Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

8.0/10
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Se dovessi fare una sintesi di questo anime direi: eccezionali il comparto tecnico e la regia, non all’altezza la sceneggiatura.

E’ un’opera il cui perno centrale ruota intorno ai personaggi e quello sul “Bepop”, è un viaggio che lo spettatore fa per conoscere i protagonisti: la loro storia, il loro passato, i loro affetti, ma che per certi versi rimane incompleto o, se volete, superficiale.

E’ decisamente l’animazione meno “loquace” che abbia mai visto, perché alle parole preferisce la musica: che sia il Jazz, “Bepop” è proprio un tipo di Jazz, il Blues o il Metal. L’azione c’è, ma spesso è relegata nel finale degli episodi, mentre per gran parte del racconto a farla da padrone, sono i fondali, le pose dei personaggi e i loro silenzi, che creano un’atmosfera malinconica e introspettiva.

Il comparto tecnico è semplicemente eccezionale: le musiche sono sempre azzeccate e la componente visiva, parliamo del 1998, spesso risulta vincente anche nei confronti delle più recenti creazioni nipponiche. In alcuni momenti sembra che sia utilizzata la CGI, tuttavia, non è mai riscontrabile un forte contrasto fra il fondale e il soggetto in azione, che sia un’astronave o un personaggio. Il movimento delle automobili inoltre, non presenta mai quell'orrendo effetto scivolamento, tipico della computer grafica, che si può vedere anche nei più moderni anime ad alto budget.

Se la scoperta dei protagonisti è sicuramente il fulcro della creazione, l’obbiettivo dal mio punto di vista non viene centrato in pieno: di quasi trenta episodi, troppi di questi, sono dei filler autoconclusivi, e non sempre con una trama originale, uno ad esempio richiama “2001 odissea dello spazio” , un altro “Alien” e un altro ancora ricorda una puntata qualsiasi di “Batman”.
Alcuni episodi poi, introducono dei personaggi piuttosto interessanti, che però hanno una “vita” che copre l’arco di una puntata, mentre sarebbe stato interessante rivederli anche nel corso della serie. Altre storie meritavano di essere sviluppate in più puntate, penso a quella della setta connessa a una realtà virtuale, la quale anticipa il film “Matrix” che è del 1999. Altri episodi, inoltre, prendono una piega comico/demenziale, penso a quello del “cowboy”, o “quello dei funghi allucinogeni”. Questo per certi versi potrebbe avere un senso nello sdrammatizzare un’opera a tratti cupa però, tale scelta creativa, va purtroppo a discapito dell’approfondimento della vita dei personaggi, perché tanti sono gli avvenimenti che non vengono raccontanti, e che invece sarebbe stato interessante conoscere: l’incontro tra Spike e Jet, le scelte che hanno portato Spike ad abbandonare la sua vecchia vita, la sua storia con Julia, il rapporto con Vicious…

C’è però una mancanza ancora più grave e fragorosa in questo racconto, ed è la vita di Spike durante la sua permanenza nella “Triade”: se Jet può essere considerato un “duro e puro”, visto che era poliziotto e che rimane gravemente ferito compiendo il suo dovere, di contro, tale appellativo non si può assegnare a Spike, il quale facendo parte di un’organizzazione criminale, deve inevitabilmente aver compiuto delle nefandezze, tra l’altro, da quello che si capisce, il suo rango nella triade era piuttosto alto. Questi eventi, tuttavia, vengono totalmente accantonati dall’autore, facendo apparire il ragazzo come un eroe romantico tutto di un pezzo, la cui unica macchia è l’appartenenza a quell’organizzazione, mentre si soprassiede totalmente su quello che tale confraternita compiva e, soprattutto, faceva compiere ai suoi affiliati.

Come scrivevo all’inizio, questo racconto rappresenta un’anomalia, rispetto a tutte le animazioni giapponesi precedenti e successive perché, se è vero che si erano già visti eroi solitari e taciturni, penso a “Ken il guerriero”, è anche vero che quel protagonista era sempre circondato da personaggi logorroici, e che anche i suoi combattimenti erano infarciti di spiegazioni tecniche per quanto strampalate, ma è la parola “Cowboy”, qui, a far capire che, non è verso l’animazione orientale che bisogna guardare, per trovare la sua fonte di ispirazione, ma è verso la filmografia in generale, e quella occidentale in particolare, a cui bisogna volgere lo sguardo, perché tutti quei paesaggi, quei silenzi riempiti dalle musiche, tutti quei regolamenti di conti, rimandano proprio all’epopea degli western americani. Questa scelta, se da un lato crea un manto di fascino e mistero intorno all’intera storia, dall’altro ne diviene anche un limite narrativo, poiché non permette di far emergere i sentimenti che legano i componenti dell’equipaggio, e soprattutto la loro evoluzione: Faye, ad esempio, da ragazza smaliziata ed egoista, con il tempo comincia a manifestare affetto verso l’intero equipaggio, ma le emozioni che esterna verso la fine della serie, risultano un fulmine a ciel sereno, o se volete “uno sparo dentro un’astronave” e se le scelte finali di Spike sono in qualche modo comprensibili, non lo sono altrettanto quelle di Jet.

