Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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9.0/10
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Nel 2003 lo studio Bones dà alla luce “Wolf’s Rain”, serie animata ideata da Keiko Nobumoto (che in seguito curerà anche la sceneggiatura di “Samurai Champloo” e “Space Dandy”) e diretta da Tensai Okamura (regista del secondo episodio di “Memories” e in futuro di “Ao no Exorcist” e “The Seven Deadly Sins”). L’opera si compone di trenta episodi: le prime ventisei puntate sono andate in onda nel 2003, mentre le restanti quattro sono state rilasciate sotto forma di OVA nel 2004.

La storia si svolge in un’epoca in cui si dice che i lupi siano estinti da oltre 200 anni; in realtà essi sono capaci di ingannare gli umani mescolandosi fra loro, dunque molti esemplari sono ancora in circolazione. Protagonista dell’anime è infatti un lupo solitario di nome Kiba, che assieme ai compagni Tsume, Hige e Toboe intraprende un lungo viaggio alla ricerca del Rakuen (letteralmente “Paradiso”).

Sono molte le opere che affrontano la tematica del viaggio, ora come percorso di crescita, ora come coronamento di un obiettivo di vita. Alcune si rivelano dei fallimenti totali, altre danno l’ulteriore conferma che tale elemento è uno dei migliori su cui fondare una storia. A mio parere, “Wolf’s Rain” rientra a pieno titolo nella seconda categoria.
Il tortuoso cammino sul quale si avventurano Kiba e i suoi amici è, innanzitutto, uno strumento di scoperta: esso ci porta infatti alla conoscenza dei tanti segreti che avvolgono la storia dell’umanità, immergendoci in un mondo arcaico e onirico in cui regnano arti oscure quali l’alchimia e si profilano arcane figure che hanno raggiunto il grado di divinità oppure bramano di conquistarlo. Seppur il ritmo delle varie puntate non sia proprio cadenzato, i tanti misteri che si affacciano di volta in volta riescono dunque a tenere viva l’attenzione dello spettatore.

Oltre che scoperta delle origini delle creature viventi, il viaggio di questi quattro lupi è un’avventura alla ricerca di sé
stessi. Uno dei punti di forti dell’anime è, infatti, la caratterizzazione dei suoi personaggi, che riguarda tanto i protagonisti quanto i personaggi secondari. I primi, messi a dura prova sul significato della parola branco, impareranno a comportarsi come un gruppo e mettere da parte il concetto di “lupo solitario”; c’è chi diventerà finalmente adulto grazie al risveglio del suo istinto di caccia, e chi troverà nell’incontro con la propria compagna l’accettazione della propria identità. Insomma, il parallelismo con le caratteristiche di questo leggendario animale si rivela uno strumento efficace per la crescita dei protagonisti.
Anche i vari comprimari, che invece sono tutti esseri umani, saranno oggetto di un adeguato approfondimento. Spiccano, in questo contesto, il cacciatore di lupi Quent col suo fido cane Blue, nonché la tormentata coppia formata da Cher e Hubb.

Altro punto di forza dell’anime è rappresentato dai numerosi messaggi che desidera veicolare. Nel corso dei vari episodi verranno infatti trattate tematiche come il razzismo e la paura del diverso, la caparbietà necessaria al raggiungimento di un sogno, l’importanza dei legami che si creano tra una persona e l’altra. Il significato che sta nel Rakuen, e soprattutto nella sua ricerca, costituisce però l’allegoria più affascinante: è possibile infatti trovare delle similitudini con la religione, nella quale si ricerca continuamente qualcosa che possa condurre alla salvezza dell’uomo; il raggiungimento del “Paradiso” può essere dunque paragonato a una catarsi e una successiva rinascita, che tuttavia non potranno mai purificare del tutto l’umanità a causa dei sentimenti negativi e delle maledizioni presenti da sempre nel mondo.

Il comparto tecnico può considerarsi quasi perfetto in ogni suo aspetto. Toshihiro Kawamoto (“Gundam 0083: Stardust Memory”, “Cowboy Bebop”) ci regala un character design molto gradevole e dettagliato, mentre disegni e animazioni si attestano su livelli eccellenti per tutta la durata della serie (a questo proposito lo studio Bones è sempre una garanzia). Punta di diamante è costituita altresì dalla colonna sonora composta dalla sublime Yoko Kanno, capace di deliziarci con tracce variegate e memorabili in ogni opera a cui prende parte: degni di nota, a questo giro, sono soprattutto i brani cantati, come l’opening “Stray” e “Heaven’s not enough”, entrambe interpretate da Steve Conte.

