass”), sono fluide e integrano piacevolmente la computer grafica, la OST di Yūki Hayashi è adattissima ed emozionante, forse il tratto che più caratterizza quest’opera come un qualcosa di legato all’immaginario sportivo.
Le opening sono accattivanti, ma le due ending, entrambe cantate da Taichi Mukai, sono anche più belle, soprattutto se viste in sequenza, grazie anche a immagini significative.

Difetti? Secondo me tre: alcuni miglioramenti sul piano sportivo un po’ troppo irrealistici, una eccessiva propensione a chiudere gli episodi con un cliffhanger, la narrazione non lineare presentata solo nel primo episodio (ma qui sono di parte: è la mia modalità preferita e mi è spiaciuto non fosse maggiormente utilizzata, l’ho sentita un po’ come una promessa mancata).

A chi consiglio la visione di questa serie basata su un gruppo così ben costruito, fra affinità e contrasti?
Sicuramente a un pubblico molto più vasto degli appassionati di spokon. Chi ama la corsa, e le maratone in particolare, non potrà che apprezzare il focus sui monologhi interiori dei corridori.
Ma piacerà anche a chi ama i toni tranquilli, perché la serie riesce abilmente a tenersi lontana dalle sovra-drammatizzazioni, anche quando le difficoltà sono presenti. Lo consiglio anche a chi apprezza i bei fanciulli, anche se la serie non indugia nel fanservice, perché Haiji è il compagno (ma anche il figlio, l’amico, il collega e pure il proprietario di cane) perfetto.
Agli amanti delle storie corali, a quelli delle storie sull’amicizia, a quelli delle trame ben costruite, a tutti quelli che sono interessati al modo di narrare le storie e non solo alla storia in sé, a tutti quelli che pensano che il nostro modo di guardare il mondo non sia un particolare secondario.

7.5/10
-

Questa serie è la riscossa dello spokon! Semmai ne avesse avuto bisogno. Già, perché il più delle volte noto che sempre più spesso si tende a sottovalutare le serie sportive a causa di difetti che il più delle volte è difficile non riconoscergli, come una certa ripetitività di situazioni e personaggi o delle forzature inverosimili, se non al limite dell’impossibile proprio, che rendono difficile immedesimarsi nei protagonisti della serie in questione. ‘Hinomaru Sumo’ prende questi elementi…e li ripropone pari pari senza provare a cambiare nulla, persino il titolo è esemplificativo della semplicità dei suoi contenuti, il nome del protagonista della serie e lo sport che pratica, un po’ come se ‘Capitan Tsubasa’ si fosse chiamato “Tsubasa Football” o ‘Slam Dunk’ “Hanamichi Basket”. Eppure, magie dell’animazione, vedi ‘Hinomaru Sumo’ e non puoi fare a meno di restarne impressionato, seguirlo con trepidazione e ritrovarti coinvolto negli sforzi e nelle sofferenze vissute dai suoi protagonisti. Pochi anime del 2018 appena trascorso possono definirsi così legati a un genere e allo stesso tempo riuscire a risultare così interessanti a dimostrazione ancora una volta che, anche le formule narrative più abusate, possono rivelarsi vincenti se toccano le corde giuste dello spettatore attraverso storia, temi trattati e personaggi.

Corde che tocca sicuramente ‘Hinomaru Sumo’: il protagonista della serie, come avevo anticipato, è Ushio Hinomaru, studente liceale e giovane promessa del Sumo scolastico, talmente bravo nella sua disciplina da essere inquadrato come un possibile futuro Yokozuna (massimo titolo a cui aspirare nel mondo del sumo) e che per questo porta con sé il soprannome di una delle spade del tesoro nazionale giapponese, Onimaru Kunitsuna, un onore concesso a pochissimi altri personaggi della serie. Sembra un ragazzo destinato a un destino glorioso se non fosse per il fatto che presenta un ‘difetto’ fisico non indifferente ad ostacolarlo nel suo percorso: è troppo basso. Ufficialmente infatti solo lottatori più alti di 1 metro e 67 cm possono partecipare al sumo agonistico ma il nostro Ushio non raggiunge neanche il metro e sessanta. Incurante di questa limitazione che è costretto a subire però, Hinomaru continua a dedicarsi allo sport che ammira più di ogni altra cosa consapevole che, se dovesse diventare Yokozuna delle scuole superiori, avrebbe comunque la possibilità di entrare nel mondo professionistico indipendentemente dalle sue caratteristiche fisiche. La serie quindi si concentrerà sul suo percorso formativo nello sport a cui ha deciso di dedicarsi anima e corpo insieme ai compagni che con lui divideranno gioie e dolori: Shinya Ozeki, presidente del club di sumo dell’istituto Odachi frequentato dai protagonisti, Yuma Gojo, ex-teppista esperto di karate datosi al sumo per cercare una rivincita contro Hinomaru, Chihiro Kunisaki, campione nazionale di lotta libera affascinato dal sumo del protagonista e desideroso di approfondirne i vari aspetti, Kei Mitsuhashi, semplice appassionato attratto dalle gesta di Ushio, e Kirihito Tsuji, amico di vecchia data di Ushio che diventerà allenatore, tattico e preparatore della squadra di sumo della scuola.

