Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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La trama.
Haikyu può essere classificato come il classico spokon, non impegnato, la cui principale focalizzazione è incentrata non tanto sull'utilizzare lo sport di turno per veicolare messaggi più o meno forti, ma sulla descrizione dello sport stesso e delle dinamiche che lo contraddistinguono: la pallavolo in quanto tale è la protagonista indiscussa dell’opera, non è un mero contesto che fa da palcoscenico a storie d’amore, come può accadere nelle opere di Adachi, o a critiche sociali, come nelle opere di Inoue. Proprio per questa ragione il taglio scelto da Furudate è un taglio prevalentemente realistico, privo di elementi extra-ordinari, privo di macchiettistiche abilità superomistiche, incentrato su una descrizione il più reale possibile dei meccanismi di gioco, delle tattiche e dei ruoli. In virtù di questo spirito, elementi che potrebbero essere classificati come ”bizzarri”, nello specifico, la veloce della Karasuno, vengono circostanziati attraverso una motivazione reale e plausibile, dettata dalla commistione di abilità tecniche, fisiche e mentali degli atleti coinvolti nell’esecuzione e inoltre non assumono mai la valenza di finisher ineludibili ed infallibili. Questa ricerca di realismo per me è un motivo di plauso ed elogio ma potrebbe far storcere il naso agli amanti dei ”battle-spokon” in cui l’evento sportivo viene rivisitato come uno scontro tra superuomini con superpoteri.
In generale le vicende narrate, sino ad un certo punto verso la fine, sono i classici accadimenti che ci si aspetta da un’opera che narra il percorso di un club scolastico di pallavolo: gli allenamenti, le partite, la cementificazione dello spirito di squadra e la crescita dei personaggi come singoli e come collettivo: da questo punto di vista, l’opera è molto lineare e prevedibile e questo potrebbe allontanare chi, non venendo coinvolto dai personaggi o dallo sport trattato, ricerca un grado di imprevedibilità o “originalità” nei manga che legge. Personalmente, non sono un grande amante dell’originalità a tutti i costi ed il fatto che la trama possa essere facilmente delineata dal lettore con grande anticipo non mi turba in quanto non leggo un’opera per essere sorpreso, ma leggo un’opera per essere intrattenuto nonostante gli eventi possano essere prevedibili, e, a mio avviso, Haikyu eccelle in questo.

I personaggi.
Per quanto nominalmente il protagonista dell’opera sia Hinata Shoyo, Haikyu assume i caratteri di una vera e propria opera corale in cui il protagonista non è un singolo personaggio ma il club di pallavolo della Karasuno nella sua interezza e a seconda degli accadimenti il focus si sposta da un personaggio all’altro. Certamente non si può negare che il focus maggiore sia incentrato su Hinata e Kageyama e sulla loro crescita come atleti ma al contempo si impongono nella narrazione le storie di altri personaggi del club, da Daichi a Sugawara, da Tanaka a Noya e Azumane, da Yamaguchi a Tsukushima, da Kyoko a Yachi. Rovescio della medaglia è che questa focalizzazione su una schiera enorme di personaggi faccia risaltare quando invece alcuni personaggi vengono descritti in maniera assai più lacunosa e sono questi i casi di Ennoshita, Kinoshita e Narita, con il primo che è l’unico che ha avuto una breve parentesi narrativa un po’ più profonda.
Nota positiva di questa dimensione corale dell’opera è l’aver rifiutato la macchiettistica equivalenza che si impone spesso in molti spokon che vede l’avversario di turno essere ritratto come un nemico malvagio e turpe che vuole distruggere gli amati protagonisti: chiunque abbia fatto sport sa che non è necessariamente così, il fatto che dall’altra parte della rete ci siano delle persone che hanno il tuo stesso proposito ossia quello di vincere la partita non li rende dei nemici da battle shonen e Furudate è stato molto bravo a cogliere questo spirito portando molti avversari ad essere un cast di comprimari di prim'ordine tanto da divenire per importanza paragonabili al cast principale e a conquistare il favore del pubblico come nel caso dei membri della Nekomata o Bokuto e Akaashi della Fukurodani e ancora altri.

I disegni.
Chi ricerca in Haikyu un manuale di anatomia umana ha di certo sbagliato bersaglio, lo stile di disegno di Furudate infatti è lontano dall’essere un esempio di realismo maniacale, e i colli dei suoi personaggi sono ormai un marchio di fabbrica, ma tale stile è funzionale non solo alla resa emozionale dei personaggi ma soprattutto è funzionale alla dinamicità delle azioni delle partite che, secondo me, sono l’apogeo grafico dell’intera opera.