La vita sulla “Bepop”, poi, incarna perfettamente questo stato di incomunicabilità tra i protagonisti, perché ognuno di loro, piuttosto che interagire con gli altri, preferisce starsene per fatti suoi: chi sdraiato sul divano a fumare una sigaretta, penso a Spike; chi a riparare la nave, Jet; chi a prendersi cura del proprio corpo, Faye; chi invece a lavorare sul computer, come Edward, tra l’altro non penso che sia un caso che, questo personaggio, abbia dei grandi problemi a comporre anche le frasi più elementari.

La nave risulta così abitata da un gruppo eterogeneo di persone, che non riesce mai ad amalgamarsi, per diventare qualcosa che possa chiamarsi “famiglia”. Non solo, per alcuni di loro sembra addirittura, un mero mezzo di trasporto atto a condurli verso la propria destinazione finale mentre, il paradosso di tutto questo, è che alla fine sarà proprio “la fuggitiva” Faye, ad essere l’unica a lottare per quei legami.

Considero gli ultimi due episodi un film a sé stante, e che in alcuni momenti rasenta il capolavoro registico ma, la sensazione finale che mi ha lasciato "Cowboy Bepop", è quella di un’ opera solo parzialmente compiuta che, per qualche motivo, non riesce a fare quell’ultimo passo, per poter essere considerata, non solo una buona serie, ma un vero e proprio film d’autore animato.

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Pertini ha detto "È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature", ma Yoshiki Tanaka scrivendo "Legend of the Galactic Heroes" sembra proprio volere mettere alla prova questa massima.
Questa lunga serie OAV è ambientata 1000 anni avanti nel futuro e vede metà della galassia sotto il controllo di un assolutismo imperiale, e l'altra metà sotto il controllo dell'alleanza dei pianeti liberi.
Mentre l'impero intravede davanti a sé una svolta riformista grazie alla leadership naturale e alle grandi imprese militari del geniale quanto ambizioso ammiraglio Reinhard Von Lohengramm, la democrazia nell'alleanza dei pianeti liberi si fa sempre più corrotta e degenerata, i suoi politici diventano sempre più affaristi e i suoi militari sempre più guerrafondai, fra questi vi è però un eccezione: il pigro Commodoro Yang Weng-Li il cui sogno è smettere di combattere il prima possibile per godersi una pensione anticipata e studiare la Storia.
La galassia sarà destinata ad essere profondamente cambiata da questi due uomini, opposti fra loro come il giorno e la notte: il bellicoso stratega imperiale e l'anticonformista tattico repubblicano.

Non è una fantascienza futuribile quella di "Legend Of The Galactic Heores", al secolo detto LoGH. Se escludiamo le astronavi da guerra, l'alleanza è ferma agli anni'80 del novecento mentre l'impero appare per moda e per mentalità come una copia sputata della Prussia ottocentesca. Ciò in cui l'autore manca in fatto di nuove tecnologie ed immaginazione del futuro, lo compensa però ampiamente con una abnorme conoscenza storica da cui trae spunto per le sue battaglie e le situazioni politiche che non lesinerà di analizzare e discutere. Questi elementi uniti fra loro mi hanno fatto subito accostare durante i primi episodi, il famoso LoGH all'ancora più noto "Guerra & Pace".
Nulla di più sbagliato, poiché la struttura di LoGH è del tutto differente da quella di un'opera narrativa incentrata sul punto di vista dei personaggi e strutturata secondo gli stilemi del protagonista, l'antagonista, la prova da superare e via dicendo. Approfondendo la serie OAV e il suo world building sempre più dettagliato, la storia risulterà narrata come fosse la guerra civile romana o il periodo napoleonico. Non intendo un romanzo su quelle vicende, ma proprio quelle storie stesse. L'approccio unico di LoGH è infatti quello di trattare la trama in modo storiografico. Gli imprevisti sempre dietro l'angolo, i grandi piani rimandati o resi inutili da vicende casuali, gli "effetti butterfly", le vite e le morti anticlimatiche donano infatti a questa serie una veridicità complessiva unica nel suo genere.
Se la trama orizzontale è di tipo storiografico, i singoli episodi avranno invece un piglio più narrativo, facendoci apprezzare e conoscere i personaggi, ma contribuendo ogni volta a costruire la grande storia principale. LoGH è infatti a dispetto dei suoi 110 episodi quasi privo di filler e se il diavolo è nei dettagli, lo è anche il genio dell'autore e del regista che inseriscono e richiamano spesso una marea di dettagli rinforzando sia la verosomiglianza delle vicende, sia la caratterizzazione dei personaggi.