Non nasconderò, e del resto l’ho specificato sin dall’ inizio, che da questo punto in poi la storia si muove su binari abbastanza prevedibili che comprendono la presenza di tanti elementi classici del genere quali allenamenti massacranti, ritiri di gruppo, mentori esperti a fare da guida ai protagonisti e un obiettivo comune riposto in tutti i personaggi che comporta la qualificazione, e successiva partecipazione, della squadra ai campionati scolastici nazionali di sumo delle superiori. Niente di straordinario quindi, ma non per questo poco interessante; quello che mi ha colpito particolarmente invece sono state due cose, la caratterizzazione di ogni personaggio e il sumo vero e proprio. Dietro al ‘faro’ Hinomaru infatti riescono spesso a brillare di luce propria, a volte anche più del protagonista, tutti i personaggi principali della serie e, in rari casi, anche alcuni degli antagonisti che da lì a poco conosceremo. Ma sono i membri del club di sumo della Odachi, per forza di cose, a ritagliarsi lo spazio maggiore: Ozeki ad esempio è il personaggio che subisce l’evoluzione maggiore rispetto all’ inizio passando da grande appassionato del sumo timido e remissivo, costretto dalla banda di teppisti di Yuma ad allenarsi fuori dal dojo scolastico, a Capitano della squadra deciso e consapevole dei propri mezzi; Kunisaki, che entra in contatto col sumo quasi casualmente, ne resterà talmente assorbito da riuscire a contrastare i migliori lottatori nazionali sfruttando il talento innato nella lotta che lo contraddistingue; Yuma intraprenderà un lungo percorso di redenzione che lo porterà a darsi anima e corpo al sumo nel tentativo di espiare le sue azioni iniziali e arrivare a capire la gravità dei suoi errori e lo stesso Kei, che fisicamente è quanto di più lontano sarebbe solito associare a un lottatore di sumo, spenderà ogni goccia di sudore per affinare le sue tecniche e non essere un peso per gli altri componenti della squadra. Tutto questo viene raccontato in modo naturale e mai forzato attraverso una lunga evoluzione che giustifica e rende credibili i miglioramenti che tutti i personaggi faranno lungo la storia. L’altro punto di forza della serie invece è proprio il sumo in questione, sport nazionale giapponese nonché rito spirituale vero e proprio oltre che mera pratica sportiva, una disciplina difficile da vedere utilizzata come tema di una serie animata e che qui ci viene mostrata in tanti aspetti diversi, tra cui una ‘potenza’ fisica che faticavo ad associargli: se è ben nota infatti la mole che contraddistingue i lottatori di sumo, propriamente detti rikishi, non altrettanto era da parte mia tutta la preparazione che necessita la pratica del sumo, sia come esercizio fisico base sia nella tattica e nella gestione del singolo incontro. Tutto ciò viene mostrato con dovizia di particolari nell’anime attraverso i tanti incontri che vivranno i protagonisti raggiungendo anche un buon equilibrio che bilanci l’aspetto sportivo e le classiche esagerazioni da shonen, che comunque non mancano nei momenti più intensi e decisivi, ma che non intaccano minimamente la tensione che si respira in ogni scontro che raramente dura molto tempo, come prevede in fondo la realtà del sumo dove le sfide si risolvono molto spesso in meno di un minuto.

L’anime di ‘Hinomaru Sumo’ è una produzione dello Studio Gonzo in 24 episodi ed è la trasposizione dell’omonimo manga dell'autore Kawada, pubblicato da quasi cinque anni sulle pagine del Weekly Shonen Jump di Shueisha. Non conosco l’opera originale per cui non posso valutare le eventuali differenze fatte dalla produzione dell’anime, ma posso immaginare che siano diverse visto che il manga è ancora in corso e conta oltre duecento capitoli mentre l’anime si ferma intorno al centocinquantesimo capitolo, un numero già comunque cospicuo da ridurre completamente negli episodi presentati; in ogni caso la serie ha una costruzione efficace e un finale decisamente convincente che la fanno funzionare tranquillamente senza conoscere nulla dell’opera originale.
La regia è curata da Yasutaka Yamamoto, un lavoro lineare ma apprezzabile che risulta estremamente convincente soprattutto nelle tante scene di lotta che compongono la serie e rappresentano senza dubbio i momenti più vigorosi ed entusiasmanti dell’anime. Il character design di Kii Tanaka è una piacevole rivisitazione del tratto originale di Kawada, che resta comunque superiore a mio parere per precisione e pulizia, mentre ho trovato il comparto sonoro abbastanza debole nel suo complesso; le musiche di James Shimoji non sono orribili sia chiaro ma raramente mi hanno aiutato a sentirmi coinvolto dall’azione, e lo stesso dicasi per le quattro sigle della serie, due opening e due ending, che ho trovato discrete al massimo, visivamente semplici ma abbastanza banali mentre, dal punto di vista musicale, francamente dimenticabili. Assolutamente azzeccato invece è stato il doppiaggio giapponese, scelte adatte ad ogni personaggio e recitazione sempre puntuale in qualunque momento, partendo da Atsushi Abe che ha doppiato il protagonista Hinomaru, e proseguendo quindi con Fukushi Ochiai (Ozeki), Takuya Sato (Kunisaki), Kentaro Kumagai (Yuma) e Ayumu Murase (Kei).