In conclusione: le precedenti considerazioni mi portano a promuovere quest’opera e a consigliarla a chi cerca una storia, per quanto prevedibile, ben raccontata, che abbia un background realistico e che racconti di personaggi, primari e secondari, a cui è difficile non affezionarsi, il tutto descritto attraverso un disegno fortemente calzante nei momenti topici della storia, un po’ meno nei momenti statici della stessa.

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«Run with the Wind» («Kaze ga Tsuyoku Fuiteiru») è un anime, a cura dello studio di animazione Production I.G., con soggetto originale di Shion Miura, che racconta in maniera superba le sensazioni di alcuni ragazzi e della loro passione, correre, in un contesto dove le emozioni supereranno la realtà.

Haiji Kiyose, un ragazzo universitario, ha un sogno: partecipare alla Hakone Ekiden, una prestigiosa maratona a staffetta universitaria del Giappone. Per cercare di qualificarsi, occorrono dieci persone, e troverà in Kakeru Kurahara, un ragazzo che aveva appena commesso un piccolo furto e che fuggiva a piedi proprio correndo veloce, il decimo. La trama si può semplificare, le continue emozioni che la serie trasmette allo spettatore no.

Haiji non vuole diventare il re dei pirati, non vuole diventare hokage e neanche imperatore magico, non ha alcuna abilità particolare, ma come tutti loro ha un sogno, solo che è un sogno semplice. Il ragazzo ha una determinazione incrollabile, tale virtù è necessaria per tentare, senza mai venire contro i propri principi, anche mettendo a rischio la propria salute, il tutto per tutto senza mai illudersi di poter far di più. Solo che il suo sogno coinvolge altre nove persone, ma, quando si corre, non si è mai davvero soli.

Quelle nove persone non possono essere più diverse fra loro (ad eccezione dei gemelli Jota e JoJi), sono tutte persone che in fondo non vogliono correre, ma che in fondo amano correre. Sono tutte persone vere, piene di difetti: la magia della corsa unita alla determinazione di Haiji saranno quel collante che renderà queste dieci persone dieci maratoneti.

Parte del fascino della serie è dovuto al forte carattere di Haiji e alla bravura del suo doppiatore, Toshiyuki Toyonaga (Mikado Ryūgamine di "Durarara!!") che, grazie alla sua performance vocale, farà guadagnare al suo personaggio il soprannome "oni", vista la sua tenacia nel convincere gli altri membri del gruppo, creando alcune delle scene più divertenti della serie. I dieci protagonisti sono squisitamente caratterizzati, tanto che facilmente si potrà empatizzare con loro, sapranno entrarvi nel cuore come gli indomabili Shindo e Yuki o il simpatico Ouji, l'otaku, e tutti gli altri.

Correre, quella sensazione di libertà che si prova mentre il vento accarezza il proprio corpo, ci sembra di domarlo, quando tutto il nostro corpo è in un frenetico e continuo movimento, ci sentiamo vivi, il tempo sembra quasi rallentare, in pochi secondi quello che vediamo in lontananza è alle nostre spalle, non vogliamo smettere. Un tale senso di libertà, una tale sensazione non è come quella che proviamo in auto, quando mettiamo la testa fuori dal finestrino, o in moto, quando si corre, no, non si deve guidare qualcosa che va veloce, devi essere tu stesso ad andare veloce. Vedendo gli episodi dell'anime, ti fa vivere l' "idea" della corsa, ti fa venire voglia di correre.

L'opera nasce come romanzo nel 2006, per poi prima essere adattata a manga nel 2007 (con disegni di Sorata Unno) e in live action nel 2009, e infine vedersi trasposta in anime. La corsa da cui prende spunto la storia è realmente una celebre gara: l'Hakone Ekiden è una manifestazione nata nel 1920 che si effettua ogni anno il 2 e il 3 gennaio. La corsa riguarda complessivamente 217,16 km, di cui 107,5 all'andata il primo giorno e 109,66 al ritorno il secondo giorno; il tragitto più breve è di 20,8 km, il più lungo di 23,1.

La animazioni, a cura dello studio Production I.G. (celebre per anime quali "Psycho-Pass", "Ghost Hound", "xxxHOLiC", "Eden of the East", le serie televisive di "Ghost in the Shell", per poi specializzarsi in anime sportivi quali "Kuroko no Basket" e "Haikyuu!! ") sono fluide, non vi sono cali durante gli episodi. I disegni sono notevoli, chiari, limpidi, le espressioni dei vari personaggi incisive, reali, soffriremo con loro, rideremo con loro. Le musiche sono ben ispirate, riuscite ottimamente e saggiamente agganciate ai vari contesti.