L'anime è piuttosto vecchio essendo stato animato fra il 1988 ed il 1997 tuttavia, sebbene le parti action all'arma bianca siano notevolmente invecchiate, la parte più corposa e brillante, quella dei dialoghi, può avvalersi di un chara design che è ancora oggi fra i più ricercati, ogni personaggio è infatti perfettamente riconoscibile e unico. L'età dell'opera ha anche reso possibile che alla regia ci fosse uno dei più grandi esperti di animazione fantascientifica, Noboru Ishiguro, già regista dei blasonati "Macross" e "Corazzata Yamato".
L'età dell'opera ha però impedito la partecipazione del compositore Sawano come è invece successo nel suo recente remake, ed è un peccato perché le opening ed ending sono qui purtroppo quasi tutte dimenticabili, unico difetto veniale che viene però ampiamente compensato con una selezione OST di musica classica tedesca, e quando migliaia di navi spaziali si scontrano simultaneamente per decidere se l'universo deve essere governato dall'autocrazia o dalla repubblica, in sottofondo non c'è nulla più adatto di Wagner!

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Ogni epoca ha i suoi eroi.

L’immaginario manga vanta un’ampia gamma di personaggi incredibilmente carismatici, personalità che riescono a fungere da veri e propri modelli di riferimento, vuoi perché talvolta ci si rispecchia negli ideali dei suddetti, vuoi (cosa che nel panorama fumettistico è ancora più frequente) perché questi personaggi generano in noi un sentimento di adulazione così profondo da ergersi a veri e propri eroi. Figure come Goku, Rufy, Naruto, Lupin, Ken, Ryo Saeba, Hanamichi, Onizuka, L’Uomo Tigre, Joe Yabuki, Tsubasa, Sailor Moon e moltissime altre sono diventate delle icone a tutti gli effetti e non solo del folklore giapponese, incarnando i sogni di generazioni e generazioni di ragazzi; Capitan Harlock figura indubbiamente tra queste.

In un’epoca in cui i mecha vivevano la loro golden age, e Jeeg Robot, Ufo Robot e Mazinga Z, impazzavano espandendo a macchia d’olio la loro fama internazionale anche e sopratutto grazie ai celebri adattamenti animati facendo le fortune di Go Nagai, il maestro Leiji Matsumoto inizialmente con “La corazzata Yamato” e, successivamente, con la sua opera più importante “Capitan Harlock”, precisamente nel 1977, dava vita a quello che sarebbe stato conosciuto anni dopo come il “Leijiverse”: un universo narrativo comprendente più opere interconnesse tra loro, senza una logica consecutio, ma con diversi elementi in comune a raggrupparle in un unico macrocosmo (stile di cui poi le CLAMP saranno divulgatrici).

Anno 2977.
La razza umana è prossima all’estinzione a causa dello sfruttamento intensivo delle risorse terrestri, la classe dirigente è più interessata a giocare a golf che a salvaguardare il benessere del pianeta e gli uomini più coraggiosi si avventurano per lo spazio in cerca di luoghi migliori.
Daiba è il figlio di un importante scienziato, a seguito dell’assassinio di suo padre da parte di un’avanguardia mazionana (recluta facente parte di una popolazione aliena che ha inviato una gigantesca sfera nera sulla terra con l’intento di conquistarla) s’imbarca con l’obiettivo di vendicarlo sull’Arcadia, la leggendaria nave spaziale del capitano Harlock, considerato dalle autorità un fuorilegge.


Matsumoto, pur rimanendo nello spazio, seppe distinguersi dal filone super-robot con una trama strutturalmente semplice ma permeata da una vena malinconica e nostalgica in grado di offrire diversi spunti di riflessione. Costante la denuncia sociale, l’autore senza troppi fronzoli definisce più volte la classe dirigente come “maiali senza spina dorsale”, attribuendo la rovina del pianeta alla pessima capacità gestionale di un sistema politico corrotto.
Harlock è l’emblema della libertà e della ribellione: un pirata spaziale che viaggia per l’universo issando bandiere con un teschio, proprio ciò che il trasgressivo fermento degli anni settanta richiedeva. Una figura cupa, misteriosa, archetipo di coraggio e giustizia, Leiji Matsumoto inscenò l’eroe perfetto per quei tempi, a partire dal character design; il capitano presenta una benda su un occhio ed una cicatrice sul viso come effigi delle mille battaglie affrontate, tuttavia la cicatrice più profonda è nel cuore: la perdita del suo migliore amico è una ferita che stenta a rimarginarsi, come un solco insanabile nell’anima, e lo tormenta incessantemente.