‘Hinomaru Sumo’ in definitiva è una serie decisamente riuscita, un racconto moderno a tema sportivo che ha tutti i crismi del classico imperdibile e, per questo, trovo che sia adatta ad ogni pubblico alla ricerca di storie cariche di azione, sforzi, sacrifici e personaggi carismatici in grado di farti appassionare anche a quegli argomenti che mai ti saresti aspettato di dover cominciare a conoscere, come il sumo che in fondo è uno sport fortemente legato e racchiuso al Giappone, e che invece in quel momento riescono ad assorbirti e affascinarti come poche altre cose al mondo.

9.0/10
-

Touch è un'opera che significa molto per me. Per questa ragione, temo che sarò tutt'altro che oggettiva nel recensirla, siete avvisati.
I disegni di Adachi sono semplici e chiari ma, al tempo stesso, curati, soprattutto per quanto riguarda gli sfondi. Dal momento che si tratta di un'opera degli anni '80, un lettore abituato a un tratto più moderno potrebbe, almeno in un primo momento, non trovare di suo gusto questo stile, ma io invito a proseguire comunque nella lettura, anche solo per apprezzare come Adachi riesca a trasmettere il senso dello scorrere del tempo (e dello spostarsi nello spazio) semplicemente passando da una vignetta a un'altra, senza bisogno di didascalie o di altri stratagemmi. Ammetto di aver letto altre opere che riescono in quest'intento ma, prima di Touch, ero abituata a leggere solo fumetti occidentali di un certo tipo e perciò questa caratteristica mi colpì moltissimo, senza contare che, ancora adesso, credo che Touch rimanga comunque unico per il modo in cui riesce a farti prendere coscienza dei mutamenti che lentamente avvengono nel mondo e nella vita dei suoi protagonisti.
A proposito di protagonisti, Touch è quel tipo di storia che ti costringe ad affezionarti a tutti i personaggi, da quelli più importanti a quelli di contorno, capaci comunque di strapparti un sorriso. Non ci sono psicologie particolarmente complesse ma, proprio per questo, non vi sono nemmeno incoerenze e, d'altra parte, questo non significa che non vi sia approfondimento: Tatsuya e Minami sono ovviamente i due a cui è dedicato più spazio, ma anche moltissimi altri comprimari hanno il loro momento per brillare, per mostrarci un lato inaspettato del loro carattere, o qualcosa che non conoscevamo del loro passato, o semplicemente un loro sentimento più intimo. Purtroppo non tutti i personaggi sono gestiti bene, ve ne sono alcuni che vengono introdotti solo per scomparire senza aver dato un vero contributo alla storia. Secondo me, questo è un difetto solo fino a un certo punto: nella vita spesso si conoscono persone con le quali si perdono in fretta i contatti, perciò questa caratteristica di Touch può essere considerata come un supplemento di realismo, per quanto possa infastidire i lettori più attenti ai dettagli.
Quello che invece non può deludere nessuno, è il modo in cui vengono gestite le partite di baseball. Io non sono un'appassionata di sport e tanto meno di baseball, eppure giuro che, leggendo Touch, mi sono ritrovata a esultare per un fuoricampo e poi a urlare "no!" quando questo viene annullato perché i nostri hanno sbagliato l'ordine di battuta... E l'emozione trasmessa al lettore è la stessa per ogni partita! Infatti non ci si annoia mai e, per quanto talvolta il risultato della partita stessa sia prevedibile, c'è sempre un autentico senso di sfida, non si ha mai la sensazione che la vittoria si assicurata.
Ma Touch non emoziona solo per il baseball. Touch è riuscito a farmi ridere con le sue battute e la sua ironia, come è riuscito a farmi piangere (ben più di una volta) con i suoi momenti drammatici. Questo è il motivo per cui quest'opera è così importante per me: nella sua semplicità, è riuscito a donarmi queste emozioni (di per se non facili da suscitare) nel corso di tutta la lettura. Non posso fare altro che consigliare a tutti di recuperarlo: sport, slice of life, romanticismo, dramma, relazioni credibili tra i personaggi, commedia, cura per i dettagli e molto altro, sono tutte componenti che insieme riescono a dare di più della somma delle singole parti. Creano Touch.