Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

6.5/10
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Prima di iniziare la recensione, mi sono necessarie tre premesse. Prima, e più importante: questa recensione contiene spoiler per “Steins;Gate”. Non è assolutamente possibile guardare “Zero” senza aver visto la serie che l’ha preceduta, motivo per cui non mi asterrò dal parlare nel dettaglio anche di essa.
Seconda: saranno presenti diversi paragoni con “Steins;Gate”. Visto il voto che ho dato a “Zero”, potreste pensare che non è un giusto modo di procedere: non posso nascondere la mia delusione durante la visione di “Zero” sapendo da cosa è preceduta, ma ho tutta l’intenzione di spiegare e argomentare perché, anche senza l’ombra della prima serie, “Zero” rimane comunque un prodotto poco più che sufficiente.
Terza, e ultima: in questa recensione io tratterò solamente di ciò che viene mostrato nell’anime, in quanto è una recensione sull’anime. Non ho giocato le visual novel e non ho avuto esperienza con altri media in cui la serie è stata adattata: il fatto che nella visual novel (o altrove) alcune cose siano diverse, o spiegate meglio, o realizzate meglio, non allevia né giustifica i difetti che questo anime possiede.
Dunque, procediamo.

“Zero” è un seguito diretto dell’episodio speciale uscito nel 2015 “Open the Missing Link - Divide by Zero”, e segnalato normalmente come “Episodio 23β”. Se la prima serie si chiude con la decisione di Okabe di tentare di salvare Kurisu una seconda volta, ingannando sé stesso e il mondo, e potendo così raggiungere la linea di universo Steins;Gate, questo episodio alternativo ci mostra un Okabe che non prende quella decisione. Ciò accade poiché egli non viene ulteriormente incalzato da Mayuri, che al contrario lo supporta, nel tentativo di proteggerlo da una ulteriore sofferenza, e rimane quindi nella linea di universo beta dove Kurisu muore e Mayuri vive. In questa linea di universo Okabe, colmo di sensi di colpa e addolorato per il sacrificio di Kurisu, decide di gettare il “microonde telefonico”, di chiudere con gli esperimenti temporali, di abbandonare il laboratorio e di tornare a una normale vita universitaria. La sua vita, però, tutto sarà fuorché normale, o tranquilla.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’esistenza di “Zero” non è assolutamente inutile, o forzata, è anzi utilissima per integrare, spiegare e approfondire il perché in “Steins;Gate” Okabe decida di tentare nuovamente il salvataggio di Kurisu, nonostante il peso delle esperienze che ha subito. La serie infatti potrebbe essere vista proprio come un’indagine, una spiegazione di cosa intenda l’Okabe del futuro quando in “Steins;Gate” afferma che «era necessario che l’Okabe di quindici anni fa fallisse la prima volta, perché quel dolore è quel che ha accresciuto la mia determinazione». Attraverso “Zero” diventa palese come la linea di universo Steins;Gate non venga raggiunta per puro caso, o con leggerezza, ma al contrario si può comprendere quante variabili, quanti sforzi, quante morti, quante esperienze e quanti tentativi siano stati necessari per poter arrivare a quel risultato.
Con queste premesse, è doppiamente un peccato non solo che il prodotto finale non sia assolutamente all’altezza del suo predecessore, ma più in generale che ne sia uscito un anime non validissimo. La serie è decisamente troppo lunga per quel che si propone di fare, vi sono troppe aggiunte che spesso non quadrano con quanto raccontato in “Steins;Gate”, troppi personaggi buttati nel brodo tanto per fare numero, troppi cliché, e qualche serio problema di sceneggiatura. Ma procediamo con ordine.