Se il successo di “Uchū kaizoku kyaputen Hārokku” si cela indubbiamente dietro il fascino ipnotico del suo protagonista (potremmo infatti definire il manga Harlock-centrico) l’autore ha fatto un buon lavoro anche nella caratterizzazione dei comprimari, che, nonostante appaiano stereotipati, risultano tutti funzionalmente contestualizzati alla causa.
L’Arcadia è molto più di un mero mezzo di trasporto, in lei è infatti incanalato lo spirito del defunto compagno di Harlock, il costruttore dell’astronave, la quale sarà definita più volte “viva” dagli stessi protagonisti. I membri dell’equipaggio, apparentemente perlopiù scapestrati e dediti al cazzeggio, tanto da far titubare il nuovo arrivato Daiba sulla bontà della sua scelta di abbandonare la terra per mettersi in viaggio nello spazio, dimostreranno invece una grande operosità in battaglia, ricoprendo ognuno uno specifico ruolo e rivelandosi indispensabili nel momento del bisogno.
Esemplificativo in tal senso il vicecomandante Yattaran, che impegna tutto il suo tempo nella costruzione di modellini navali, trasformandosi, non appena sente odore di combattimento, nel più grande stratega dello spazio.
Le mazoniane “donne che bruciano come carta”, sono villain in grado di empatizzare con il lettore, Matsumoto nella loro caratterizzazione percorre la strada degli antagonisti atipici, già battuta da Go Nagai, di cui “Devilman” è capostipite. Memorabile l’episodio delle due avanguardie mazoniane sull’isola di Death Shadow, tra le sequenze narrative più toccanti di tutto il Leijiverse.

L’opera, pur brillando di luce propria è un omaggio a “Ventimila leghe sotto i mari” del genio visionario Jules Werne: l’Arcadia è ispirata al “Nautilus” ed Harlock si rifà palesemente al capitano Nemo.
Nonostante le contaminazioni, il mangaka confezionò un prodotto rivoluzionario, in grado di influenzare a sua volta diversi autori di successo, facendo da apripista ad opere del calibro di “Cowboy Bepop”.
Harlock, grazie anche alla memorabile serie animata diretta da Rintaro, entrò prepotentemente nell’immaginario collettivo comune, settando nuovi parametri e stereotipi nella caratterizzazione psicologica dei protagonisti (Spike Siegel, protagonista della serie cult “Cowboy Bepop”, con il suo doloroso e tormentato passato richiama evidentemente il capitano di Matsumoto).
Purtroppo non viene sviscerato il passato di Harlock, e alcuni personaggi nominati più volte come Emeraldas o Tochiro (il vecchio amico del capitano), non saranno mai approfonditi come era lecito aspettarsi. Se questa scelta può essere comprensibile una volta consci dei meccanismi del Leijiverse, (Matsumoto infatti ha successivamente dedicato serie apposite ad alcuni dei personaggi in quest’opera soltanto menzionati) il fatto di non poter leggere l’epilogo dello scontro tra il capitano Harlock e Raflesia, la regina di Mazone, è un qualcosa che irrimediabilmente pesa sul giudizio finale. L’opera purtroppo si chiude senza concludersi, risultando incompleta.


Il tratto di Matsumoto ricorda quello di Tezuka, e i novizi potrebbero trovarlo attempato. I personaggi secondari, per la maggior parte stilizzati e caricaturali, presentano tratti appena accennati.
Le donne invece (e qui si vede il passato dell’autore da disegnatore di Shojo) raffigurate eteree ed angeliche, sono bellissime, peccato si somiglino un po’ tutte.
Stupende tavole mute, raffiguranti l’Arcadia abbracciata dallo spazio nero infinito, accompagnano sporadicamente il lettore tra un capito e l’altro, immergendolo in un silenzio universale; pagine silenti tra le quali sembra quasi di udire il dolce e malinconico canto dell’aliena Meeme, la più stretta confidente di Harlock, unica sopravvissuta della sua specie.

"Vago per le galassie, la gente mi chiama Capitan Harlock... Vivo in libertà, in questo oceano oscuro chiamato spazio, senza un domani, issando bandiera con un teschio... finché avrò vita... finché il sole non smetterà di bruciare... E sotto la mia bandiera, sotto il mio vessillo, io sarò libero".