Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

9.5/10
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Shinichiro Watanabe e lo studio Sunrise confezionano una delle serie più belle e importanti della storia moderna dell'animazione giapponese. "C'era una volta un gatto, un po' speciale" racconta il cacciatore di taglie Spike Spiegel alla ladra Faye, in uno dei momenti più toccanti dell'intero anime, racchiudendo in una sola frase tutto lo spirito dell'opera. Watanabe la costruisce esattamente così: con l'andamento di una fiaba noir fantascientifica, che alterna momenti di pura poesia ad altri action di violenza spietata, ma sempre con l'intenzione di raccontare una storia, alla quale se ne affiancano tante altre con altrettanti protagonisti, che, episodio dopo episodio, costruiscono un micro-universo narrativo fatto di regole ben precise.
A tenere unite le varie trame, il "gatto" Spike, alla costante ricerca di un qualcosa che dia senso alla sua vita, ma che si svelerà allo spettatore passo dopo passo e solo nel potentissimo e indimenticabile epilogo che tutt'oggi resta capace di commuovere i nuovi spettatori. A ben vedere tutti i personaggi sono caratterizzati dal tema della ricerca, che sia la memoria perduta, una donna amata nel passato o più semplicemente un posto nel mondo; Watanabe ha l'accortezza e la sensibilità di sottolineare quella che è in fondo l'ambizione di tutti gli esseri umani: il costante inseguimento di uno scopo, di un obiettivo, che sappia risvegliare in noi una volontà di rivalsa, nei confronti di un'esistenza che troppo spesso ci mette in ginocchio con i suoi imprevisti.
Anche in questo generale sconforto però, i personaggi del Bebop sanno essere esemplari: le avversità si affrontano a testa alta e forse persino un destino già scritto può nascondere ancora delle sorprese inaspettate. In fondo, sotto la patina occidentale, batte sempre un cuore che affonda le proprie radici in una morale tutta orientale.

In un momento storico come la metà degli anni '90, in cui la serialità orizzontale, rappresentata dal seminale "Evangelion", iniziava a mandare definitivamente in pensione la struttura episodica caratteristica delle produzioni animate del decennio precedente, "Cowboy Bebop" si pone in netta controtendenza: pochi e sporadici episodi collegati fra di loro che portano avanti la trama, per tutto il resto brevi puntate autoconclusive. Se ad una prima rapida occhiata tutto questo genera profonde perplessità, una volta visionata l’opera per intero è impossibile non accondiscendere con la scelta del regista: Watanabe dimostra di essere un grandissimo conoscitore dei tempi narrativi e di come questi si possano interfacciare con l’altro cardine di tutta la produzione Bebop, la musica. Non solo i titoli degli episodi rimandano a brani celeberrimi di pezzi occidentali, ma l’intera struttura dell’anime rispecchia quella che è una partitura musicale. Densità e rarefazione sono le parole d’ordine per la comprensione di un canovaccio narrativo che alterna momenti di concentrazione della trama principale ad altri ben più rilassati di distensione del racconto, in un ritmo (parola quanto mai appropriata) che incede a volte frenetico, a volte solenne.
Da regista con grande gusto cinematografico a maestro di un’orchestra di immagini che ha il compito di tenere sempre lo spettatore attento a ciò che scorre di fronte ai suoi occhi, Watanabe ha maniacalmente curato ogni aspetto della sua creazione, con il prezioso contributo della compositrice Yoko Kanno e dei suoi Seatbelts, artefici di una colonna sonora memorabile, la migliore mai ascoltata in un anime, che spazia dal jazz al rock al soul: una sequenza di brani già classici (dalla frenetica opening “Tank” fino a “The real folk blues”, amara e graffiante) che si integrano alla perfezione con le sequenze cui sono abbinate, creando in certi casi dei sorprendenti videoclip musicali.
A sostenere l’immane lavoro registico ci pensa anche un comparto artistico di tutto rispetto, che non cede mai il passo ad animazioni scadenti: il character design, debitore di un certo tipo di estetica che rimanda a “Lupin III”, propone personaggi tutti diversificati fra loro seppur con tratti simili. Vette di assoluta eccellenza riguardano anche gli elementi di contorno come sfondi e velivoli, tutti realizzati con la massima cura per creare un effetto di tangibilità percepibile.
E tangibili sono anche gli stessi personaggi, caratterizzati in maniera superba, che altrettanto come la trama principale si disvelano agli occhi dello spettatore nelle loro sfaccettature puntata dopo puntata; con una menzione particolare ovviamente per l’equipaggio del Bebop, i cui membri sono ormai tra i più iconici della cultura pop: il taciturno Spike, Il burbero Jet, Faye bella e letale, l’hacker Ed sono tutti figli di un recupero di alcuni cliché tipici non solo delle produzioni giapponesi ma anche di opere occidentali che Watanabe ricicla e reinterpreta, donandogli nuovo appeal e fascino, perfetti per una storia che fa del sapiente riutilizzo di situazioni narrative uno dei suoi punti di forza, in pieno stile post-moderno.