Il pregio più grande di questa serie, e purtroppo anche uno dei pochi, è Okabe della linea di universo beta, che per semplicità chiamerò da qui in poi “Okabeβ”. Rispetto ad Okabeα, ci troviamo di fronte a un personaggio completamente diverso, direi quasi “ribaltato” (in fondo il ribaltamento, nel bene ma soprattutto nel male, è una costante di “Zero” rispetto alla prima serie). Okabeβ si presenta vestito completamente di nero - praticamente a lutto, cosa che ho trovato incredibilmente ben studiata -, non frequenta più il laboratorio ma i circoli universitari, e non inveisce più contro l’”Organizzazione” o qualche altro tipo di complotto mondiale. È così diverso da poter essere “Out Of Character”, eppure risulta terribilmente coerente con Okabeα, specie nella sua incapacità di nascondere il profondo dolore che prova dentro di sé: non saranno rare le volte in cui lo vedremo avere degli scatti d’ira, delle reazioni emotive forti a dettagli che gli altri personaggi considerano insignificanti. Quello che cambia in Okabeβ rispetto ad Okabeα è che, laddove il secondo tenta disperatamente, ancora e ancora, di ottenere un risultato sfidando tutto, il primo reprime costantemente il desiderio, la possibilità, perfino il pensiero di poter cambiare il passato, e si forza ad accettare una realtà che nel profondo del suo cuore disprezza. Sia perché Kurisu, la persona per lui più importante, è morta per mano sua, sia perché l’alternativa sarebbe sacrificare Mayuri: tutto questo, ovviamente, non fa che peggiorare il suo stato d’animo. La serie riesce in maniera eccelsa a mostrare in parallelo una persona che a uno sguardo esterno e superficiale si sta riprendendo da un lutto, sta migliorando le sue prospettive di vita studiando e formando nuove conoscenze, ma che attraverso gli occhi di chi invece lo conosce bene appare al contrario sempre, profondamente, sofferente. Trovo che questo sia un messaggio molto forte, umano e soprattutto molto attuale.
Okabeβ è, sinceramente, uno dei pochi (e sicuramente il più grande dei) motivi che mi ha spinto a continuare la visione di questo anime, nonostante tutto il resto. Lo conosciamo all’inizio, quando tutto sembra andare bene, e lentamente capiamo quanto in realtà sia grande il suo dolore, quanto, nonostante tutto, continui a influenzarlo nella sua vita e nelle sue scelte, e perché, alla fine, ricollegandosi a “Steins;Gate”, anche questa terribile esperienza gli tornerà utile. Okabeβ, che all’inizio ci sembra aver abbandonato tutto, ci mostrerà alla fine, proprio come Okabeα, quanto invece sia sterminata e forte la sua determinazione.
E, restando in tema di determinazione, voglio aprire una breve parentesi per parlare di Mayuri. In “Steins;Gate” la vediamo molto presente, ma perlopiù in un ruolo di supporto, oserei dire protagonista “passiva” delle vicende. In “Zero”, riprendendo il discorso del “ribaltamento”, la vediamo più consapevole di sé, delle sue intenzioni, e soprattutto del suo poter intervenire per cambiare le cose. Laddove Okabeβ le dice che non deve preoccuparsi di nulla, che deve solamente vivere la sua vita, Mayuri tira fuori la forza necessaria a controbattere, e a prendere l’iniziativa.
Anche Daru, tutto sommato, riceve un buon ulteriore sviluppo come personaggio, riuscendo a elevarsi ancor di più rispetto alla prima serie.

Tutto questo mi sembra doveroso sottolinearlo, poiché questa non è una serie senza pregi e, difatti, ha comunque raggiunto la sufficienza. Il problema risiede nel fatto che, complessivamente, i difetti hanno un peso molto importante e rendono “Zero” un’occasione sprecata di avere un prodotto di qualità.
Come già accennato in precedenza, ho trovato la serie eccessivamente lunga e, per questo, in alcuni punti noiosa. Vi sono numerosi episodi quasi esclusivamente filler, che però falliscono nel farci affezionare di più ai nuovi personaggi introdotti in questa sede, dal momento che come costruzione risultano forzati e si ricorre spesso a cliché (sia comici che di sviluppo) che invece “Steins;Gate” aveva evitato, o al massimo aveva interpretato in un’altra maniera, aggiungendoci del suo. Non mancheranno ahimè l’episodio di Capodanno, l’episodio dell’appuntamento, le situazioni fraintendibili, i triangoli amorosi, gli equivoci e molto altro. Questo porta lo spettatore a disinteressarsi dei personaggi nuovi (e a desiderare come l’aria che ritornino quelli vecchi), e ciò causa a catena il poco impatto delle scene drammatiche. Come può una persona commuoversi o comunque essere toccata da determinati avvenimenti se tanto non c’è una vicinanza, un interesse per chi ne viene coinvolto? Purtroppo, nella maggior parte dei casi, le scene che nelle intenzioni dovevano essere le più cariche a livello emotivo risultano al contrario quasi ridicole, esasperate, messe lì giusto per creare del dramma fine a sé stesso.