Bisogna precisare che, per quanto impegno e costanza ci siano, bisogna tenere conto che esiste anche la predisposizione: un atleta non si può improvvisare, parliamo di fare venti chilometri in un'ora circa, solitamente si può correre per qualche chilometro, ma farne ben venti, con costanza di velocità, richiede uno sforzo fisico non indifferente. Haiji e Kakeru sono due fuoriclasse, insieme a una squadra decente potrebbero anche puntare alla vittoria, ma a una vittoria (quasi certa) preferiranno l'incertezza del partecipare.

L'anime verso la fine si lascia trasportare fin troppo dai sentimenti, rendendolo in parte meno reale, solo per enfatizzare alcune scene che non avevano bisogno di un tale clamore; il risultato è che si rende meno godibile la gara nel suo intero.
(Nota a margine: nella gara reale vi sono tempi limiti da rispettare, che partono dal momento in cui il primo corridore raggiunge la fine del tratto, trascorsi i quali i compagni di squadra partono a prescindere dell'arrivo o meno del ritardatario).

Consigliato a chi ama emozionarsi con un'opera ben strutturata, a chi ama correre, che lo faccia per sport o per passione, e a chi segue gli sport in generale.

8.5/10
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“Levius” è una nuova serie anime di Netflix doppiata in italiano.
Andiamo con ordine. Siamo in un mondo dai toni steampunk diviso in sette continenti. L’anno è il 1842 della Nuova Era. La guerra per il controllo della cosiddetta acqua di Agartha è finita da cinque anni, e Levius ha perso molto nel conflitto. Durante l’attacco a Greenbridge - la sua città natale - suo padre è morto e sua madre è rimasta gravemente ferita, e ora è in coma. Come se non bastasse, Levius ha anche perso il braccio sinistro e porta una protesi di tipo medico.
Levius va a vivere da suo zio Zack, un ex pugile, che lo instrada al mondo del pugilato meccanico, uno sport in cui si sfrutta l’acqua di Agartha per produrre iper-vapore che muove gli arti meccanici degli atleti.

Nell’anime assistiamo a vari combattimenti di Levius nel cosiddetto grade 3 (G3), fino all’incontro per la promozione alla G2. Si dovrà scontrare con un’avversaria temibile, A. J., talmente forte da non sembrare umana. La ragazza è sponsorizzata dall’industria bellica Amethyst, il cui presidente è il folle Jack Pudding, detto Dottor Clown perché porta sempre una maschera.
Nel manga questo personaggio è visivamente molto diverso, davvero simile a una pagliaccio con tanto di naso rosso, mentre nell’anime il suo aspetto è molto più elegante, poiché indossa una maschera veneziana che gli copre metà del viso. Tuttavia, pur essendo più misurato e sobrio, la sua ideologia resta assurda: la lotta e la violenza mortale come suprema bellezza.

Il messaggio veicolato da “Levius” è quindi delicato e facilmente fraintendibile. Una lettura superficiale potrebbe suggerire che “la violenza è bella”, ma a una visione più consapevole risulta chiaro che non è così. Nell’anime (e ancora più marcatamente nel manga) esistono due tipi di scontro: quello brutale e su scala macroscopica - la guerra -, che genera vittime innocenti, distruzione e rovine, e quello volontario e controllato, praticato come forma di danza catartica. Certo, la perfezione dei movimenti e la natura non-artificiale dello scontro sul ring può portare alla morte, ma questa sarà comunque una fine onorevole, che pone fine a una altrettanto onorevole ricerca (“È meglio bruciare che spegnersi lentamente”, dissero Neil Young e Kurt Cobain). Anche se i combattimenti della Federazione sono altamente regimentati e gli atleti sono sottoposti a scrupolosi controlli, il boxare rappresenta la sublimazione del trauma della guerra appena finita (anche in “Alita” è così). Non è la stessa cosa che in “Fight Club” di Palahniuk (film di David Fincher, 1999), perché in quel caso gli incontri, sebbene strutturati, sono clandestini. Tuttavia penso che in entrambe le storie i contendenti raggiungano un certo grado di catarsi e di fuga dalla realtà (un dolore fisico per scacciarne uno psicologico). Diventare forti “distruggendo qualcosa di bello”, come il protagonista di “Fight Club” fa con il ragazzo biondo.
Naturalmente l’affermazione di Levius, “Devo salvare A. J. coi miei pugni”, va interpretata. Infatti, si capisce chiaramente che la giovane è manipolata e condizionata dal Dottor Clown. Addirittura, quando mostra tutta la sua potenza, il suo volto si trasfigura e sembra Nancy che, nella serie messicana “Dialbero”, viene posseduta dai demoni. In tutt’e due i casi, i demoni sono quelli interiori, e l’amore può essere apparentemente brutale.