In conclusione, “Wolf’s Rain” è un anime con una trama ben costruita, dei personaggi ottimamente caratterizzati e una realizzazione tecnica curata nei minimi dettagli. Il suo più grande difetto, a mio parere, sta nei quattro episodi riassuntivi presenti verso la metà della serie, i quali smorzano troppo il ritmo e risultano di dubbia utilità.

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Nutrivo una discreta voglia di vederlo, essendo ghiotto di anime all'insegna dell'avventura. Nonostante i pareri favorevoli, la serie l'avevo interrotta a causa del design dei personaggi, che non rientra propriamente nelle mie corde. Tuttavia, visto che il tam-tam mediatico non ha mai smesso di risuonare, ho optato per il recap, così da spararmi in un sol colpo tutte le scene più importanti. Questo lungometraggio riassuntivo capita a fagiolo, permettendomi di saggiare la nuova opera di Masayuki Kojima e di esprimere il mio sentiment.

L'antefatto è a dir poco strepitoso, sono rimasto in trance ad ammirare i mulini a vento al tramonto, ripresi durante la cosiddetta "ora blu", tecnica fotografica per indicare un particolare momento della giornata che intercorre durante il crepuscolo. Escamotage che da sempre regge il cartellone nel magico mondo dei japanime. Roba da rimanere incollati con le terga allo schienale della sedia! Penso che perlomeno un Golden Globe o un Osella Award per il migliore contributo tecnico se lo meriterebbe tutto. Si evince oltremodo che la qualità dei singoli episodi si assesta su livelli sopra alla media, con una continuità nei disegni senza precedenti.
Non sono proprio un provetto 'perennials' e ammetto di soffrire di pecoraggine conclamata, infatti coltivo un inveterato e atavico senso di repulsione verso il moe infarcito di immagini devianti, associato a una trama alquanto basilare. Non parliamo poi delle derive shotacon. Si stanno inesorabilmente spegnendo il romanticismo e la fantasia fanciullesca dei grandi film d'animazione del XX secolo. Forse all'inizio ho peccato di troppo ottimismo.

Invece di puntare su di un chara simile a quello di stampo ghibliano, morbido e carezzevole, si è preferito mantenerlo vicino a quello del manga, esacerbandone le fisionomie gracili, le guance rubiconde e gli occhioni tipici della categoria kodomo (anche se è etichettato come seinen).
Una enorme voragine che trasmette uno strano senso di perdizione. È un'idea abbastanza inquietante il fatto che il governo di Orth obblighi i bambini di un orfanotrofio a scendere nei vari stadi.
Il motivo principale ricorda quello degli incònditi catch game. Ovverosia ragazzini tonitruanti che devono recuperare oggetti o mostri per guadagnare punti esperienza o danari. Intendiamoci, i momenti di trepidazione ci sono eccome, ma le voci querule dei protagonisti e alcune musichette di sottofondo rovinano le atmosfere e a lungo andare stufano un po'.

L'ambientazione è una sorta di incrocio tra la Valle del vento e la città mineraria di Laputa. Anche gli insetti giganti ricordano quelli del film post-apocalittico di Miyazaki. Kojima non ha mai lavorato nello staff dello Studio Ghibli, ma molto probabilmente è rimasto ammaliato dai loro lavori. Sono stati un lascito non indifferente per generazioni di registi e animatori. Man mano che i giovani esploratori discendono, l'abisso mostra tutta la sua pericolosità, proprio come nella Giungla Tossica di "Nausicaä".

Ho trovato disgustose e disturbanti alcune sequenze, tuttavia cercherò di portare a termine un resoconto in maniera sobria e compiuta, sorvolando su alcune cosucce che avrei volentieri evitato (almeno nel film di riepilogo). Non è la mia idea di anime. Io sono abituato a filmoni di ben altra categoria. Per me è una scudisciata vedere un moccolo kilometrico o punizioni corporali su corpicini ancora acerbi. Devianze immorali nate sull'influsso decadente del capitalismo. I nomi dello staff non fanno certo parte dei titani dell'animazione made in Japan, ma certe cadute di stile, soprattutto da un veterano come Kojima, non me le aspettavo. A questo punto, quasi quasi, anzi sicuramente, parteggio per i nobili ideali filocomunisti di Miyazaki. Inoltre, sono oltremodo schifiltoso e, nel complesso, avrei richiesto un briciolo di liceità in più. La normalità che diventa proibita e la perversione al potere. Ci stiamo riducendo così. Trovo deplorevole la mancanza di un minimo senso di pudore. Sono venuti a mancare i punti cardinali di riferimento.