Un altro problema veramente grave, è che, contrariamente a quanto avveniva nella prima serie, “Zero” non solo evita di mettere le carte in tavola per poi scoprirle al momento giusto, ma direttamente nasconde arbitrariamente dei dettagli allo spettatore senza dei motivi validi, così da avere materiale per creare colpi di scena sensazionali che sono, però, artificiosi. Oppure, peggio ancora, inganna lo spettatore portandolo a credere per tutta la serie A, quando poi in realtà è B. Trovo espedienti di questo genere estremamente riprovevoli, in quanto indice di una bassa capacità di scrittura e gestione della trama. I colpi di scena non dovrebbero mai essere giustificati a posteriori con informazioni tolte allo spettatore, dovrebbero invece essere dei risvolti inaspettati, sì, ma in ultima analisi riconducibili a quanto già raccontato senza un (eccessivo) bisogno di ulteriori spiegazioni.
A tutto ciò, già grave di per sé, c’è da aggiungere ben più di una situazione (solitamente ne sono affette le scene d’azione) in cui si hanno direttamente dei buchi di sceneggiatura. Non scenderò ulteriormente nei dettagli, ma si parla di situazioni in cui vi sono scontri armati anche di venti-trenta persone contro due, in cui queste due persone sopravvivono senza un graffio o con, al massimo, ferite leggere. Situazioni in cui in primo piano chi di dovere mena colpi a destra e a manca mentre dietro si vedono distintamente avversari con armi in mano che stanno, letteralmente, fermi. Scelte del genere (ma forse si può parlare direttamente di disattenzione) vanno oltre l’opinabile, in quanto assolutamente non verosimili e, ancora, indice di una povera capacità di gestione delle vicende.

Il quadro, insomma, è tutt’altro che positivo. Purtroppo, molti avvenimenti non si incastrano benissimo con l’ambientazione della prima serie (ad esempio: perché l’anno è lo stesso, la linea di universo la stessa, eppure Okabe possiede uno smartphone al posto che un cellulare pieghevole, e nel 2010 si parla già di IA?) e l’introduzione dei nuovi personaggi risulta in molti casi non necessaria. Non mi sento di bocciare in toto tutte le aggiunte, ad esempio sia Maho che Amadeus sono state sfruttate e approfondite abbastanza bene, per quanto la loro presenza non risulti assolutamente un antidoto alla mancanza di Kurisu, anzi, contribuisce ad accentuarla ancora di più, e questo ha reso almeno me immensamente più vicina a Okabeβ. Oserei dire che una cosa in cui “Zero” riesce in maniera eccellente è farti rimpiangere Kurisu, fartene sentire la mancanza, farti desiderare ardentemente che sia di nuovo lì.
Anche per quanto riguarda aspetti più tecnici, si nota una regia con meno forza e personalità rispetto a “Steins;Gate”, per non parlare poi del comparto grafico in generale, che sinceramente non è pessimo, ma non è molto differente dalla serie precedente. Con, però, il dettaglio che la prima è del 2011, mentre questa è un’opera del 2018. Non mi sento in grado di parlarne in maniera approfondita proprio perché non c’è quasi niente che mi abbia colpito, non è un cattivo lavoro ma è molto nella norma.