Qualunque sia il vostro gusto in fatto di animazione, sarà impossibile non apprezzare l’assoluto livello di pregio che “Cowboy Bebop” raggiunge e che lo pone di diritto fra le serie più importanti di sempre, un vero unicum irripetibile all’interno della sua categoria, frutto di uno sforzo congiunto e di una sinergia fra le varie parti che ha dell’incredibile.
Se siete ancora fra i pochi a non averlo visto, fatevi un favore.

10.0/10
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"In Giappone ci sono moltissime persone di talento che purtroppo non possono esprimere appieno il loro potenziale e in completa libertà. Ecco perché ho scelto di lavorare in questo modo con quest'opera. Qualche anno fa un'opera d'animazione per debuttare doveva per forza avere fra i protagonisti una ragazza giovane e carina (ride), mentre le cose ora sono cambiate, e penso che sia grazie anche a Space Dandy" - Shinichiro Watanabe, Torino, 2017.

Da aggiungere non ci sarebbe davvero molto altro. "Space Dandy" è probabilmente una delle serie più significative e influenti del suo decennio dal punto di vista produttivo e creativo, e gli effetti lo stanno già dimostrando nel breve tempo. Poco importa che questa atipica "antologia" animata abbia raggiunto o meno i gusti personali miei, di Tizio, Caio e Sempronio. Quando ci si autodefinisce "appassionati di animazione giapponese", ci si dovrebbe almeno rendere conto di quanto preziosa sia l'idea (al di là della finissima confezione tecnica) su cui si fonda un'opera corale e unica come questa, nel particolare contesto in cui è stata partorita: corale, nel suo riunire sotto lo stesso vessillo centinaia di individualità artistiche diverse, non solo per stile ma anche per età, esperienza e provenienza; unica, nel costituire qualcosa di mai vistasi prima sul formato televisivo. Il che fu, in parole povere, prendere tutte queste persone, e dirgli "Questo è il soggetto: un dandy, un aspirapolvere e un gatto extraterrestre che vagano per lo spazio. Interpretatelo a modo vostro, sbizzarritevi, vi do carta bianca". Cosa quasi impensabile, incanalare un prodotto simile nei circuiti commerciali dell'animazione nipponica dell'ultimo decennio. Definiamolo pure come una specie di museo con esposti quadri rappresentanti lo stesso soggetto, venuto alla luce nell'ormai lontano (?) 2014 su approvazione del magnanimo Masahiko "studio Bones" Minami-san, tra i pochi presidenti/producer rimasti a non aver rinunciato alla concretizzazione di un'utopia: "un posto dove lavorare più liberamente, più in grande". Un azzardo (naturalmente) non ripagato dal ritorno economico, ma che ripaga di soddisfazione chi vi ha preso parte.
Aprendo la parentesi personale, non si tratta neppure della mia serie preferita concepita da Watanabe (e non "di Watanabe", che in questo discorso smarrisce il suo senso) tantomeno fu la mia preferita nella sua annata. Non è un "capolavoro" e non ne ricorderò a memoria tutte le puntate. Perché è naturale che, in un caleidoscopio narrativo dove la discontinuità è volutamente padrona (seppur ritrovando un filo conduttore), si individuino segmenti qualitativamente inferiori, o meno interessanti. Ma questo non conta effettivamente granché, assieme alle mie preferenze. Conta la modestia nel riconoscere il valore di ciò che plasma una passione, al di là dell'autoerotico "culto" del gusto personale. Conta mettersi per un attimo nei panni di un artista emergente che sogna di farsi un nome, per diventare magari un grande regista e dedicare la sua vita ad intrattenere noi, pubblico, coi cartoni animati (e tutto questo malgrado un compenso disumano). Credo insomma che, nel capire o meno in cosa Space Dandy sia eccezionale, stia la differenza tra un appassionato e un consumatore di anime.