Perdonate alcuni commenti decisamente tranchant, ma non ho rammarico nel dire che il messaggio che veicola non è sbagliatissimo. È come lo fa che non approvo. Siamo molto lontani dai film Ghibli che hanno più livelli di lettura, una iconografia più vasta e sono più profondi. Che altro dire? Sono rimasto deluso, e penso che si sia capito.

8.0/10
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Seinen manga del 2008, firmato Naoki Urasawa, “Billy Bat” si staglia nel panorama del thriller psicologico che è proprio del suo autore e su cui ha ampiamente dimostrato le proprie abilità.

Siamo in America, e Billy Bat è un fumetto noir di successo con protagonista un pipistrello antropomorfo che fa il detective. Il suo autore, Kevin Yamagata, scopre casualmente che il proprio protagonista esiste già, e parte così per il Giappone per capire a chi ha, inconsapevolmente, rubato l’idea. Ma il suo viaggio lo porterà a scoprire una verità ben più inquietante di un semplice furto: Billy è ben più reale di un semplice disegno su carta, e sembra avere un misterioso potere…

La trama ha un incipit simile alle altre opere di Urasawa e prosegue con un intreccio di vicende diverse (che coinvolgono diversi personaggi, destinati poi ad incontrarsi), svolte su piani temporali diversi. La più grande abilità dell’autore è quella di sapersi destreggiare tra storie ambientate in periodi storici differenti, grazie all'uso di flashback sapientemente inseriti in ogni volume.

Oltre a nominare personalità storiche di rilevante importanza (Giuda Iscariota, Gesù, Hitler, Einstein… ), Urasawa fa diverse citazioni di uno dei suoi autori preferiti, Osamu Tezuka. Dopo “Pluto”, che è forse il titolo meno personale di Urasawa, in quanto rivisitazione espansa di "Astro Boy", in "Billy Bat" gli elogi al maestro del fumetto giapponese non si sprecano. E, oltre a nominarlo come autore irraggiungibile, viene facile il parallelismo tra il personaggio inquietante di Billy e la morale lasciata da Tezuka con “la storia del tre Adolf”, dove la contrapposizione tra bianco e nero, bene e male, fa da perno alla vicenda.

La cosa più affascinante del manga, è il personaggio del pipistrello, disegnato in stile cartoonesco anche quando interagisce con personaggi umani. Interessante è il senso di inquietudine che genera in Kevin e negli altri personaggi che lo possono vedere, dato dal fatto che in ogni sua forma (sia quella più seriosa di Kevin Yamagata, sia quella più dolce e bambinesca del suo assistente Chuck) risulti spaventoso.

A livello di tematiche, "Billy Bat" si fa portatore di critiche e messaggi importanti… Grazie al fatto che Billy sembra comunicare solo coi fumettisti, è palese come Urasawa tenti di dipingere il mangaka come il simbolo di un uomo che affronta la spietatezza del mondo, attraverso un’accurata riflessione sul suo difficile lavoro. E la stessa importanza la ricopre il fan, qui rappresentato da persone che dimostrano la propria passione per la lettura, ricordando accuratamente ogni dettaglio delle storie che hanno letto, o in grado di riconoscere il cambio di stile di disegno dei propri personaggi preferiti. Il fumetto, in questo senso, diventa non soltanto una fonte di intrattenimento, ma anche e soprattutto un canale di trasmissione di valori, come molte altre forme d’arte.
Anche lo stile di disegno è più che promosso: come nei suoi altri lavori, Urasawa non ha paura di usare un tratto decisamente più realista: niente occhioni giganti con nasi inesistenti. Una particolarità interessante è che il manga si apre sullo stile delle produzioni anni ’50.

Insomma, un titolo che consiglio soprattutto a chi ha apprezzato gli altri lavori dello stesso autore, nonostante sia – tra tutti- quello che mi ha colpito/appassionato meno.