Il Dottor Clown dice che A. J. è sua figlia adottiva, ma in lui non c’è vero affetto. Si tratta solo dell’infatuazione di un collezionista per un bell’oggetto, e non ci viene detto nulla della vera famiglia di A. J. (mentre nel manga si scopre che fine hanno fatto suo padre e suo fratello).
Dall’altro lato abbiamo la squadra di Levius: Zack, poi Natalia, una pugile senza casa che fa da sparring partner, Bill, un ingegnere meccanico di prima categoria, e infine, a latere, la nonna come presenza bonaria o nume tutelare. Questa è davvero una famiglia, perché se ne percepisce il calore e l’affetto, senza però che ci sia l’elemento romance che banalizzerebbe tutto.

Diversi anime e manga hanno trattato il tema della boxe affiancandolo a concetti come l’amicizia - basti pensare a “Rocky Joe” di Asao Takamori, che a me non è piaciuto, o “Rainbow” di George Abe e Masasumi Kakizaki, che invece ho trovato molto profondo, o ancora il capolavoro sui generis “Blue Fighter” di Jirô Taniguchi.

L’aspetto più bello dell’anime è senz’altro il colore, che ovviamente manca nel manga e qui invece contribuisce a dare levità ai personaggi. Voglio usare proprio questa parola, “levità”, perché “Levius” in latino significa “più leggero”. Sono tinte tenui, che riflettono benissimo la luce e sembrano anzi esse stesse composte di luce, sulla pelle, sui capelli, ma soprattutto negli occhi. Quelli di Levius e di A. J. sono blu, ma non è un colore freddo. Sono occhi blu “gloriosi e vulnerabili”, per dirla come Palahniuk. L’occhio sano del Dottor Clown è grigio, di un grigio metallico, mentre l’altro è fisso e spento come quello di una bambola. E Natalia? Stupendi occhi color ambra che ricordano quelli di Edward Elric (“Fullmetal Alchemist”): occhi di un maledetto o di un prescelto, tanto che mi chiedo se ci saranno future rivelazioni riguardanti Natalia (nel manga, non compare nel primo ciclo, quindi non so dire quanto la sua storia nell’anime sia aderente al copione originale di Haruhisa Nakata, che introduce Natalia solo nel secondo arco narrativo, quello intitolato “Levius est”). E, per finire, gli occhi di Zack: uno è di un blu profondo, l’altro è coperto da una lente speciale, perché corre il rischio di essere lesionato dalla luce diretta.
In realtà, anche nel manga ci sono pagine a colori, ma sono molto più cupe, in accordo con l’atmosfera da Rivoluzione Industriale. Nell’anime, questi toni fumosi sono riprodotti per rappresentare la città (che ovviamente riecheggia una Londra vittoriana) e sono in contrasto coi colori caldi - direi “disperati” - che caratterizzano i ricordi della guerra.
Nell’anime un altro elemento cromatico/visivo molto importante sono i lividi che, sulla pelle diafana dei protagonisti (soprattutto per quel che riguarda Levius), risaltano in modo molto realistico e ricco di sfumature.

Il manga è un po’ più complesso dell’anime, perché ci viene spiegato meglio il world building. Inoltre ci sono alcuni dettagli diversi che secondo me sono significativi: innanzitutto A. J. nel manga è muta, e poi l’incontro finale non è per la promozione al G2 ma al G1, cioè una sorta di Olimpo composto da dodici (più uno) combattenti divinizzati. E poi c’è il background relativo alla famiglia naturale di A. J.

In definitiva, quindi, l’anime di “Levius” mi è piaciuto moltissimo per quel che riguarda i colori e la luce, ma meno per quanto riguarda la storia. Bisogna infatti stare molto attenti a recepire il messaggio del Dottor Clown come chiaramente folle.

Il mondo e la struttura sono molto simili a quelli proposti in “Alita”, ma ovviamente il disegno di Yukito Kishirô è molto, molto diverso da quello di Nakata, dato che “Alita” è un manga degli anni Novanta e risente quindi dello stile grafico del periodo; inoltre “Alita” è molto chiaramente cyberpunk, e non steampunk come “Levius”.