Sono quindi rimasta abbastanza delusa da questa serie, ho provato anche della rabbia, sapendo quale è il materiale di partenza e che potenzialità poteva avere questo “midquel”. Il fatto che ci siano alcuni aspetti effettivamente realizzati molto bene, e alcune “sorprese” che non mi sarei aspettata e che mi hanno fatto molto piacere, purtroppo non fa che accentuare la delusione complessiva una volta arrivata alla fine. Quasi tutte le cose che avevo lodato nella prima serie sono qui assenti o riproposte in versione peggiorata: ritorna anche qui, nel suo aspetto peggiore, il discorso del “ribaltamento”.
Il salto da un 9 ad un 6,5 è molto grande, me ne rendo conto, ma resto convinta che, anche senza il paragone con il primo “Steins;Gate”, difficilmente “Zero” avrebbe superato il 7 come prodotto.

9.5/10
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La vita è il risultato di determinate scelte. E’ con questa premessa che Masaaki Yuasa dirige il suo primo lungometraggio, “Mind game”, tratto dall’omonimo manga di Robin Nishi.

Prima di analizzare la trama e i personaggi e, soprattutto, gli stili utilizzati, su cui ci sarebbe parecchio da dire, mi piacerebbe fare una premessa sull’originalità di quest’opera. Fin dai primissimi minuti, infatti, ci rendiamo conto che è un prodotto anticonvenzionale, diverso dalle opere che siamo abituati a vedere. Yuasa ha voluto puntare sul superamento di stereotipi e schemi a cui l’animazione è sempre stata abituata, creando un prodotto unico, a suo rischio e pericolo. E, in effetti, bisogna ammettere che - nonostante i premi vinti - il fatto che questo titolo venga così poco spesso nominato fa intuire che la sua originalità non è stata digerita da tutti. Non è un prodotto per chiunque, specie per chi di Yuasa non ha visto niente. Tanto è vero che, almeno da quanto mi risulta, al momento dell’uscita questo titolo passò quasi inosservato, benché venne poi idolatrato nell’immediato futuro. E’, tuttavia, uno dei migliori film d’animazione che mi sia trovata davanti.

Andando con ordine, partiamo dalla trama: il film si apre con una serie di immagini nonsense, che mostrano squarci di vita quotidiana apparentemente felici, accompagnati da una musica grottesca, che è in totale disaccordo con l’armonia delle immagini. Dopo questi primi minuti conosciamo il nostro protagonista, Robin Nishi, un ragazzo timido e impacciato innamorato, fin da ragazzino, della bella Myon. Nonostante Nishi non riesca ad esternare come vorrebbe i propri sentimenti, la ragazza sa perfettamente di essere l’oggetto del suo desiderio e, benché sia fidanzata con un altro uomo, accetta di aspettare Nishi, consapevole che potrebbe renderla felice. La trama entra nel vivo quando i due innamorati, andati al locale gestito dalla famiglia di lei, si scontrano con due uomini della Yakuza che, dopo un breve dialogo, uccidono Nishi, piangente a terra, e incapace di reagire. Da morto, Nishi conosce Dio, un essere dalla forma in continua mutazione, che gli indica la strada per l’oblio. Strada che Nishi rifiuta, e alla quale preferisce quella opposta. Armato di una nuova forza di volontà, il ragazzo riesce a tornare in vita, a pochi istanti prima che lo Yakuza lo colpisca. Ora la vita gli appartiene. Ora può fare le scelte che cambieranno sé stesso, e gli altri personaggi, per sempre... può creare la vita che vuole, in base a scelte totalmente differenti da quelle compiute fino a quel momento.

Dove abbiamo già visto tutto questo? E’ la stessa idea che Yuasa riprenderà per il suo capolavoro futuro, “The Tatami Galaxy”. La possibilità di riscrivere la propria vita, di compiere scelte diverse, di dar voce al proprio desiderio e di riscrivere il proprio destino... tematiche che questo regista ha dimostrato di apprezzare particolarmente. E’ una cosa che ho gradito molto, insieme ad altri piccoli particolari che ritroveremo in altri suoi lavori (come i vestiti di un personaggio, che saranno identici a quelli di Neiro di “Kaiba”).