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Può l’amore sopravvivere alla distanza e al tempo che scorre, all’abisso del sistema solare, del cosmo, della lontananza dei pianeti e delle forme? All’assenza della vista e del contatto? E può resistere e perpetuarsi per il solo pensiero di essere nel tempo e nello spazio? Raramente un anime, per quanto breve e fulminante come "La voce delle stelle", si era posto quesiti che dilatano così profondamente la percezione della presenza e del contatto, dell’incontro e della congiunzione fisica. Un amore astrale, che diviene quasi metafisico per allontanare l’impossibilità del suo potersi vivere e consumare nel qui e ora, ce lo racconta Makoto Shinkai nel suo primo vero mediometraggio.

È la storia d’amore impossibile, in un futuro prossimo, tra due adolescenti, Mikaku e Noboru, amici speciali sin dall’inizio delle scuole superiori, che vedono improvvisamente il loro mondo cambiare e i loro destini separarsi. Lei decide di arruolarsi nell’esercito dell’ONU, alla ricerca dei Tarsians, alieni ostili incontrati per la prima volta su Marte. Alla guida di un robot, Mikaku viaggia prima su Marte poi su Giove, per arrivare ai confini del sistema solare ed andare oltre, a Sirio, verso galassie inesplorate e lontane anni luce. Lui rimane sulla terra, in attesa dei suoi messaggi e delle sue mail dallo spazio profondo. E più Mikaku si allontana dall’atmosfera della terra, più le comunicazioni tra i due diventano sporadiche, fino a dover attendere anni per ricevere una singola mail. Ma mentre il tempo passa, e tutto intorno a loro cambia, il sentimento che li unisce trova il modo di sopravvivere e farsi ancora più forte, grazie alla consonanza dei pensieri.

Questa intensa e delicata fiaba animata, della durata di appena 25 minuti, consentì a Makoto Shinkai, grazie anche ai numerosi riconoscimenti ricevuti, di farsi conoscere ed apprezzare nel mondo degli anime. Costruita in modo totalmente artigianale attraverso l’uso di un solo computer Mac, "La voce delle stelle" è un’opera pensata, scritta, montata e disegnata tutta al singolare. Shinkai in effetti fece tutto da sé, e in una prima versione si adoperò anche per prestare la voce al personaggio di Noboru, facendo doppiare Mikaku dalla sua ragazza. Solo successivamente, quando chi di dovere notò il valore dell’opera e i diritti furono acquistati, la pellicola venne ripresentata con un doppiaggio professionale (nella versione DVD sono presenti entrambe i doppiaggi). Ciò dimostrò l’innegabile talento di Shinkai, la sua capacità di trattare le tematiche sentimentali in modo non banale ("5 cm per second") e di immaginare nuovi mondi ("Il viaggio verso Agartha"), denotando sin dai sui primi artigianali lavori un innegabile talento autoriale e un riconoscibile marchio di fabbrica. Nella fattispecie, Shinkai è abile sia a livello prettamente visivo, attraverso uno stile sufficientemente pulito e credibile (anche nel raffigurare i robot, che tradiscono una passione per il genere mecha), sia nel montare sequenze che alternano frammenti di vita quotidiana e battaglie spaziali, centrando sempre l’attenzione sui due soli personaggi sulla ribalta, e ben demarcando visivamente i due mondi per caratterizzare al meglio lo stato d’animo dei due innamorati. È una storia profondamente malinconica, a ben guardare, che distanzia all’inverosimile i due protagonisti ma che al contempo tiene viva la fiamma di un sentimento che, a dispetto della voragine evidente che investe le loro vite, arde nel ricordo e nella possibilità di ciò che può e deve essere, a dispetto di un destino che ai loro occhi appare decisamente crudele.

Forse qualcosa si può perdere, nella consequenzialità proposta da Shinkai, qualche passaggio potrebbe risultare criptico o eccessivamente simbolico a uno spettatore non del tutto disposto a calarsi nel climax immaginato dall’autore, ma quel che non si può non cogliere, ultimata la visione, è la totale indisponibilità a soccombere al fato avverso dei due ragazzi, e l’estrema disposizione a rincorrersi e a (ri)trovarsi, al di là della distanza e del tempo, col pensiero. È qui che l’amore trova la sua immortalità, nel momento in cui le frasi delle mail sono interrotte e fatalmente ricomposte e completate dai ricordi per essere immaginate comunque, nonostante tutto, rivolte al futuro che sarà.