Ma passiamo alla cosa più importante: lo stile. Come abbiamo già detto, Yuasa ha voluto proporre qualcosa che rompesse letteralmente schemi e stereotipi. Il film è psichedelico, particolare, unisce tanti stili diversi, tra cui surrealismo (facilmente riconoscibile), live action (utilizzando, peraltro, proprio gli interpreti dei vari personaggi), pop art… Come dice lo stesso regista:

“Anziché rappresentare la storia in modo convenzionale, ho scelto un'estetica selvaggia e disomogenea. Non penso che i fan dell'animazione giapponese vogliano necessariamente qualcosa di raffinato. Puoi sperimentare con vari stili e penso che li apprezzeranno comunque”.

Ed è proprio così, tutta l’opera è sperimentale, il risultato è un insieme di scene oniriche, spettacolari, che resteranno impresse. Come anche la conclusione che riprende le precise sequenze iniziali, ma che questa volta avranno senso, e saranno accompagnate da una musica più allegra, come a voler dimostrare che, come Nishi (che rappresenta tutti noi), chiunque può raggiungere ciò che desidera, in base alle scelte che compie.
In conclusione, un lungometraggio incredibilmente maturo, innovativo e coinvolgente: uno dei migliori di stampo sperimentale!

9.0/10
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Pur non essendo un amante degli anglicismi, debbo ricorrere proprio all'inglese per descrivere al meglio la natura di "ReLIFE": l'unico aggettivo che ho saputo trovare capace di abbinarsi perfettamente a questo manga è "heartwarming". Nel senso stretto del termine, nella traduzione papale-papale della locuzione, questo aggettivo raffigura perfettamente la capacità di "ReLIFE" di scaldare il cuore, di intenerire, di commuovere. Una particolarità che però riesce a non essere mai esagerata, eccessiva e smielata come invece spesso capita a molti suoi simili.

E' proprio attraverso un confronto con altre commedie scolastico-sentimentali che si riesce ad apprezzare la portata di "ReLIFE". Parliamoci chiaro: il manga di Sou Yayoi non è una perla esclusiva di inaudita originalità; molto, dai personaggi ai loro problemi da adolescenti a numerose delle sotto-trame di cui è composto il prodotto, è tipico di questo genere letterario. Eppure, il complesso riesce ad affascinare, a convincere e ad emozionare come pochi altri hanno saputo fare; merito, questo, del convincente incipit scelto per costruire "ReLIFE".
La tematica del fenomeno crescente dei NEETs, unita alla consapevolezza del protagonista della sorte futura che gli capiterà in quanto cavia del progetto, fungono da fattore moltiplicativo nel dare un peso nuovo e differente a ciascun episodio ed all'opera nel contesto. Ogni episodio, ogni emozione, ogni situazione, verrà quindi soppesata dal lettore in maniera differente dalla norma: non più il banale sfoggio di emotività trita comune e fine a se' stessa a cui siamo abituati, bensì una più profonda ricerca introspettiva, un funzionale meccanismo per dare profondità al protagonista e per dare concretezza alla frustrazione tipica della sua natura duale di adolescente-adulto, costretto fisiologicamente e burocraticamente a crescere, abbandonare i propri compagni e tornare ad essere un uomo cresciuto dimenticando e venendo dimenticato.

Questa profondità mi ha convinto parecchio perchè è stata ben dosata. Nel complesso "ReLIFE" non è stucchevole in nessuna situazione ed in nessun suo capitolo: nulla risulta essere smielato, troppo presente e troppo pressante, nessuna situazione e nessuna emozione viene trattata con il grossolano risultato di diventare pesante, stuccoso e tedioso. Come dicevo poc'anzi, pur non essendo un'opera davvero innovativa "ReLIFE" non stanca, non affatica, non risulta trito. Ogni suo aspetto è curato e ben dosato, non esagerato e costruito con precisione.

Nel complesso gli assegno un 9: tra le opere di questo genere è quella che mi ha convinto maggiormente poichè ha molto più spessore delle altre, risultando più curata e gradevole. Apprezzabile la ricerca della solidità complessiva, lodevole l'intento di dare serietà e concretezza ad un prodotto i cui generi notoriamente tendono a farlo diventare leggero e facilone